Tema scottante, attuale, spigoloso. Addentriamoci seriamente nell’argomento, dunque.

di Federico Duca

Nel mondo del vino esistono dibattiti che, ciclicamente, tornano alla ribalta. Suscitano discussioni e dividono in fazioni, a volte anche un po’ fanatiche. Uno di questi temi bollenti è la presenza dei solfiti nel vino. Ma cosa sono i solfiti? Perché vengono usati? Non si possono non usare? Esistono i vini totalmente senza solfiti?

Cosa sono i solfiti? 

Innanzitutto, partiamo col dire che la molecola utile al trattamento di mosti e vini è il diossido di zolfo, scritto con la formula SO2 (anidride solforosa detta “solforosa”). Con il termine “contiene solfiti” si fa riferimento alla solforosa totale contenuta nel vino. Cerchiamo di capire di cosa si tratta. La solforosa si può aggiungere nel mosto o nel vino in due modi:
– sali di potassio (bisolfito di potassio o metabisolfito di potassio) che si presentano sotto forma di polvere
– pura, in forma liquida o di gas.

Nella maggior parte delle aziende vitivinicole di piccole e medie dimensioni, ossia la quasi totalità delle aziende italiane, si utilizzano soluzioni di sali di potassio in polvere e, in particolare, il metabisolfito di potassio.

L’aggiunta sotto forma liquida o di gas, invece, è solitamente utilizzata dalle grandi industrie di produzioni di massa, perché la gestione di questi gas o liquidi richiede bombole ad alta pressione il cui uso è soggetto a  standard di sicurezza elevati e che implicano luoghi adatti per conservarle: la solforosa in forma gassosa è particolarmente pericolosa in quanto gas tossico, dall’odore pungente. 

Il metabisolfito di potassio non essendo “solforosa in purezza” (come si evince dalla sua formula K2S2O5) non ha una resa del 100% ma di circa il 50%, un dato molto rilevante per il calcolo di quanta solforosa si vuole aggiungere al vino. 

Essendo idrosolubile, per comodità di utilizzo, viene solitamente diluito in un po’ d’acqua prima di aggiungerlo al vino, in un volume irrilevante a confronto di quello del vino a cui viene aggiunto.
Essendo il mosto e il vino ambienti acidi e acquosi, il metabisolfito si dissocia e libera la molecola SO2, che non è stabile in questa forma ma, per buona parte, assume forma di “solfito”. 

Abbiamo quindi compreso cosa sono i “solfiti”. 

Solforosa libera, combinata, totale

Il vino non è una miscela di acqua con etanolo e punto. Altrimenti non sarebbe in grado di regalarci emozioni! È una soluzione estremamente complessa di migliaia di composti tra i quali acidi, antociani, tannini, zuccheri e molte altre molecole che donano i più differenti profumi e molteplici sensazioni gustative e tattili.

Questa miriade di componenti soggiorna in un equilibrio precario e delicato frutto di legami, combinazioni e separazioni. Alcune molecole legandosi alla SO2 le sottraggono il suo ruolo protettivo, con la conseguenza che quella che rimane attiva è in minore quantità.

Come già dicevo nell’articolo dedicato a Brettanomyces: “La SO2 è strettamente correlata con il pH del vino. Come mai? La solforosa aggiunta nel vino si divide in due frazioni: una libera, quindi ancora in grado di attaccare microorganismi e agire come antiossidante, e una combinata, che ha già agito con i composti ossidanti presenti nel vino, ossigeno e acetaldeide su tutti. Sommando queste due frazioni (libera e combinata) si ottiene la solforosa totale. Una piccolissima parte della solforosa libera, viene detta molecolare ed è quella che effettivamente svolge un ruolo antimicrobico”.

Più il pH è basso, più la solforosa molecolare è alta, quindi più efficace allo scopo protettivo del vino.

Mosto e vino di fronte alla solforosa

La solforosa ha tre importanti funzioni: è un antisettico, svolge un’azione antiossidante e antiossidasica.

La funzione antisettica (o antimicrobica) permette di inibire lo sviluppo di microrganismi e agisce efficacemente contro i batteri e, in buona parte, contro i lieviti.

