di Federico Duca

Quando si parla dell’aspetto microbiologico del vino, tutti sanno che il protagonista indiscusso è il lievito Saccharomyces cerevisiae, colui che svolge la fermentazione alcolica, ovvero la trasformazione dello zucchero in alcol (etanolo) e anidride carbonica.

Bisogna però ricordare che durante la vinificazione intervengono anche altri lieviti o batteri, a seconda della fase del processo. Uno di questi è l’Oenococcus oenii, che svolge la fermentazione (o meglio degradazione) malolattica, ovvero la trasformazione dell’acido malico in acido lattico, utile ad attenuare l’acidità dei vini (soprattutto quelli rossi) e a garantire una maggiore stabilità microbiologica, oltre a contribuire nella definizione dello spettro aromatico.

Le cellule di Saccharomyces cerevisiae sono presenti in minor quantità, rispetto ad altri lieviti o batteri, nelle prime fasi della vinificazione, quindi nei momenti di pressatura o quando si ha il mosto in vasca. Esso inizia a svilupparsi e ad accrescere la sua presenza man mano che la fermentazione alcolica entra nel vivo, fino a prendere il sopravvento su tutte le altre popolazioni microbiologiche.

Questo avviene perché S. cerevisiae possiede un’elevata resistenza all’etanolo e alla solforosa, due composti che, in quantità consistenti, uccidono gli altri microrganismi. Non tutti, però. Tra i particolarmente resistenti vi è un nemico temutissimo da parte degli enologi e un ospite sgradevole per tutti gli amanti del vino: Brettanomyces bruxellensis.

Di questo lievito avrete probabilmente sentito parlare: «In questo vino c’è del Brett » oppure, questo vino è brettato».

Ma cos’è il difetto di Brett? Perché è così sgradevole? Come fa questo lievito a rovinare un vino? E da dove arriva?

La scoperta di Brettanomyces bruxellensis

Partiamo dal principio. Brettanomyces bruxellensis fu osservato per la prima volta nel 1904 quando il microbiologo danese Hjelte Claussen, direttore del centro di ricerca del birrificio Carlsberg, isolò un lievito sconosciuto a cui assegnò il nome Brettanomyces claussenii. Un auto-omaggio che durò ben poco: era stato scoperto in una birra della tipologia lambic, caratterizzata da fermentazione spontanea e prodotta esclusivamente vicino a Bruxelles: il nome della specie si trasformò presto in bruxellensis.

Nel vino viene segnalato per la prima volta da Krumbholz e Tauschanoff nel 1933. Di notevole importanza per la descrizione del lievito nel vino fu l’opera di Emile Peynaud e Simone Domercq che nel 1956 dedicarono un’importante ricerca enologica all’ambito dei lieviti.
Da quel momento in poi l’argomento viene osservato e studiato in modo più approfondito, fino alle numerose scoperte degli ultimi trent’anni.

I danni sul vino provocati da Brettanomyces bruxellensis

Brettanomyces è molto temuto dagli enologi perché in grado di rovinare enormi quantità di vino. I danni provocati sono per lo più a livello olfattivo, causati dalla produzione di etilfenoli, molecole classificate tra i fenoli volatili che conferiscono al vino odori estremamente sgradevoli, quando presenti in determinate concentrazioni.

In particolare, le due molecole responsabili delle puzze sono 4-etilfenolo e 4-etilguaiacolo. Non è importante ricordarsi i nomi, ma sapere che la soglia di percezione di questi composti si aggira attorno a 400 µg/l (0,0004 g/l), una soglia molto bassa, che diventa ben percepibile attorno a 600 µg/l. Essi sono prodotti a partire da due acidi fenolici, presenti naturalmente nel vino.

Il “carattere Brett”, originato da queste due molecole, si contraddistingue per odori di animale, stalla, medicinale, sudore, o, come viene riassunto in certi manuali di degustazione, cavallo sudato.

I potenziali danni apportati al vino non si fermano qui. Alcuni ceppi di Brettanomyces sono in grado di produrre notevoli quantità di acido acetico, responsabile dell’aumento dell’acidità volatile. Inoltre, non bisogna dimenticare la capacità di produrre, delle molecole potenzialmente cancerogene, non nelle concentrazioni prodotte da Brett. In ogni caso, anche a bassi livelli, le ammine biogene pare possano agire mascherando aromi positivi del vino e intensificando la percezione di quelli negativi.

Quando può nascere Brett in cantina?

Brettanomyces è un lievito naturalmente presente sull’uva, in grado di colonizzare gli ambienti di cantina. È, quindi, sempre presente nei vini e, addirittura, pare che alcune cultivar siano più predisposte a esprimere la “nota Brett”. Il compito di un enologo è quello di evitare che Brett si sviluppi in quantità tali da provocare danni. Impresa tutt’altro che semplice.

