a cura di Simonetta Lorigliola

Phaeomoniella chlamydospora, Phaeoacremonium aleophilum, Fomitiporia mediterranea… Nomi che sembrano quasi aulici e invece indicano una minaccia per i vigneti di tutto il mondo. Si tratta, infatti, dei funghi che causano il mal dell’esca.

Questi agenti patogeni colonizzano i vasi linfatici e il legno della vite, compromettendo la traslocazione dell’acqua e dei nutrienti dalle radici alla parte aerea della pianta.

La vite soffre, si ammala, annichilisce lentamente, si secca e muore.

Il nome “mal dell’esca” sembra derivare dall’utilizzo che si faceva in passato del legno “cariato” e disseccato delle viti morte, come materiale “esca”, per innescare il fuoco. Si tratta, infatti, di una malattia che esiste da lunghissimo tempo.

Ma la sua diffusione a macchia d’olio si è registrata negli ultimi decenni. Fino a far pensare a una sorta di “pandemia della vite”.

La gravità di questa patologia è aggravata dal fatto che non esiste alcun rimedio in grado di contrastare la malattia.

O, meglio, non esisteva.

Oggi abbiamo uno spiraglio, e viene dal campo, anzi dal vigneto. O, meglio, da una attenta e rigorosa sperimentazione agronomica che è partita da una delle aziende storiche in una delle denominazioni più importanti del nostro paese, Montalcino.

Abbiamo incontrato Alberto Passeri, agronomo e vignaiolo che, nella sua azienda La Gerla a Montalcino, da alcuni anni si applica scientificamente e sperimentalmente sul tema.

Di che sperimentazione si tratta? Chi sono i soggetti coinvolti, da dove si parte e qual è l’obiettivo?

Siamo partiti da un’analisi della pericolosità crescente di questa patologia, presente anche nei nostri vigneti, come in quasi tutto il mondo vitivinicolo.

Basti pensare che oggi in California si è stimato il danno da mal dell’esca in 1,5 miliardi di dollari all’anno.

La Gerla si è resa disponibile a fare da capofila  a un progetto pilota in collaborazione con il CREA di Arezzo. La sperimentazione è iniziata nel 2018.

Siamo anche in contatto con l’Università di Stellenbosch (nel distretto di Cape Winelands in Sudafrica n.d.r.) con cui condividiamo analisi e informazioni.

Al progetto si sono poi aggiunte, con adesione individuale, altre aziende in Montalcino e in Toscana tra cui Querciabella, Caparzo, Banfi, Castello di Montepò, Biondi Santi, Fattoria Mantellassi nel Morellino. Sono, inoltre, in valutazione Tenuta San Leonardo, della famiglia dei Guerrieri Gonzaga, in Trentino e le aziende appartenenti all’Associazione Produttori di San Donato in Poggio nel Chianti classico, oltre all’azienda Borgo Antico, nella Doc Prosecco.

L’allargamento ad altre aziende è essenziale e serve per sperimentare il trattamento con altri vitigni, in altri microclimi, e per valutare la cura in altre zone vitivinicole.

Questo è fondamentale visto che crediamo molto in un progetto che aiuterà la viticoltura in generale. Vorremmo offrire uno strumento di contrasto efficace a un problema molto serio e diffuso.

In cosa consiste, nello specifico, la cura che state sperimentando?

Si tratta di un triplice trattamento.

La fase uno prevede l’applicazione di una pasta cicatrizzante che viene spalmata su un taglio predisposto sulla pianta.

Poi ci sono due trattamenti bagnabili. Il primo viene spruzzato “sul bruno” dopo la potatura, quindi prima del germogliamento e dopo la fase di spollonatura per avere una copertura protettiva sulle ferite che sono le porte di ingresso di questi patogeni.

Poi anche i tralci potati, che vengono prima tagliati e sminuzzati, possono essere trattati insieme a un concime organico attivato con la stessa tecnologia, dando luogo a una sorta di “concimazione attiva” del suolo colonizzante e molto invasiva sugli spazi occupati dalle spore del mal dell’esca.