Ogni specie di microrganismo ha una sua tolleranza alla solforosa. In generale è bene non esagerare mai nelle dosi se non si vogliono eliminare anche lieviti o batteri utili nella vinificazione.

L’azione antiossidante preserva dall’ossidazione i composti fenolici e le molecole aromatiche; è utile a conservare il vino nel tempo, evitando un invecchiamento accelerato e inoltre previene il fenomeno della maderizzazione.

Maderizzato: vino che presenta, sia al naso sia in bocca – per anomalo processo ossidativo con mutamento di alcoli in aldeidi – sentore di vino Madera. Sovrapposto ai sentori originari del vino è del tutto sgradevole. È detto anche marsalato. (Dizionario Veronelli)

L’azione antiossidasica, infine, ha ugualmente lo scopo di evitare l’ossidazione del vino, ma il bersaglio della solforosa, in questo caso, sono gli enzimi ossidasici: molecole che accelerano il fenomeno dell’ossidazione. Qui l’azione si esplica soprattutto durante la fase di pressatura delle uve e l’avvio delle fermentazioni.

Quando e quanta solforosa aggiungere? La risposta corretta potrebbe essere: dipende!

L’aggiunta di solforosa, infatti, dipende da molti fattori come lo stato sanitario delle uve, il metodo di raccolta (vendemmia manuale o meccanica), la pulizia di cantina, la tipologia di vino, la fase della vinificazione…

Tuttavia esistono valori e limiti prescritti dalla legge riferiti alla solforosa totale nel vino e sono differenti a seconda della tipologia di vino in questione:

  • per i vini rossi: 150 mg/l
  • per i vini bianchi o rosati: 200 mg/l
  • per i vini dolci (contenenti almeno 5 g/l di zucchero): 250 mg/l per bianchi e rosati e 200 g/l per i rossi
  • per i vini spumanti: 235 mg/l

Esistono, poi, molte eccezioni per tipologie di vini particolari o di determinate zone viticole. 

Va detto che i limiti di solforosa totale per i vini biologici sono inferiori rispetto a quelli espressi qui sopra (ad esempio inferiore o uguale a 100 mg/l per i vini rossi e a 150 mg/l per i vini bianchi e rosati).

Va sottolineato che, negli ultimi anni, la solforosa totale effettivamente contenuta nei vini di qualità è ampiamente sotto i limiti di legge e la tendenza è quella di ridurre sempre più l’uso della solforosa.

Come ridurre l’aggiunta di solforosa?

Abbiamo detto che la solforosa è uno strumento di protezione contro le ossidazioni e i microrganismi dannosi per il vino.

Le ossidazioni possono avvenire lasciando a contatto il mosto o il vino con l’ossigeno, oppure tramite l’azione di enzimi contenuti nelle uve o nelle muffe che si possono sviluppare sugli acini. 

Questi enzimi accelerano le ossidazioni e lavorano molto meglio a un certo range di temperatura che, generalmente va dai 25 ai 45 °C. Funzionano male, o non funzionano proprio, a basse temperature.

I microrganismi dannosi, invece, si possono sviluppare se le uve sono poco sane, durante arresti di fermentazione, in condizione di scarsa igiene di cantina, o, più in generale, durante errori di vinificazione. 

Alcune buone pratiche possono ridurre ossidazioni e contaminazioni microbiche potenzialmente dannose:

  • vendemmie delicate evitano la rottura degli acini e la fuoriuscita di succo che si può ossidare a contatto con l’ossigeno o permettere lo sviluppo di microrganismi prima dell’avvio della fermentazione alcolica
  • temperature basse impediscono il funzionamento di enzimi ossidasici e la proliferazione di batteri acetici, motivo per il quale si tende a vendemmiare nelle prime ore del giorno e non nelle ore più calde e, a volte, si raffreddano i grappoli in una cella frigo, soprattutto con uve a bacca bianca
  • le uve a bacca rossa hanno un maggior contenuto polifenolico, che tampona i fenomeni ossidativi (motivo per il quale i limiti legali di SO2 totale sono inferiori nei vini rossi)
  • vendemmiare uve sane, senza sviluppo di muffe
  • lavorazione delicata delle uve, facendo attenzione al contatto con l’ossigeno (discorso a parte per quelle tipologie di vino volutamente in stile ossidativo);
  • avvalersi dell’uso di gas inerti, come azoto o argon, o di ghiaccio secco (CO2 allo stato solido) per proteggere il mosto dal contatto con l’ossigeno
  • conservazione del vino in botti sempre colme
  • colmature adeguate delle bottiglie e utilizzo di tappi di qualità
  • corretta conservazione del vino una volta in commercio

Queste sono solo alcune delle buone pratiche utili a ridurre il rischio di ossidazioni, che negli anni si sono sviluppate e perfezionate, ma ne esistono molte altre. 

