LATTE CAGLIO SALE
di Irene Foresti

Il formaggio è un antipasto, un secondo o un contorno?

Stando alle abitudini alimentari degli italiani e ai menu che comunemente si trovano nei ristoranti, verrebbe da dire che non è una vera e propria portata e si limita a coadiuvare il pasto.

Lo si mangia come aperitivo o antipasto assieme a salumi e sottaceti, lo si usa per insaporire varie preparazioni (primi piatti, verdure, pizza, lasagne, focacce ecc.), lo si consuma assieme alla frutta o addirittura da solo prima del dolce.

Chi conosce anche solo le basi delle scienze nutrizionali capisce subito che si tratta di una contraddizione allo stato puro, visto che il formaggio ha tutte le carte in regola per essere considerato un piatto a sé stante.

Quanti al ristorante ordinerebbero una bistecca dopo aver consumato un pasto completo?

Pochi (forse nessuno), ma molti si farebbero tentare dal famigerato carrello dei formaggi, pur avendo già mangiato più che a sufficienza.

Si tratta di una consuetudine che non ha origini recenti, come si può capire dando uno sguardo ai principali ricettari storici.

Lo scalco Bartolomeo Scappi, autore di uno dei più importanti trattati culinari (L’opera, XVI secolo), non dà alcuna ricetta che veda protagonista il formaggio.

Enumera una vasta serie di «casci» grattati, grassi, parmigiani, marzolini, «sardeschi», di riviera, di vacca, duri…e nessuno di questi è destinato a essere portato in tavola tale e quale, ma solo come ingrediente secondario o come guarnizione di altre portate («accomodare con cacio»), scelta che stride con l’aver dedicato un’intera sezione del ricettario al tema «per conoscere la bontà di tutti i casci […] e conservarli».

Il Messisbugo (Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale, XVI secolo) dà la ricetta del «formaggio alla catellana», ma in realtà è un metodo per cucinare una sorta di brodo di dado, ossia carne bollita, pressata con un peso e messa in «forma con cerchiello».

Del formaggio nessuna traccia, dunque è probabile che quest’ultimo abbia solo dato il nome alla preparazione viste le similari e comuni fasi di messa in forma e pressatura (il vocabolo formaggio è da ricondurre al gesto di «mettere in forma») e/o che si tratti di una delle molteplici espressioni del gergo culinario storico, per esempio il termine «potaggio» era usato per definire svariate preparazioni in umido.

Altri cuochi non si scostano molto dalla linea dello Scappi, inserendo il formaggio variamente fra le «frutte», gli antipasti o fra i «servizi di credenza».

Giovanbattista Rossetti (Dello scalco, XVI secolo), Domenico Romoli alias Panonto (La singolar dottrina, XVI secolo, che riporta anche la ricetta delle «crostate di pignoli [pinoli] e formaggio grasso» fra i cibi di magro, sic!), Giovan Battista Crisci (La lucerna de corteggiani, XVII secolo), Vittorio Lancellotti (Lo scalco prattico, XVII secolo), Antonio Latini (Lo scalco alla moderna, XVII secolo) e Angelo Dubini (La cucina degli stomachi deboli, XIX secolo).

Venendo a epoche più recenti, pur restando nell’ambito dei ricettari definibili come storici rispetto a quelli che troviamo oggi in libreria, ne La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi non c’è traccia di ricette che abbiano il formaggio come protagonista e non compare più fra le «frutte» o i «servizi di credenza», dei quali non si parlava ormai più da diverso tempo.

E cosa dire dei così detti «servizi di credenza»?

Fino a quando il banchetto ha avuto protocolli propri largamente diffusi e condivisi, i «servizi di credenza» erano preparazioni prevalentemente fredde destinate a coadiuvare il pasto, preparate prima del servizio e da servire perlopiù alla fine dello stesso.

Pare, dunque, che il destino del formaggio come semplice ingrediente o quale «pietanza secondaria» (o quantomeno senza un proprio spazio fra le portate principali) da consumare al termine del pasto, non sia solo dei giorni nostri.

Come mai?

Sul tema della grande versatilità e quasi indispensabilità del formaggio in cucina nessun cuoco ha mai espresso perplessità di sorta.

Un libro di proverbi pubblicato a Piacenza nel 1805 sentenzia che:

«si accomoda a’ voleri altrui l’uom saggio; né mai guastò minestra il buon formaggio»,

E il conte Giulio Landi ne La formaggiata (XVI secolo) dice:

«il formaggio non guasta mai minestra e senza esso non si può far buone lasagne, i macaroni non meritano pur un solo sguardo, egli è de’ ravioli la vera salsa. Le frittate senza esso sono di poco valore; ma della torta egli è la propria e vera anima. A gli annolini senza formaggio non si metterebbe mano. I pieni degli arrosti et de’ lessi non vagliono un cucchiaro d’acqua. Le ova maritate non possono maritarsi se no co’l formaggio: senza cui non si può dorare o santificare il pane; insomma egli è quello che accompagna tutte le vivande e che è vero condimento de tutti i cibi humani gentile et grazioso».

Sono parole che non hanno bisogno di commento, tanto sono esemplificative nel sottolineare che, senza il formaggio, molti piatti della nostra cucina tradizionale perderebbero gran parte del proprio sapore e del proprio carattere.

