di Marco Magnoli

Oggi, 2 febbraio 2022, Luigi Veronelli avrebbe compiuto 96 anni.

Secondo i suoi propositi, sarebbe dovuto rimanere con noi per più di un lustro ancora; ci ha ormai lasciati, invece, da quasi vent’anni.

Con ogni probabilità, però, il suo spirito non cesserà di vagare ben oltre il traguardo dei 103 anni che si era prefisso di trascorrere camminando la tanto amata Terra.

La sua influenza culturale, libera, originale, lontanissima dalla banalità, continua ad orientare molti di quelli che lo hanno conosciuto, ispirando al contempo l’opera di tanti giovani che non hanno avuto modo di frequentarlo o di apprenderne direttamente le lezioni.

Non voglio unirmi al coro degli agiografi esaltando il grande uomo che Veronelli fu; non lo conoscevo così intimamente e in ogni caso mai mi permetterei di giudicarne la statura umana, nel bene e nel male.

Di certo fu un gran personaggio, che ha lasciato un segno profondo.

Per esperienza diretta posso dire che, parlando con lui, avevi l’impressione ti conoscesse da sempre ed i suoi racconti parevano destinati solo ed espressamente a te.

Può essere, allora, che il miglior modo per ricordare Luigi Veronelli non sia quello di ripercorrerne le idee, le provocazioni, le realizzazioni, ma semplicemente testimoniare ciò che personalmente ci ha dato e lasciato.

Devo confessare di aver sempre provato per Veronelli una sorta di riconoscente affetto, non solo in quanto mi offrì l’opportunità di entrare nel mondo della critica enoica, cosa che fece con molti, ma soprattutto perché una volta mi definì “scrittore”; ed io, che purtroppo scrittore non lo sono affatto, gli fui grato di poter accampare il rispetto della sua autorevolezza quale pretesto per non contraddirlo – come umiltà e amor di verità avrebbero dovuto impormi – preferendo, invece, crogiolarmi nel mio compiaciuto orgoglio.

Più illuminante fu quando durante uno dei rari incontri mi suggerì come le nostre idee ed azioni non dovessero rivolgersi alle masse, bensì alle singole persone.

Ciò mi persuase definitivamente del fatto che essere liberi non significa propugnare l’uguaglianza indiscriminata, ma saper cogliere, rispettare e apprezzare quel che di diverso vi è in ciascuno ed in ogni cosa; e, anzitutto, considerare l’espressione della propria distintiva unicità come la più integrale assunzione di responsabilità nei confronti di chi e di ciò che ci circonda.

Quasi inconsciamente mi rammentai un passaggio di Ortega y Gasset:

«Quando si parla di minoranze elette, il consueto malcostume è solito equivocare il senso di questa espressione, fingendo d’ignorare che l’uomo selezionato non è il petulante che si crede superiore agli altri, ma colui che esige più degli altri, anche se non arriva a realizzare nella sua persona queste esigenze superiori. E non c’è dubbio che la divisione più radicale che occorre fare in seno all’Umanità è questa, in due classi di creature: quelle che esigono molto e accumulano sopra se stesse difficoltà e doveri, e quelle che non esigono nulla di speciale, se non che per esse vivere consiste nell’essere a ogni momento ciò che già sono, senza sforzo di perfezione su se stesse, galleggianti che vanno alla deriva».

Posto che ciascuno è libero di nulla esigere galleggiando tranquillamente alla deriva, scelta forse persino rispettabile, mi fu però chiaro come Veronelli intendesse raccomandare ben altra via.

In un prezioso volumetto edito nel 1984 e intitolato Breviario libertino, una sorta di “libro degli amici” di hofmannsthaliana suggestione, Veronelli riportò una citazione che credo riconducibile a Terenzio:

«Si duo faciunt idem, non est idem».

In definitiva, questa lapidaria attestazione dell’insopprimibile singolarità dell’individuo nel suo operare, pensare e sentire è stata per me la più essenziale eredità veronelliana, un umanesimo assoluto che, peraltro, si rivela il miglior approccio per comprendere le storie del vino, dei suoi territori e dei suoi vignaioli.

Il Collio è luogo dove le questioni di identità si sono definite a un livello intimo e tormentato.

Remoto angolo d’Italia che a lungo fu Mitteleuropa, la sua individualità pareva irrimediabilmente perduta in spirito, cultura, persino nel fisico e nella geografia quando – conseguenze di due guerre mondiali – fu dapprima atomizzata dalla forzosa italianizzazione riservata ad una terra “redenta” e in seguito scissa nell’artificiosa dicotomia tra Collio e Brda.