Di certo la tecnologia ha fatto passi da gigante negli ultimi tempi ed è venuta in supporto ai vignaioli per permettere di lavorare in modo sempre più pulito e delicato l’uva. 

Tutte queste accortezze hanno permesso che si potesse ridurre sensibilmente l’uso della solforosa, ma non di eliminarla. Per la ragione che tutto ciò non è sufficiente, ma anche perché la SO2 è uno straordinario strumento di protezione del vino sia per efficacia, sia per facilità di utilizzo. 

Oggi non esiste un altro prodotto in grado di sostituirla e svolgere tutte le sue funzioni protettive contemporaneamente. 

Detto ciò, per un uso ragionato esistono momenti specifici, durante la vinificazione, in cui solitamente si può aggiungere la solforosa al mosto e al vino. Per esempio: 

  • in vendemmia la SO2 può essere utile utile per disinfettare le cassette di raccolta o le vasche delle vendemmiatrici meccaniche
  • in fase di diraspatura e sui mosti impedisce ossidazioni ed evita lo sviluppo di microrganismi indesiderati. Bisogna però fare attenzione in questa fase a non esagerare con i dosaggi, altrimenti si potrebbero avere difficoltà nel far partire la fermentazione alcolica
  • per bloccare le fermentazioni di alcune tipologie di vino, come per esempio vini con residuo zuccherino
  • alla fine della fermentazione, con l’accortezza di considerare che, se si punta a far svolgere la fermentazione malolattica, la solforosa potrebbe bloccarla
  • ciclicamente, durante la fase di affinamento dei vini, soprattutto per vini affinati in contenitori che permettono il contatto con l’ossigeno, come il legno o l’anfora 
  • in fase di imbottigliamento: si dovrà tener conto che il vino sarà poi messo in commercio e potrà subire sbalzi di temperatura e viaggi molto lunghi
  • durante alcune fasi delicate della vinificazione per proteggersi da Brettanomyces.

Bisogna poi tener conto che la solforosa, se usata in maniera sconsiderata e nei momenti sbagliati, può apportare danni al vino.

  • vanno utilizzate dosi adeguate che non superino mai i limiti di legge
  • non bisogna mai solfitare durante una fermentazione alcolica, perché Saccharomyces cerevisiae ha sviluppato meccanismi per difendersi, producendo una molecola (acetaldeide) in grado di combinare la SO2 libera (quella efficace) e trasformarla in SO2 combinata (non più efficace). Il risultato è l’aumento di SO2 totale, senza però l’aumento di quella libera, quella utile a svolgere le funzioni protettive
  • dosi elevate o momenti sbagliati nell’utilizzo possono bloccare le fermentazioni
  • dosi elevate possono bloccare l’evoluzione del vino rosso
  • ritardo o blocco dell’inizio della malolattica
  • rischio di odori di riduzione, con dosi elevate

In conclusione, la solforosa è uno strumento indispensabile per prevenire ossidazioni e contaminazioni batteriche, grazie alle sue funzioni antiossidanti, antiossidasiche e antisettiche. 

La sua praticità di utilizzo e versatilità durante la vinificazione, la rendono, a oggi, uno strumento insostituibile per vignaioli ed enologi. 

Naturalmente, come detto, pratiche sane in vigna e in cantina e una corretta igiene possono limitarne l’utilizzo. 

Infine: è indispensabile conoscere bene i suoi effetti sul mosto e sul vino per utilizzarla con il giusto tempismo (fondamentale!) e in dosi adeguate, durante la vinificazione. 

Esistono i vini “senza solfiti”?

Come diceva Nanni Moretti: “Le parole sono importanti”. 