Riassumendo ci sono quindi tre passaggi: il primo, trattare la pianta malata; il secondo, prevenire l’infezione sulle piante sane con trattamenti specifici dopo la potatura e la spollonatura e il terzo, andare a lavorare sul terreno poiché è ormai accertato che è là che risiedono la maggior parte delle spore.

Quali sono i principi attivi presenti nel prodotto?

Lavoro su questo progetto con gli altri due soci della nuova start up nata in questo percorso, Mario Guerrieri, agronomo specializzato in viticoltura, consuma lunga esperienza in colture tropicali e subtropicali in colture, colture biologiche e biodinamiche, ricerca in campo nutrizionale e fitopatologia e Roberto Ercolani, agronomo che si occupa da molti anni di innovazione e ricerca su fertilizzanti e corroboranti bio.

È proprio sulla filosofia del bio che si basa il nostro progetto. Infatti questo nuovo prodotto lavora sulla parte microbiologica e la ristrutturazione fisica di alcuni elementi che movimentano la linfa all’interno dei vasi della pianta.

Finora contro il mal dell’esca venivano utilizzati solo prodotti di contatto o microbiologicamente attivi come i tricodermi. Il problema era, ed è, che questi costituiscono solo una parziale prevenzione all’infezione, ma nulla di realmente curativo e stabilizzante che approcci il problema a 360°: cura, prevenzione e attenuazione della carica patogena nell’ambiente vitale della pianta.

Questo prodotto, invece, entra nei vasi linfatici e quindi nel sistema biologico della vite, cerca i cluster di funghi che creano quella sorta di “colesterolo della vite” all’origine del mal dell’esca e li contrasta, riattivando il processo virtuoso della pianta sana.

Il principio attivo è costituito solo in parte  da tricodermi che, a oggi, sono i più usati nella strategia di prevenzione, per il resto sono affiancati da altri componenti microbici e non (il recente brevetto ci impone la riservatezza), che con effetti sinergici positivizzanti, aumentano enormemente l’efficienza idraulica dei vasi linfatici della pianta malata, riattivando ciò che sembrava irrimediabilmente compromesso.

Dobbiamo ricordare che l’ecosistema vite, nel campo, è molto complesso ed estremamente “inquinato” ovvero presenta una grande variabilità di microrganismi (e anche di patogeni).

Se un prodotto somministrato è troppo mirato e specializzato avrà vita dura: in una tale complessità quasi sicuramente si troverà a soccombere, anche in poche ore, se le condizioni non gli sono favorevoli.

Se, invece, il prodotto è di per sé complesso ha molte possibilità di essere più efficace. In questo prodotto è proprio la complessità il principale fattore funzionale. E il principio attivo è protetto da questa rete di microorganismi che rappresenta il cavallo di Troia per entrare nelle mura e sconfiggere i patogeni.

Per arrivare a questa composizione ci si è ispirati alla natura e al suo equilibrio che si basa sulla biodiversità.

Una della pratiche previste dal trattamento è il taglio del fusto, come lo gestite?

Il taglio che procuriamo alla vite è certamente invasivo: la pianta viene tagliata verticalmente dallo sperone fino al punto di innesto, si cercano le necrosi che i funghi procurano alla vite.

Ma lo si fa senza dover scavare o asportare nulla: facciamo una specie di impacco, che ha un’alta adesività e, quindi, non viene dilavato da pioggia o agenti atmosferici.

Anzi, la sostanza utilizzata riduce l’umidità della ferita e così il taglio oltreché sanificato viene anche protetto dall’attacco di altri patogeni.

Abbiamo notato che, con questo prodotto, si attivano altri due processi virtuosi nella pianta.

Innanzitutto la vite è spinta a produrre radici: in questi anni spesso molto aridi, un apparato radicale espanso e profondo preserva le piante dagli eventi estremi, in primis la siccità.

Secondo fattore conseguente è che la pianta resiste meglio alle patologie fungine classiche come oidio e peronospora (tramite il trattamento a legno fermo estremamente efficace sulle spore svernanti esogene ed endogene) o anche ad altri fenomeni patologici del legno e altre tipologie di tracheomicosi tipiche dell’apparato linfatico della vite.

