Vino Buono
Via Castello, 20
24064 Grumello del Monte BG

Federico Duca intervista Roberto Zadra, oste del Vino Buono e una vita a servizio del buon vino

Nel 1996 il giovane Roberto Zadra deve reinventare la vecchia enoteca dell’azienda familiare di spumanti Carlo Zadra, situata nel centro storico di Grumello del Monte, piccolo comune bergamasco nella zona più vocata della Valcalepio. Inizia così l’avventura nel mondo della ristorazione di Roberto, figlio dell’enologo trentino Carlo Zadra, a cui il territorio bergamasco è debitore per l’invenzione della denominazione Valcalepio e per aver diffuso quelle buone pratiche enologiche all’epoca poco conosciute. 

Quali sono state le tappe che hanno portato alla nascita dell’ Osteria del Vino Buono?

Nel 1991 avevamo esigenza di trovare un luogo che fungesse da magazzino di stoccaggio e punto vendita per la Carlo Zadra, piccola azienda di famiglia da sempre produttrice di metodo classico da uve trentine. Pensammo che se ne sarebbe potuto occupare mio padre che da qualche anno aveva rallentato l’attività di enologo per motivi di salute. La scelta cadde su un antico fienile del Seicento, ristrutturato, a fianco alla chiesa di Grumello del Monte. 
Nel 1996 nasce poi l’idea di trasformare l’enoteca in un’osteria: volevo ampliare l’offerta di etichette, far conoscere il vino italiano in zona e, allo stesso tempo, abbinarci un semplice boccone di pane, salumi e formaggi accuratamente selezionati. 

Negli anni avremmo aggiunto altre proposte dalla cucina. Si apriva solo il fine settimana, ma l’Osteria del Vino Buono aveva finalmente preso vita. 

Perché il nome “Vino Buono”? La sua semplicità fa pensare ad una scelta compiuta quasi per caso…

Non fu un caso. Ci sono due ragioni fondamentali nella scelta di questo nome. La prima è un richiamo alle vecchie osterie di campagna bergamasche, le frasche, in cui spesso dopo il nome seguiva il termine dialettale “vì bù”, vino buono, a sottolineare come in quel luogo si potesse bere bene. 

Il secondo è un omaggio a Piermario Meletti Cavallari di Grattamacco, il quale più di vent’anni prima, aveva aperto un’Osteria del Vino Buono in Città Alta a Bergamo con lo stesso intento di far conoscere il buon vino, accompagnato a pochi e semplici cibi del territorio. 

La sua fu un’idea originale, che non fu compresa a pieno, forse perché i tempi non erano ancora maturi e la conoscenza del vino era ancora molto limitata, per non dire assente. 

Tu come hai imparato a fare ristorazione? E come ti definisci?

Ricordo ancora che la prima sera al Vino Buono eravamo in cinque in sala e i clienti erano nove: siamo riusciti ad andare in confusione. Disastro totale. Mi sono rimboccato le maniche e, errore dopo errore, ho imparato a fare ristorazione. 

Oggi mi piace definirmi un oste, nella sua accezione latina, legata all’ospitalità: il mio compito è capire lo stato d’animo e le esigenze del cliente e accompagnarlo nella scelta migliore del vino e del piatto. Per far questo occorre creare la giusta situazione e un clima accogliente. 

Il rapporto con il cliente è fondamentale, poiché il ruolo del ristorante, lo dice la parola stessa, è ristorare, non sfamare, e ristorare per me significa “far sentire bene”. 

La mia carta vini è molto ampia, contiene centinaia di etichette, non voglio che diventi un problema per un cliente che conosce poco il vino. Quando qualcuno viene al Vino Buono deve rilassarsi, trascorrere due ore di spensieratezza in compagnia di un ottimo calice e un piatto gustoso. Sono profondamente convinto che spesso alla percezione del vino contribuisca il contesto in cui lo si degusta. 

Cos’è oggi il Vino Buono: cosa è rimasto e cosa invece è cambiato? 