Infatti, la pericolosità di questo lievito risiede nella sua elevata resistenza alla solforosa (SO2), a bassi valori di pH e ad alti volumi di etanolo. Tre condizioni che solitamente rendono il vino un prodotto molto sicuro dal punto di vista microbiologico.

Invece, Brettanomyces approfitta proprio delle fasi finali della vinificazione o dell’affinamento per svilupparsi. Come accade? Trovandosi naturalmente sull’uva, Brettanomyces viene portato in cantina durante la vendemmia. A questo magari si può aggiungere la presenza di altre cellule di lievito presenti su contenitori o attrezzature di cantina (pompe, tubi, filtri…) non perfettamente sanificati.

Dopo aver portato l’uva in cantina e, magari, aver opportunamente solfitato per evitare ossidazioni o eliminare batteri e lieviti contaminanti, si dà avvio alla fermentazione. In questa fase il lievito protagonista è Saccharomyces cerevisiae, che prende presto il sopravvento e permette la trasformazione del mosto in vino.

Nel frattempo, grazie alla sua resistenza alla solforosa e all’etanolo, si è sviluppato, Brettanomyces ma è rimasto quiescente. Terminata la fermentazione alcolica (ed eventualmente la malolattica), entra in scena. Inizia a consumare i pochissimi nutrienti rimasti per accrescere e moltiplicarsi: glucosio, fruttosio, galattosio, maltosio e altri zuccheri presenti in diverse quantità nell’uva. Può perfino consumare, in determinate condizioni, etanolo e acido acetico, o, addirittura il cellobiosio, uno zucchero che si può ritrovare sulle doghe dei legni nuovi dopo la tostatura.

Anche chi non è un addetto aia lavori, può comprendere che questo lievito è temibilissimo, perché in grado di “mangiarsi” una miriade di composti anche in un ambiente, come il vino, poco ospitale per un microorganismo.

A differenza di quanto si sente spesso dire, Brettanomyces può infettare anche un vino che ha sostato solamente in acciaio, senza fare affinamento in legno. Ma l’affinamento in barrique o tonneaux comporta un ulteriore rischio: il legno è un materiale poroso, molto più esposto una contaminazione da parte dei microorganismi, che possono rimanere tra le fessure delle doghe o nei pori. Un affinamento in legni già usati precedentemente, soprattutto se non adeguatamente puliti, aumenta questo rischio.

Riassumendo, Brettanomyces approfitta del vuoto microbiologico lasciato da Saccharomyces cerevisiae al termine della fermentazione e si trova la strada spianata se ha a disposizione anche solo pochissime concentrazioni di nutrienti. Una volta che inizia a svilupparsi con intensità e a produrre etilfenoli, il vino può risultare compromesso.

Mezzi e strategie per contrastare Brett: il ruolo chiave della prevenzione

A oggi possiamo dire che non esiste una soluzione per eliminare Brettanomyces, ma vi sono una serie di buone pratiche, associate ad alcuni prodotti enologici, che permettono di tenere sotto controllo la situazione.

Innanzitutto, non è vero che la pulizia di cantina equivale alla totale sicurezza di scongiurare il Brett, ma si può affermare che senza una corretta igiene la probabilità di avere vini contaminati aumenta a dismisura. Quindi pulizia maniacale dei serbatoi, dei legni, dei pavimenti, di filtri e pompe… In particolare, per i legni di secondo o terzo passaggio la pulizia a base di acqua calda (oltre i 60 °C) e tempi di contatto adeguati risulta efficace; negli ultimi tempi risulta molto impiegato anche il trattamento dei legni con l’ozono (O3), per via della sua buona capacità di distruggere le cellule di lievito.

Vi sono i fattori che rendono l’ambiente vino sfavorevole ai microrganismi: pH e acidità, presenza di etanolo e solforosa. Tenere monitorati questi elementi è importantissimo non solo per le caratteristiche gustative del prodotto, ma anche per i parametri microbiologici. Il fattore SO2, (anidride solforosa) in particolare, è quello su cui un enologo può agire in maniera più rapida.

L’uso della solforosa è fondamentale contro Brettanomyces, soprattutto se usata in maniera corretta e nei giusti momenti della vinificazione.

La SO2 è strettamente correlata con il pH del vino. Come mai? La solforosa aggiunta nel vino si divide in due frazioni: una libera, quindi ancora in grado di attaccare microorganismi e agire come antiossidante, e una combinata, quindi che ha già agito con i composti ossidanti presenti nel vino, ossigeno e acetaldeide su tutti. Sommando queste due frazioni (libera e combinata) si ottiene la solforosa totale. Una piccolissima parte della solforosa libera, viene detta “molecolare”, ovvero quella che effettivamente svolge un ruolo antimicrobico. Più il pH è basso, più la solforosa molecolare è alta (quindi più efficace al nostro scopo). Quindi pH bassi, che tendenzialmente sono associati ad acidità alte, aiutano anche sul fronte dell’uso della solforosa a contrastare Brettanomyces.

