Viaggio avventuroso del Ruzzese tra i rimandi di spazio e tempo
di Marco Magnoli

I vitigni, si sa, viaggiano; e, se non lo fanno i vitigni, viaggiano i vini.
Viaggiano perché incontrano gli uomini e spesso ne nascono intricati racconti, storie di rocambolesche avventure, gustose bizzarrie e arzigogolati sofismi sbocciati nei luoghi e nei tempi più disparati e distanti. Quando viaggia un vitigno, di solito finisce per radicarsi; se, invece, viaggia il vino, ovunque giunga narra inevitabilmente delle sue radici.
Per capire lungo quale strada muoversi, riconoscere il luogo in cui si arriva, spiegare da dove si viene, può servire una mappa?
Josiah Royce, Il mondo e l’individuo: «Immaginiamo che una porzione del suolo d’Inghilterra sia stata livellata perfettamente e che in essa un cartografo tracci una mappa d’Inghilterra. L’opera è perfetta; non c’è particolare del suolo d’Inghilterra, per minimo che sia, che non sia registrato nella mappa; tutto ha lì la sua corrispondenza. La mappa, in tal caso, deve contenere una mappa della mappa, che deve contenere una mappa della mappa della mappa, e così via all’infinito.»
Supponiamo una sequenza cinematografica. Si apre col vasto universo e poi stringe via via sul dettaglio: un gruppo di galassie, la Via Lattea, il Sistema Solare, la Terra; quindi l’Europa, l’Italia, la Liguria, il Levante, Bonassola e, finalmente, la vigna alta sui Piani di Cà du Ferrà, proprio sul ciglio estremo dove, impavidi e un poco strafottenti, stanno i filari di Ruzzese affacciati sul mare tra cornici di terre lontane.
Ecco la mappa della mappa, precisa trascrizione che disvela con minuzia ogni singolo elemento del territorio in un regresso infinito. L’uva e, poi, il vino riverberano spazi e tempi: la fisicità dei climi, dei suoli e degli ambienti; la storia e lo spirito degli uomini.

Un fragile nonsense?
Lewis Carroll, Sylvie e Bruno: «Abbiamo fatto una mappa del paese in scala un chilometro a un chilometro. […] Non siamo ancora riusciti a spiegarla. I contadini hanno protestato: dicevano che avrebbe coperto tutto il paese e impedito ai raggi del sole di toccare i campi. Per cui ora usiamo il paese stesso come mappa; e le assicuro che serve perfettamente.»
La vite e il vino sono tutto ciò che occorre per orientarsi, sospesi in una dimensione dove, come tra due specchi, si ripropone un’interminabile teoria di reciproci riflessi persi tra passato e futuro. Eppure, paradosso del paradosso, le immagini immutabili in realtà mutano, cambiano temi, prospettive e proporzioni, si rinnovano in un continuo presente. Il passato e il futuro – diceva Sant’Agostino – vivono qui e ora, nella memoria e nell’attesa.
Ottobre 2015. Davide Zoppi e Giuseppe Aieta, vignaioli a Cà du Ferrà, muovono da Bonassola a Vernazza per partecipare a un convegno sul recupero degli antichi vitigni.
Lì, inattesa scoperta, incontrano il ruzzese, varietà ligure dalle caratteristiche uniche e ai più sconosciuta. Vitigno a bacca bianca, con buona probabilità originatosi proprio nel Levante ligure, fu per secoli assai presente nei vigneti locali. Poi la progressiva scomparsa, il lento e inesorabile declino a partire dal primo Novecento, vittima come tante uve dell’infida e infame fillossera. Rischierebbe il completo oblio se, su iniziativa della Regione Liguria, intorno al 2007 il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Torino e l’Istituto Nazionale di Protezione Sostenibile della Vite non avessero sguinzagliato la professoressa Anna Schneider e il professor Franco Mannini a perlustrare tutto il territorio alla ricerca dei vitigni storici, dal Ponente al Levante. Ed è qui che, giunti ad Arcola, si imbattono in una misteriosa pianta madre dal ceppo importante; ne estraggono la sequenza genetica e individuano lo storico ruzzese, l’uva quasi leggendaria che, sulla scorta di vetuste cronache, stavano cercando.
Sedotti dal vitigno e dalle sue peripezie, Davide e Giuseppe decidono di piantarlo nei loro vigneti affinché si racconti: il ruzzese diventa Ruzzese.