Si pensi anche solo a preparazioni come le lasagne, la pizza, la pasta cacio e pepe, la fonduta, il pesto, la polenta taragna ecc.

Tuttavia, se dal punto di vista culinario non ci sono dubbi o controversie, non si può dire altrettanto quando si valutano le opinioni in merito agli effetti che il consumo di formaggio può avere sulla salute.

Secondo la più importante istituzione medica della storia, la Scuola Medica Salernitana, il formaggio è un alimento freddo, costipante, volgare e duro, dunque è necessario porre particolare attenzione nel moderarne le quantità e nel consumarlo a fine pasto. E a proposito si ricordi il detto:

«Pane e formaggio è una buona colazione; formaggio e pane fan fare indigestione».

Nel capitolo «de modo edendi et bibendi» (sorta di summa su cosa e come mangiare e bere), infatti, il Regimen Sanitatis salernitano (XII-XIII secolo) precisa chiaramente che «post carnes caseus adsit» (dopo le carni entrino i formaggi).

Pare una contraddizione consigliare di mangiare il formaggio a fine pasto quando lo si è definito in maniera poco edificante, ma il pensiero medico della Scuola ha sempre riconosciuto al formaggio il pregio (forse l’unico, fra tanti difetti) di essere utile per «sigillare» lo stomaco a fine pasto (evitando che gli effetti della digestione possano causare nausee e fastidi vari) e per agevolare la digestione stessa («giova alla concozione», per dirla con le parole del Platina).

Insomma, come scrisse James Joyce nel suo Ulisse (1922), forse con una punta di ironia:

«il formaggio fa digerire tutto, tranne se stesso».

L’assunto medico del consumare il formaggio a fine pasto, al contrario di molti altri, è stato ben accolto da tutte le classi sociali, al punto da migrare fino ai giorni nostri nelle proposte dei ristoranti e da sopravvivere ancora in un proverbio, variamente diffuso al nord, che recita, nella versione bergamasca:

«la boca l’è mia straca se la sa mia dè aca»

(la bocca non è stanca se non sa di vacca, ovvero di formaggio).

È comunque doveroso ricordare che l’applicazione dei principi medici all’alimentazione è stata per secoli appannaggio delle sole classi altolocate, poiché i ceti subalterni non avevano la possibilità di scegliere che ruolo dare al formaggio all’interno del pasto, perché spesso il solo formaggio era il pasto.

Per chi non poteva permettersi null’altro il formaggio era buono, come scrive sempre il Conte Giulio Landi, «la mattina a colatione, a desinare, a merenda e a cena».

Poteva essere accompagnato da patate o polenta, ma molto raramente dal pane, né tantomeno dalla frutta, prime fra tutte le pere del famoso proverbio.

Anzi, esiste una versione accrescitiva di quest’ultimo: il «vilà» (villano, contadino) «per mangià pom, pèr, formag e pà […] l’impegnareve [ol] gabà», diffuso anche in italiano come

«il villano venderà il podere per mangiare cacio con le pere».

L’aggettivo «accrescitiva» è riferito alla presenza delle mele oltre che delle pere («pom, pèr»), del pane e soprattutto del gabbano.

Il «gabà», infatti, era un indumento usato dai contadini per proteggersi da vento, freddo e pioggia (soprattutto in inverno), dunque venderlo o «impegnarlo» (ipotecarlo) avrebbe potuto avere serie conseguenze, sia perché, senza quello, le condizioni di lavoro sarebbero peggiorate, sia perché per averne un altro sarebbero serviti soldi e/o risorse (anche se confezionato in casa, la stoffa andava comunque pagata).

Il gabbano non aveva certo lo stesso valore del podere ma, visto che i contadini proprietari di un podere appartengono a un’epoca molto recente, vendere o rinunciare a questo indumento era proibitivo: una follia che si poteva fare solo per mangiare il formaggio con le pere.

Non sapremo mai se qualche colono (o contadino che dir si voglia) abbia mai venduto qualcosa di così prezioso per mangiare il formaggio con le pere, ma sicuramente il formaggio è un alimento che ha da sempre esercitato un fascino trasversale a tutte le classi sociali.

Unico o indispensabile alimento per alcuni, ma soprattutto golosità per altri, è entrato in tutte le preparazioni e allo stesso tempo in nessuna, se si eccettuano «frutte» e «servizi di credenza».

Pare quasi che il formaggio, pur non essendo l’unico protagonista di una portata, paradossalmente lo sia di tutte, facendo da spalla ai protagonisti principali, un ruolo che si trascina dietro da secoli e che continua a resistere nonostante la rapida evoluzione dei consumi e delle abitudini alimentari tipico dei nostri tempi.



Crediti fotografici per l’immagine da La Formaggiata, qui.


Irene Foresti

Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Dopo essersi occupata della direzione di impianti della grande distribuzione food, di educazione alimentare e marketing e comunicazione dei prodotti alimentati, da alcuni anni è Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva che gestisce i servizi di refezione presso scuole, aziende, ospedali e case di cura. Nel tempo libero, appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche. Ha scritto Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020).
La sua ultima pubblicazione è Casoncelli. Storia e identità della pasta ripiena più amata da bergamaschi e bresciani (Centro Studi Valle Imagna, 2021)