Su queste colline, però, la gente è riuscita a ritrovare i propri punti di riferimento cercandoli nella coscienza della terra, dei suoi modi e tempi.

Non è un caso se Veronelli, convinto cantore della Terra quale artefice di valori etici prima ancora che sociali ed economici, trovò qui intense amicizie e infinite fonti di ispirazione.

Così come non è un caso se proprio sul Collio ha avuto origine una delle più significanti vicende della vitivinicoltura contemporanea, che ha tentato di ridefinire il senso del rapporto tra vignaiolo, vigna e vino riannodando fili rimasti sciolti in un lontano passato.

La filosofia dei “vini macerati” (ora Orange Wines) è nata sulla ponca di questi colli e caposcuola ne fu Joško Gravner, che si rifece alle antiche tecniche caucasiche per reinventare vini percepiti come sincera espressione del territorio e del suo genius, concentrandosi vieppiù sulla rustica ribolla gialla, uva bianca del Collio per antonomasia.

Un modo di “sentire” sfociato in un’etica ed estetica del vino, che a partire da Oslavia ha fatto proseliti enfatizzando il legame olistico e privilegiato tra il singolo vignaiolo ed il suo specifico ambiente.

Simile la tecnica (pur con diverse varianti), identica l’uva, ma le Ribolla gialla macerate che si incontrano sul Collio si distinguono nettamente l’una dall’altra, ciascuna colorata da differenti sfumature che rispecchiano esperienze e visioni soggettive del lavoro e del territorio.

Poco lontano da Oslavia e sempre in comune di Gorizia, Damijan Podversic cura con totale dedizione i suoi vigneti sulle pendici del Monte Calvario.

Terreni fatti di ponca, nei quali si alternano strati di marna e arenaria ricchi di minerali su cui la difficile ribolla gialla può godere di superbe esposizioni, coltivata senza chimica a 140-180 metri s.l.m. con rese intorno ai 40 q/ha e raccolta a generosa maturazione, quando già la muffa nobile ne avvolge parte degli acini (il 90% nel 2017).

La vinificazione prevede, quindi, 60-90 giorni di fermentazione sulle bucce in tini troncoconici di rovere, 3 anni di maturazione in botti da 20-30 hl ed ancora un anno di affinamento in bottiglia. Poi il vino è pronto per andare a raccontarsi a chi abbia la sensibilità di ascoltarlo.

I bianchi macerati non sono vini facili e particolarmente estremo è quello di Podversic.

Gigi Brozzoni ne ha coniato una felice definizione parlando di “vini da discussione”.

Dialogarci presuppone di mettere un poco da parte i parametri consueti nella degustazione dei bianchi “convenzionali” e seguire le radici della ribolla mentre si insinuano profonde fra gli strati di ponca fino ad assorbirne l’essenza, per poi filtrarla a lungo attraverso bucce e vinaccioli.

Solo così la Ribolla gialla 2017 di Damijan Podversic lascia scorgere, avvolto in una luce gialla dai riflessi ambrati, un profumo nitido di acini maturi, di nespole e spezie, ornato da un velo appena salmastro.

Il gusto è secco e intenso, accenna una misurata cadenza ossidativa rinfrancata dal frutto dolce in una sensazione calda e morbidamente botritica, increspata da tannini sottili che punzecchiano il finale lungo, vagamente marino, vibrante di un’acidità dritta, tesa, intrisa di schietta “mineralità”, fantomatica dote di cui forse solo i vini del Collio possono davvero pregiarsi.

Credo che Veronelli sarebbe stato felice di festeggiare il suo novantaseiesimo compleanno infilando il proverbiale nasone in un calice di Ribolla gialla di Damijan Podversic.

Gli avrebbe regalato impressioni profonde, foriere degli stimoli e contrappunti dialettici con i quali una mente libera ed eclettica non smette mai di nutrire la propria insaziabile singolarità.

Ribolla gialla 2017
Damijan Podversic
Oslavia, Gorizia


MARCO MAGNOLI

Deve alla tradizione familiare la passione per i vini di qualità e a Luigi Veronelli, incontrato nel 2001, l’incoraggiamento a occuparsi di critica enologica. Dal 2003 è collaboratore del Seminario Permanente Luigi Veronelli. È tra i curatori della Guida Oro I Vini di Veronelli.