Ottobre 1492. Il genovese Cristoforo Colombo scopre l’America.
Una piccola rifrazione, un’effimera corrispondenza – ottobre per ottobre – e risplende un’altra scoperta. Di diversa portata, non v’è dubbio; ma il gioco di specchi è qui troppo curioso. Le vicende umane ed enoiche si intrecciano prodighe di improvvisi sviluppi e da una fortuita coincidenza spesso si dipanano e si allacciano i fili di avventure picaresche.
Siate, dunque, benevoli e seguiteci in questo strampalato regresso.
Per ora l’America lasciamola là, dove forse nemmeno Colombo ha mai compreso che fosse. Restiamo nel nostro piccolo Mediterraneo, a bordo della caravella con la quale Cristoforo commerciava, tra altre mercanzie, anche vino ligure. Di sicuro Moscatello di Taggia, lo provano documenti originali. Noi, però, vogliamo esser novellieri e concederci, per licenza, di adocchiare nella stiva qualche botte di Razzese, che ai tempi sfoggiava la primigenia “a” anziché la più rustica “u”.
E dove andava il Razzese di Colombo? A Roma, ovviamente; alla corte del Papa!
Un nuovo riflesso si irradia sino a fine Cinquecento e illumina pagine celeberrime, all’epoca ancor fresche di stampa: Andrea Bacci, De naturali vinorum historia. La rinomanza dell’opera dà oggi ancor più rilievo a ciò che, nel Liber Sextus, si dice del Razzese: «Per me è verisimile congetturare che questo tipo di vino da principio sia stato chiamato dalla gente del posto genericamente Rosato derivandone il nome dal suolo natio – mons roseus –, o piuttosto dal nome della rosa. Oppure, se vogliamo lasciarci guidare nello spiegarne il nome dalle caratteristiche della coltivazione, sembra che quegli stessi abitanti abbiano voluto definire Racemosum quel vino come anche le viti – «ricche di grappoli» – dalle quali si produce, che abbondano in particolare nei vigneti sotto il predetto Monterosso ed in altri luoghi delle Cinque Terre. Questo tipo di uve infatti, per effetto del sole molto caldo e per il riflesso continuo del calore che viene senza posa riverberato dalle asperità rocciose del terreno, si riscalda intensamente e circa i primi giorni del mese di luglio incomincia a maturare e nel corso dei giorni che portano ad agosto si raddolcisce e, soprattutto per il fatto che le viti sono basse e pertanto semiappassite già alcuni giorni prima della vendemmia, dalle uve semplicemente pigiate e spremute si spande il sincerissimo liquore del vino. Subito dopo lo riversano nelle sue vinacce e, dopo una bollitura adatta a far sì che il mosto si schiarisca ed acquisti dai raspi come dalla sua propria matrice la sua succosa caratteristica, dopo quattro o cinque giorni lo si estrae ormai purificato e lo si chiude in grandi botti ben colme. Dopo che s’è riposato per un bel po’ di tempo lo travasano in vasi più piccoli e lo affidano al mare e dicono che con il moto delle onde si perfeziona. Pertanto qui a Roma abbiamo la possibilità di conoscere questi vini sincerissimi nella sostanza, piuttosto grossi che soavi, di straordinario odore e limpidi nella loro splendidezza dorata che scintillano blandamente nei bicchieri. Sono vini gradevolissimi a bersi e molto nutrienti massime per gli anziani per l’autorevole attestazione e l’esperienza di papa Paolo III che li beveva specialmente in autunno e durante i grandi freddi dell’inverno.»
La storia è scritta. Non resta che rileggerla e reinterpretarla aggiornando la tradizione di un dolce ed energico vino mediterraneo.