È più corretto dire che esistono vini senza solfiti aggiunti

Non è una sottigliezza, ma una questione di precisione finalizzata a fornire informazioni corrette al consumatore. Non tutti sanno che lo stesso Saccharomyces cerevisiae, per un meccanismo di difesa, produce deboli quantità di SO2 durante la fermentazione. La legislazione corrente impone di riportare in etichetta la dicitura “contiene solfiti”, qualora il contenuto di solforosa totale superi i 10 mg/l (una quantità veramente bassissima). 

Salvo rari casi, la solforosa rilasciata spontaneamente dal lievito è superiore a questo valore ed è per questo che vi potreste essere imbattuti in vini a cui non è stata aggiunta solforosa, ma riportano in etichetta “contiene solfiti”. 

Analizzare le ragioni di chi sceglie di non utilizzare la solforosa e quelle di chi la utilizza è molto complesso: un terreno scivoloso. Mi permetto solo di fare alcune considerazioni che possono diventare spunti di riflessione.

In generale, vorrei ricordare che l’approccio a un vino dovrebbe sempre essere guidato dalla curiosità, mai da idee o preconcetti. Dobbiamo inoltre tener conto che è una bevanda di piacere e, in quanto tale, la pulizia olfattiva e la gradevolezza al gusto sono essere elementi imprescindibili. 

Ciò non significa imporsi di andare subito alla ricerca dei difetti più minuziosi, ma giudicare un vino nel suo complesso.

Concludo riportando un episodio che mi è capitato qualche anno fa. 

Dai vigneron di Borgogna a Gavi

Esiste una pratica, molto in voga tra i grandi vigneron di Borgogna e in altre zone viticole importanti, attraverso la quale, a distanza di tempo, vengono stappate bottiglie pregiate con qualche anno alle spalle, controllate e ri-solfitate per portare a livelli adeguati la solforosa libera, che nel frattempo si è combinata. 

Le bottiglie vengono ricolmate, se necessario, e ritappate. Si tratta di un’operazione praticata anche da alcuni produttori italiani su riserve particolarmente pregiate. Lo scopo è quello di rallentare l’ossidazione e l’inesorabile invecchiamento del vino.

Anni fa ho avuto modo di assaggiare un Gavi del 1987. Era una magnum di oltre trent’anni, che aveva subìto questo trattamento. 

All’assaggio era un vino straordinario, un capolavoro per nitidezza dei profumi e fragranza del sorso, una bottiglia in forma smagliante nonostante l’età. 

Il mio entusiasmo fu  troncato quando mi venne fatto notare che “avevo bevuto un vino che non esisteva”. 

Parole su cui ho riflettuto a lungo. Effettivamente, senza una o più ri-solfitazioni post imbottigliamento, quel vino non sarebbe mai stato così performante, dopo tutto quel tempo. 

Una risposta certa non ce l’ho ancora, ma penso che, senza l’uso della solforosa durante tutto l’arco della vinificazione, parecchi dei vini che beviamo non sarebbero “mai esistiti”, non nel modo in cui li abbiamo gustati. 

Sul retro della Guida Veronelli 2024 è riportata una frase di Luigi Veronelli: 

“Un quadro può essere rivisto, una musica riascoltata, mentre il vino, quel vino, bevuto in quel momento, è un irripetibile.”

Forse, ancora una volta, Veronelli aveva colto la vera essenza del vino: l’hic et nunc.

Per godere dell’irripetibilità di una bevanda legata alla terra, di cui la natura ci offre la materia prima ma non il prodotto finito, può essere utile “rallentare il tempo”. Ma per farlo occorrono conoscenza e strumenti adeguati, tra i quali rientra sicuramente la solforosa, insieme a diverse tecnologie disponibili per vigna e cantina.



Federico Duca

È nato ad Alzano Lombardo (BG) il 22 agosto 1995. Grande appassionato di gastronomia, nel 2016 ha frequentato il suo primo corso di degustazione con SV. Si è laureato in Viticoltura ed Enologia presso l’Università di Milano. Ha frequentato l’Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli. Nel mondo enologico ha collaborato con diverse aziende vitivinicole e oggi lavora in ambito commerciale. Dal 2017 è nella redazione della Guida Veronelli. Gli piace fare il vino con gli amici, in una piccola azienda in Valcalepio.