L’altro accorgimento da tenere in considerazione quando si usa la solforosa è il momento corretto del suo impiego durante le fasi di vinificazione.
Sempre sul fronte dei parametri chimici di un vino, un mix tra alto contenuto di etanolo, basso pH e alta acidità può contribuire a creare un ambiente sfavorevole per Brettanomyces, il che non è sempre facile da ottenere, perché bisogna tener conto anche dei “lieviti buoni” e della gradevolezza del prodotto.

Per quanto riguarda i prodotti enologici, esiste in commercio, da alcuni anni, il chitosano, un polisaccaride che agisce inattivando le cellule di Brett. Il chitosano può essere estratto da due fonti: l’Aspergillus Niger, un fungo che viene fatto moltiplicare appositamente per questo scopo; oppure estratto dalla chitina, presente nell’esoscheletro di alcuni crostacei, come il gambero.

L’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (OIV) ha autorizzato per uso enologico solo quello di origine fungina, poiché quello estratto dai crostacei può contenere allergeni.

Il chitosano è un prodotto molto costoso e che va utilizzato nelle modalità corrette e con le giuste tempistiche, in quanto può agire su altre molecole o microrganismi positivi per il vino.

Per quanto concerne le azioni meccaniche, la filtrazione sterile può essere un ulteriore supporto per contrastare Brett

Infine, esiste la cosiddetta “strategia del biocontrollo”, che, in parte, riassume quanto detto finora: cercare di occupare le fasi della vinificazione con “lieviti buoni” e condurre una corretta fermentazione. Brettanomyces teme molto la competizione e, infatti, si sviluppa quando gli altri microrganismi muoiono. Perciò vendemmiare uve sane è un buon punto di partenza per non inoculare in cantina microrganismi sgradevoli che potrebbero interrompere la fermentazione e, poi, condurre una vinificazione il più lineare possibile, in modo che si esauriscano le fonti nutrizionali con la fermentazione alcolica, ed eventualmente la malolattica. Così si renderà la vita dura a Brettanomyces.

A tutto ciò si possono affiancare sofisticate analisi microbiologiche, di solito eseguite da laboratori dedicati, per rilevare effettivamente la presenza di Brett nel vino e, se presente, la concentrazione cellulare. L’analisi microbiologica è uno strumento che aiuta a prendere decisioni, a patto che si riesca a giocare d’anticipo: un’analisi eseguita dopo che si sono avvertite puzze o deviazioni olfattive nel vino, può essere tardiva e poco utile. Si tratta comunque di procedure abbastanza costose.

Tutto questo rappresenta una strategia di prevenzione, che deve tener conto di più aspetti correlati fra loro.

Il ruolo del cambiamento climatico

Brettanomyces è diventato un problema sempre più accentuato negli ultimi anni, e sembra che il riscaldamento globale giochi un ruolo in questo incremento. Con temperature medie sempre più elevate si rischia di raccogliere uve surmature e con pH sempre più alti e, come detto, il ruolo del pH è fondamentale contro Brett. Quindi il lavoro di prevenzione dovrebbe partire dalla vigna, dalla vendemmia e poi proseguire in cantina.

Brettanomyces può anche donare complessità al vino?

Spesso si sente dire che Brett darebbe una certa complessità al vino.

Sicuramente a concentrazioni elevate i sentori di stalla o medicinali, per usare un eufemismo, non sono caratteristiche piacevoli in un vino.

Oltretutto questi sgradevoli odori standardizzano i vini di qualsiasi territorio, coprendo i diversi timbri varietali e territoriali.

Resta aperta la questione su quei vini che riportano leggeri odori di Brett con concentrazioni molto basse di etilfenoli.

Mi limito a porre un tema: avendo visto quanto è difficile la gestione di Brettanomyces in cantina, qualora un vino riportasse sentori che ne ricordano la presenza, siamo così sicuri che sia una cosa voluta? Il margine di errore è molto sottile: il vino lo fanno i vignaioli, non i trapezisti. 



Federico Duca

È nato ad Alzano Lombardo (BG) il 22 agosto 1995. Grande appassionato di gastronomia, nel 2016 ha frequentato il suo primo corso di degustazione con SV. Si è laureato in Viticoltura ed Enologia presso l’Università di Milano. Ha frequentato l’Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli. Nel mondo enologico ha collaborato con diverse aziende vitivinicole e oggi lavora in ambito commerciale. Dal 2017 è nella redazione della Guida Veronelli. Gli piace fare il vino con gli amici, in una piccola azienda in Valcalepio.