Oggi il Vino Buono siamo io, la mia compagna Elena, e Alessandra, la giovane cuoca. Loro sono fondamentali per la nostra osteria, a loro affido tutta la parte di cucina perché mi fido ciecamente.
Lo spirito è rimasto quello iniziale: far sentire bene i nostri clienti. Negli anni, però, abbiamo ampliato il menu, che ormai da tempo offre un servizio completo dall’antipasto al dolce, passando per primi e secondi di carne, pesce e vegetariani. Per la creazione del menù lascio carta bianca ad Elena ed Alessandra, che sono sempre un vulcano di idee. 

A proposito del menu, come procedete nella sua creazione?

Variamo spesso le nostre proposte, ma il filo conduttore resta la stagionalità delle materie prime. Elena e Alessandra sono molto più creative di me, quindi le lascio sperimentare, io però assaggio sempre tutto perché, essendo in sala, ho la percezione dei gusti dei miei clienti! Ci confrontiamo molto: se un piatto nuovo non convince tutti e tre, lo ripetiamo finché non siamo d’accordo all’unanimità. 

Mentre l’onore e l’onere della carta vini spetta solo a te? 

Sì, quella è tutta colpa mia! In realtà la carta vini ha avuto una lunga evoluzione, coerente con quella che è stata la storia del Vino Buono. Inizialmente si vendevano solo i vini spumanti della Carlo Zadra e poche altre etichette selezionate da mio padre, poi pian piano si è ampliata l’offerta.

Ora ci sono centinaia di etichette, che ricoprono tutte le zone viticole più o meno importanti del nostro Paese. 

L’idea di fondo è di dar spazio a quelle aziende, piccole o grandi che siano, che “ci mettono la faccia” e con questo intendo dire che mi piace servire vini di cui si abbia qualcosa da raccontare: un territorio, una storia, un progetto… 

Vado alla ricerca di quei vini che normalmente non si trovano nei normali canali distributivi, perché voglio che i miei clienti, anche i più giovani, abbiano l’opportunità di assaggiare sempre qualcosa di nuovo. 

Non voglio sembrare un bastian contrario, ma di una cosa vado molto orgoglioso: nel vino non ho mai seguito le mode di mercato. Il cliente ha delle richieste, ma io ho le mie proposte. 

La tua carta contiene anche proposte di vini francesi e, in particolar modo, di Champagne. Da dove nasce questa passione?

L’attenzione per questa stupenda regione viticola è nata qualche anno fa grazie a un viaggio in moto con Elena. Abbiamo visitato dei produttori nella Champagne, tutti piccoli vignerons e pian piano ho avuto modo di assaggiare e approfondire la conoscenza di questi vini incredibili e li ho inseriti in carta, dando spazio anche qui a quelle etichette poco conosciute. 

Nella scelta degli Champagne mi affido molto ai miei viaggi annuali direttamente in cantina e ad alcune guide di riferimento per i vini francesi, come la Guida Hachette. 

Da produttore di vino, cosa invidi ai francesi e cosa pensi invece che gli italiani possano insegnare loro? 

Da quel che ho potuto apprendere in Champagne, ma anche in Borgogna, i francesi hanno un’attenzione certosina nei confronti della vite, curano in maniera maniacale ogni singola pianta. Noi italiani devo dire che siamo molto creativi nella fase di lavorazione e vinificazione delle uve, ma questo a volte genera anche grande confusione. Qui da noi la mentalità della qualità sostanzialmente ha iniziato a essere comune solo dopo lo scandalo del metanolo. Però forse un nostro grande pregio, generalizzando, è l’attenzione e la pulizia di cantina.

Faccio una domanda immancabile a una persona che si occupa di vino: la tua bottiglia preferita?

Una quindicina di anni fa ho bevuto un Vega Sicilia Unico degli anni Ottanta, non ricordo esattamente l’annata ma era un vino straordinario!

La vostra azienda di famiglia porta ancora il nome di tuo padre, Carlo Zadra, un personaggio fondamentale per il territorio della Valcalepio. Raccontami qualche cosa su di lui… 

Nei primi anni Sessanta, appena diplomato alla Scuola di Conegliano Veneto, essendo trentino, mio padre andò a lavorare alla Cantina sociale di Mezzocorona. 