Aprile 2023. Cà du Ferrà presenta Diciassettemaggio Ruzzese Liguria di Levante Passito Bianco 2020. Mai assaggiato un passito così, sfumato d’ambra e topazio. Non le usuali note di albicocca essiccata, uva passa o fichi, bensì uno scrigno di incantate spezie orientali, pasta di mandorle, babà, lievissime allusioni di torba, erica, setosi petali appena sfioriti avvolti da una grande dolcezza che pure così dolce non è, rinverdita dalla frescura agrumata che snellisce la grassa pienezza del sorso. Sullo sfondo, raffinato e singolare, un filo di resina, di esotico cedro del Libano.
Innumerevoli sono, nondimeno, gli scorci aperti dal vino e soggettivi i punti di vista dai quali osservarli. Il Ruzzese passito è, appunto, storia già scritta. Da Davide e Giuseppe ci aspettiamo qualcosa di ancor più unico e originale, moderno e attuale; qualcosa che sia solo loro.
E l’inconsueto, infine, arriva.
Marzo 2025. Vicenza, Biblioteca Internazionale La Vigna. Il Ruzzese di Cà du Ferrà si fa secco per trascendere ogni schema: Zero Tolleranza per il Silenzio Liguria di Levante Bianco 2023.
Il nome è un manifesto di libertà, affermazione, identità. Un atto di coraggio, una presa di posizione: “È il rifiuto di restare in silenzio, di lasciarsi scivolare addosso la vita senza dire la propria. Riflessione profonda, provocazione culturale prima ancora che estetica, esortazione alla responsabilità individuale contro l’omertà, l’indifferenza, la paura di esporsi.”
Completamente bianca l’etichetta, crogiuolo di ogni colore, inesauribile di possibilità. Solo strappata svela il suo messaggio, invito a cercare sempre ciò che sta sotto, ciò che sta dietro. “Il vino – sostiene Davide – è crescita umana, è l’occasione di unire i puntini attraverso le relazioni” per afferrare finalmente ciò che troppo spesso è solo allusione appena accennata.
Il Caso è, però, divinità beffarda; tutto scombina per ricomporre e stupire. Tornano i nomi e tornano le corrispondenze.
Gigi Brozzoni rimugina, rammenta, si accende: “Ruzzese… No! Era Razzese! Trent’anni fa!”
Di colpo ricompare Colombo; e di nuovo siamo in America.


Veleggiamo intorno al 1992, anniversario importante.
Gigi ricorda come, per i cinquecento anni dalla scoperta dell’America, qualche istituzione governativa italiana avesse progettato una trasferta a Washington per portarvi la nostra musica, la nostra danza, la nostra arte.
Il Seminario Veronelli pensò di portarci il nostro cibo e il nostro vino.
Si coinvolsero Ezio e Renata Santin dell’Antica Osteria del Ponte di Cassinetta di Lugagnano, che con la loro perizia avrebbero dovuto imbandire la tavola.
Si coinvolsero Attilio Scienza e la sua squadra a San Michele all’Adige, che con la loro sapienza avrebbero dovuto elaborare vini fuori dall’ordinario, che richiamassero la terra e i tempi di Colombo.
I fondi governativi, tuttavia, alla fine non arrivarono. Con somma ironia della sorte, anziché celebrare una grande impresa navale, il progetto naufragò.
Ma i vini no. Ne furono prodotti quattro. Gigi ne è certo e subito si mette in cerca nella sua cantina perché “forse, però non sa, probabilmente”… La memoria si fa attesa finché, dopo qualche giorno, giunge lieta la novella: è riemersa la bottiglia di Razzese!
Giubilo, entusiasmo, un po’ di emozione e appuntamento al Seminario Veronelli per un inebriante convivio: si sciolgano, passato e futuro, nel gran teatro della suggestione.
Maggio 2025. Davide e Giuseppe partono da Bonassola; in bottiglia, insieme al Ruzzese, i progetti, le idee, la loro Liguria. Graziana Grassini, enologo di Cà du Ferrà, parte dalla Toscana piena di curiosità e aspettative. L’umile narratore di questa storia parte da Varese, senza ben sapere che piega prenderanno gli eventi. Gigi è di casa a Bergamo e porta le “reliquie” alla sede del Seminario con il sorriso sornione di chi già sa che la giornata sarà formidabile.
Ora la cronaca si fa complicata, perché un’atmosfera quasi onirica cala sui ricordi.
Di sicuro rammento che, dei vini prodotti per la mancata trasferta americana, tre soli sono sopravvissuti. Non il Moscatello, di cui ogni bottiglia è letteralmente esplosa causa – si pensa – rifermentazione. Il Chiaretto, da uve “sclava”, riaffiora invece dalla sua bottiglia bassa e squadrata, ma solo per esalare un ultimo, stanco respiro. Presente e vivo, invece, il Vernazza, vinificato dalla “Cooperativa Agricoltura Cinque Terre” quasi certamente da uve bosco, albarola e vermentino; in pratica è uno Sciacchetrà, dopo oltre trent’anni ancora capace di irretire e di rapire in una dolcezza che si è completamente asciugata, soavemente avvolta intorno a deliziose note di tamarindo, macchia mediterranea, marmellata di fico, scorza di bergamotto essiccata.