Questa nuova cura prevede di concentrarsi solo sugli individui malati?

Il discorso deve essere globale: la cosa fondamentale resta ed è una gestione sinergica del vigneto, tutto deve procedere insieme.

Il trattamento deve essere abbinato a una corretta potatura (il mal dell’esca entra in via privilegiata dai tagli della potatura, naturalmente) per esempio, e con una corretta e virtuosa gestione del vigneto.

Non dobbiamo solo pensare a curare, ma soprattutto a prevenire.

E poi c’è il discorso fondamentale sulla cura del suolo, che ospita le radici. Noi, da molti anni, siamo attenti a mantenere la corretta carica microbiologica del suolo perché l’attività radicale è fondamentale: se la vite non sta bene nel sottosuolo non può star bene nemmeno nella parte aerea.

Bisogna puntare all’equilibrio nel terreno: sovesci, inerbimenti, concimazioni organiche bilanciate, utilizzando possibilmente prodotti autorizzati dai protocolli di certificazione bio.

La prevenzione è una pratica fondamentale: utilizzando la tecnologia Escafix in vigneti ancora sani, siamo convinti che la diffusione della malattia sarebbe molto ridotta e si avrebbe un evidente prolungamento della vita del vigneto, con importanti benefici sia in termini quantitativi che qualitativi.

Oggi il prodotto è disponibile ed è stato brevettato?

Certamente. Abbiamo fondato la citata start up Escafix, il brevetto per ora è solo italiano ma abbiamo già iniziato il percorso per renderlo anche internazionale.

E per quanto riguarda i costi?

Abbiamo valutato che, in rapporto ai danni che vogliamo contrastare, è un costo sostenibile, un costo in linea con quello di altri prodotti oggi utilizzati.

Dal 2018, anno di avvio della sperimentazione, a oggi quali sono i risultati?

I risultati ottenuti finora sono confortanti. Da quando siamo partiti con la sperimentazione abbiamo fatto 4 vendemmie e 4 sostanziali interventi invernali ed esiste una relazione finale del CREA che riassume le evidenze sperimentali.

Sul sangiovese c’è stato un recupero di piante malate (con malattia conclamata, colpo apoplettico e, quindi, foglie tigrate e quasi autunnali a fine luglio) pari all’85%.

Abbiamo registrato anche una regressione nei nuovi attacchi passando da un annuale 5 o 6% al 2%.

I risultati monitorati hanno rilevato, in generale, una minore mortalità,

una seria riduzione degli attacchi, una maggiore produzione di legno sulle piante colpite e un risveglio vegetativo evidente.

La mortalità tra le piante non trattate è di 5 volte superiore rispetto a quelle trattate. E, comunque, le recidive possono essere ritrattate l’anno successivo con percentuali di recupero interessanti.

Il mal dell’esca ha da sempre colpito maggiormente le viti vecchie, anche se oggi si rileva anche sulle giovani piante. Il trattamento funziona egualmente su entrambe le tipologie?

Certamente. Ma un punto cruciale e importante è che questo prodotto è uno strumento che ci consente di curare le vigne storiche, di tutelarle e di evitare che si estinguano.

Sono le vigne vecchie a essere maggiormente colpite dalla patologia, benché questa si stia diffondendo ora anche sulle viti più giovani.

Le viti vecchie sono un vero e proprio patrimonio botanico, ambientale e culturale del nostro paese, è un bene della comunità. Preservarle, ove possibile, è imperativo.

A oggi, nella nostra azienda, la vigna che ci dà maggiori soddisfazioni è la Vigna degli Angeli, una vigna storica, a cui questo trattamento contro il mal dell’esca ha regalato nuova vita da anni.

Io dico che, se anche si riuscisse a dare qualche anno di vita in più ai vigneti storici, sarebbe già un notevole successo.

Si ridurrebbe così il fenomeno dell’espianto, sempre più diffuso, laddove anche la sostituzione delle fallanze, non è una mai una soluzione ottimale: la piccola vite in un vigneto storico è come un pesce fuor d’acqua, in ogni senso.

Qual è il suo pensiero sull’origine, non ancora chiarita definitivamente, di questa massiccia diffusione del mal dellesca, quasi una pandemia della vite?