In quella zona uno dei vitigni autoctoni più importanti è il lagrein, che però all’epoca veniva tagliato con la schiava o altri vitigni, non godendo della stessa considerazione di oggi. 

Mio papà era profondamente convinto che si potesse vinificare in purezza e così, durante una vendemmia, decise di vinificarne una piccola vasca a parte, di nascosto. Se il direttore della cantina se ne fosse accorto, l’avrebbe licenziato. Convinto però del risultato, mio padre decise di presentarlo a un concorso enologico locale e, ironia della sorte, vinse il primo premio. 

Quella fu una svolta, perché anche il direttore della Cantina si accorse del valore del itigno e, soprattutto, grazie a quel premio riuscirono anche ad aumentare in modo considerevole i prezzi del vino. 

Da quel momento in cantina ci fu il via libera per vinificare il lagrein in purezza. 
Carlo ha sempre prodotto dello spumante metodo classico, dal 1959, in quantità limitata per sé e gli amici. All’epoca era considerata una vera e propria sfida per gli enologi perché con un vino fermo il lavoro termina una volta in bottiglia, mentre in un metodo classico con il tiraggio inizia il divertimento. 

Nel 1961, quando si trasferì a Bergamo, ha continuato a produrlo nella cascina di casa nostra, dove tutt’ora ha sede l’azienda. Inizialmente la produzione restava limitata: mio padre produceva, sempre per passione, pochissime bottiglie destinate al consumo personale e per amici e conoscenti. L’azienda non portava inizialmente il suo nome, e per quello possiamo dire che c’è lo zampino di Veronelli. 

Perché? Cosa ha combinato questa volta Veronelli?

Alla fine degli anni Settanta, mio padre fa assaggiare il suo spumante a Luigi Veronelli, il quale lo apprezza molto e lo invita a uscire dall’anonimato, dedicandogli un articolo intitolato, appunto, “L’anonimo”. Così nel 1979 nasce ufficialmente la Carlo Zadra, che ora è gestita da me e mio fratello Paolo, anche lui enologo. 

Mi ricordo che tu, qualche anno fa, mi raccontasti un altro episodio che riguardava Luigi Veronelli e tuo padre…

Sì, di quel famoso incontro al Castello di Grumello tra grandi personaggi dell’enologia italiana e mondiale. Non ricordo esattamente l’anno, ma penso fosse il 1983 o il 1984 e Luigi Veronelli disse a mio padre che André Tchelistcheff sarebbe stato in zona per qualche giorno. Così, senza pensarci troppo, Carlo organizzò un convegno sull’uso della barrique, che all’epoca veniva adoperata poco e male, e a seguire una cena. 

All’incontro parteciparono Maurizio Zanella, Giacomo Bologna e Angelo Gaja. 

Ricordo ancora un concetto fondamentale di quella lezione del grande Tchelistcheff: lasciare il vino almeno un anno intero in barrique per avere una maggiore armonizzazione e far sì che il legno fosse meglio “integrato”. 

Fu un grande insegnamento perché, all’epoca, chi usava la barrique lasciava il vino in affinamento solo qualche mese con risultati sgraziati e disomogenei. 

Fu anche di ispirazione per mio padre per la creazione del Colle Calvario, il vino più importante della cantina Castello di Grumello, dove lavorava in quegli anni. 

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Federico Duca

È nato ad Alzano Lombardo (BG) il 22 agosto 1995. Grande appassionato di gastronomia, nel 2016 ha frequentato il suo primo corso di degustazione con SV. Si è laureato in Viticoltura ed Enologia presso l’Università di Milano. Ha frequentato l’Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli. Nel mondo enologico ha collaborato con diverse aziende vitivinicole e oggi lavora in ambito commerciale. Dal 2017 è nella redazione della Guida Veronelli. Gli piace fare il vino con gli amici, in una piccola azienda in Valcalepio.