Il vero fremito, però, è per i protagonisti più attesi. Li scorgo incedere più nitidamente; l’alta e slanciata bottiglia di Razzese, annata 1990 o 1991, e accanto ad essa, in foggia borgognotta, il Ruzzese Zero Tolleranza per il Silenzio 2023.
Un dialogo dapprima sommesso, un poco sospettoso, stimolato dai primi timidi profumi si fa presto libero e schietto scambio tra epoche e mondi distanti, diversi, eppure saldi agli estremi di una medesima continuità.
Il Razzese prende l’iniziativa. Ci parla di un Levante che non cede e conserva intatta la sua voce, resa dagli anni più profonda e consapevole nelle tonalità vagamente ambrate in cui si riflette la stessa luce del sole di Liguria che rimbalza sul mare e sprizza attraverso la buccia degli acini maturi, rifratta dalla polpa densa e sugosa.
Il Ruzzese risponde con la cordiale luminosità dei suoi toni dorati, ravvivati da lampi di luce verdigna, di linfa viva e fresca. Una promessa di fragranza subito mantenuta dal profumo sottilissimo, fine, assai elegante, dove le erbe aromatiche, gli agrumi e il tocco di foglia di alloro calda di sole si fondono ai vaghi accenni tostati e all’intrigante vezzo di pietra focaia, al velo di idrocarburi. Il gusto è altrettanto profondo, ricco di chiaroscuri; una mite primavera che pare volgere all’estate con i suoi frutti fragranti, inebriati di guizzante acidità. Lunghissimo il finale, nitido, sapido, fin quasi roccioso; forse è lo stesso sapore della placca marina che milioni di anni fa ha sollevato i Piani di Cà du Ferrà fino a sovrastare il mare.
Il vino, compiaciuto, continua a intrattenerci lungo i tanti sentieri che si snodano tra le colline di Levante, ora brulli, sassosi e assolati, ora più verdi e ombrosi, picchiettati di limoni, ginestre e oleandri, di cespugli di basilico, lavanda e rosmarino.

Un breve scintillio abbaglia gli occhi, lo sguardo si distoglie giusto un attimo. Repentino riappare il Razzese e l’estate antica si fa più piena, è quasi un meriggiare sotto fronde cariche di frutti dolci e ben maturi, colmi di umori che si allargano e rincalzano il lento cadenzare del tempo, appena ossidativo. Note persino mielate d’acacia si raccolgono insieme alla liquirizia e a qualche evanescente cenno di nocciola e mallo di noce, blandite da una brezza leggera che insaporisce e rinfresca il palato intrisa di un sottile rilievo tattile e tannico che dà nerbo e ritmo a una strabiliante capacità di racconto.
Il viaggio si è dunque compiuto, fra echi di storie distinte che si incastrano gli uni negli altri; perché Razzese e Ruzzese non parlano la stessa lingua e tuttavia sembrano trovare intesa nelle radici di un idioma comune, un medesimo e primitivo sostrato ampio e polposo avvolto in un aroma vagamente levantino e resinoso che pare già altrove avvertito, fascinoso miraggio di cedro del Libano.
Liquide mappe si riflettono senza confini e si perdono in se stesse, ripropongono inesauribili regressi che pure, a ogni ulteriore rimando, inventano qualcosa di nuovo, mai prima svelato, mai prima raccontato.
Poco sappiamo, in effetti, di questo Razzese che il Ruzzese ha voluto incontrare.
Un mistero la reale identità del vitigno, la vigna di provenienza, i passaggi della sua trasformazione in vino.
Meglio sarebbe confessare che, in realtà, preferiamo conservare l’arcano. Forse lo vogliamo invero suscitare, prigionieri delle armoniose assonanze bisbigliate dai calici.
Il nostro è stato un sogno? Un paradosso? Un nonsense?
In fondo insensato è il domandarlo. Il vino e la sua magia vivono anche della capacità di creare vorticosi calembour, spericolati accostamenti, prepotenti sintonie. Persi lì in mezzo, a volte si anela al quieto rifugio di un déjà-vu da cui riemergere un po’ spaesati giusto per comprendere come da uno specchio all’altro, tra gli spazi e i tempi, quel che si riflette sono solo folli emozioni moltiplicate all’infinito, che ci turbano dolcemente e fanno immensità della nostra pochezza.

Nota per i lettori
Questa fugace storiella si ispira agli aneddoti, ai pensieri alle sensazioni e alle suggestioni che Davide Zoppi, Giuseppe Aieta, Graziana Grassini, Gigi Brozzoni ed io abbiamo condiviso il pomeriggio del 19 maggio 2025 al Seminario Veronelli in Bergamo, seduti intorno a un tavolo zeppo di bottiglie, calici e umanità.
Possibile che vi abbia narrato il vero raccontando il falso?

MARCO MAGNOLI
Deve alla tradizione familiare la passione per i vini di qualità e a Luigi Veronelli, incontrato nel 2001, l’incoraggiamento ad occuparsi di critica enologica. Dal 2003 è collaboratore del Seminario Permanente Luigi Veronelli. È tra i curatori della Guida Oro I Vini di Veronelli.