Le cause sono multifattoriali. Sono convinto che, a partire dai primi anni Novanta, l’intensificazione della viticoltura abbia creato una crescente e forse eccessiva pressione sull’attività vivaistica e, così come è successo per la qualità del sughero, l’eccessiva domanda abbia determinato un boom in cui la qualità del materiale vivaistico ne ha risentito drasticamente.

Oggi stiamo assistendo al risultato di questa corsa.

Poi c’è anche un aspetto subdolo perché il male è ascrivibile a più famiglie di funghi che hanno trovato spazio di riproduzione maggiore in una situazione di clima mutato, divenuto altalenante e con eccessi mai visti come il fatto che in inverno non fa più abbastanza freddo, così da consentire ai patogeni di svernare e ripresentarsi in primavera, in numero sempre crescente.

Che uve producono le piante malate e poi guarite? 

È noto che l’uva di una pianta che ha il mal dell’esca è mediocre, non raggiunge la maturazione, è un’uva inutilizzabile per un prodotto di qualità.

Durante la vendemmia – che a La Gerla eseguiamo rigorosamente a mano – guai a chi tocca i grappoli di una vite malata: non si raccolgono per non interferire nella qualità del vino e anche per non favorire la trasmissione del patogeno.

Ma la cura anche sotto questo aspetto sembra funzionare: l’uva delle piante curate è del tutto in linea con quella delle piante sane.

Non è solo un’impressione personale: abbiamo realizzato micro vinificazioni  comparative per verificarlo, monitorando tutti i parametri sia in fermentazione che nelle fasi di successivo affinamento. Il risultato è davvero molto rassicurante.

Cosa prova il vignaiolo Passeri di fronte a un vigneto in cui le piante malate sono recuperate alla vita e alla produzione?

Vedere le piante guarite è una grande una soddisfazione data dalla sensazione di poter acquisire una parte attiva nel contrasto alla malattia e non dover semplicemente constatare un impoverimento del proprio patrimonio vitivinicolo.

Poi c’è la curiosità di andare avanti, capire cosa succederà l’annata successiva, in base all’andamento climatico e ai fattori diversificanti. Infatti, in particolari annate, il mal dell’esca è più aggressivo: quando, per esempio, ci sono gelate o  siccità oppure condizioni di alta umidità le piante sono più sensibili.

Seguiamo le piante una a una e abbiamo constatato che il nostro prodotto le fortifica. È una grande soddisfazione. Ti dà la sensazione concreta di poter fare qualcosa per salvare i tuoi vigneti.

Si, perché, oramai è un mantra: il vino si fa in vigna. Ma bisogna sostenere realmente il vigneto e soccorrerlo, senza però interferire nel patrimonio genetico della vite, a mio modo di vedere.

E credo che questa nostra sperimentazione dimostri che sia possibile farlo.

La Gerla è azienda storica, e cura una delle antiche vigne d’Italia: la Vigna degli Angeli. Il vino che ne nasce è vino memorabile. Gigi Brozzoni ce lo racconta in questo singolare Ritratto enoico del Brunello di Montalcino Riserva Gli Angeli 2015.


Simonetta Lorigliola

Simonetta Lorigliola, giornalista e autrice, si occupa di  cultura materiale. È nata e cresciuta in Friuli. Ha frequentato l’Università degli studi di Trieste, laureandosi in Filosofia. È stata Responsabile Comunicazione di Altromercato, la principale organizzazione di Commercio equo e solidale in Italia. Ha collaborato con Luigi Veronelli, nella sua rivista EV Vini, cibi, intelligenze e nel progetto Terra e libertà/critical wine. Ha vissuto in Messico, ad Acapulco, insegnando Lingua e cultura italiana. Ha diretto Konrad. Mensile di informazione critica del Friuli Venezia Giulia. Da molti anni collabora con il Seminario Veronelli per il quale è oggi Caporedattrice e Responsabile delle Attività culturali. Le sue ultime pubblicazioni sono È un vino paesaggio (2018) e Eolie enoiche (2021) entrambi editi da Deriveapprodi.
Foto di Jacopo Venier