LATTE CAGLIO SALE, rubrica di Irene Foresti
Una rubrica tematica sul formaggio scritta da una bergamasca ed edita da Seminario Veronelli non poteva non contenere un’uscita dedicata interamente ai formaggi di Bergamo, a maggior ragione se si considera che questa città dal 2019 è Città Creativa UNESCO per la Gastronomia, candidatasi a tale titolo proprio in virtù del suo vasto patrimonio caseario. È un titolo prestigioso che lancia il capoluogo bergamasco in uno scenario internazionale a fianco di due altre città italiane del calibro gastronomico di Alba e Parma, i cui prodotti e ricette sono già ben noti in tutto il mondo.
Bergamo, penalizzata dall’ingombrante presenza delle vicine Milano e Venezia, non ha mai sviluppato una tradizione culinaria o produttiva che sia finita sotto le luci della ribalta (se non solo recentemente) né che abbia portato alla redazione di ricettari storici di un certo rilievo (in genere scritti dagli scalchi al servizio delle corti signorili). Nonostante questo, la città delle mura vanta una sottesa ed ampia gamma di ricette e preparazioni tipiche ed un altrettanto poco conosciuto (almeno fino a qualche tempo fa) novero di formaggi, figli di una tradizione zoocasearia sviluppatasi nelle sue numerose valli sin dalla preistoria, come testimoniano diversi ritrovamenti e studi archeologici.
Senza pretesa di esaustività, parlo di formaggi quali il Formai de Mut dell’Alta Valle Brembana, l’Agrì di Valtorta, il Branzi, il Taleggio, lo Stracchino all’Antica, lo Strachìtunt, lo Stracchino Bronzone, il Gorgonzola, il Bitto, il Provolone Valpadana, il Fiurìt, il Quartirolo Lombardo, il Bernardo della Val Seriana, lo Scalet di Lizzola, lo Storico Ribelle, il Salva Cremasco, il Grana Padano e la Torta Orobica, oltre a varie formaggelle (più di una per valle), caprini, robiole ed innumerevoli produzioni dai nomi commerciali o anonime, ma dalle caratteristiche produttive e sensoriali decisamente peculiari. Si tratta di prodotti che hanno un proprio personalissimo profilo ed allo stesso tempo anche tratti o storie comuni, alcuni sono rintracciabili anche in province diverse mentre altri sono chicche esclusivamente locali.
Se penso che ho potuto scrivere un intero libro solo sugli stracchini, mi rendo conto che entrare nel dettaglio di tutti porterebbe alla stesura di un trattato, oltre ad essere noioso per il Lettore. Ciò che desta maggiormente curiosità, soprattutto se si considera che, tutto sommato, rispetto alle province limitrofe Bergamo non ha un territorio così esteso, è cosa possa aver determinato il passaggio da una produzione casearia pressoché uniforme e generica al vanto di 9 formaggi a marchio DOP oltre a diversi Presidi Slow Food, PAT ed altri prodotti senza alcun riconoscimento ma assolutamente degni di nota.
Dare una risposta certa e univoca è azzardato, soprattutto perché l’allevamento e la zootecnia sono attività fortemente antropiche, caratteristica che rende difficile valutare con precisione l’evoluzione storica del fenomeno. Ad ogni modo, si può ipotizzare, nel caso di Bergamo, che lo storico legame fra le sue valli e la pianura, grazie alla transumanza, abbia fatto da volano per lo sviluppo di un comparto caseario d’eccellenza.
La migrazione periodica di bergamini ed armenti verso la montagna o di ritorno da essa in direzione dello stallaggio invernale ha fatto sì che all’artigianalità si siano aggiunte competenze via via sempre più professionali e strutturate, che si siano create infrastrutture dedicate («barech», «calecc», caselli del latte, mulattiere ecc.) e che si siano sviluppati luoghi di scambio commerciale (come per esempio la famosa fiera di Branzi), oltre a reti commerciali a medio-lungo raggio (i formaggi bergamaschi raggiungevano Milano, Venezia ed anche paesi stranieri).
Tutto ciò, unito ad una forte predisposizione del territorio montano bergamasco allo sviluppo di attività pastorali, è stato fondamentale per supportare volumi produttivi di un certo rilievo, destinati a coprire segmenti di mercato sempre più ampi.
Ovviamente, non tutte le valli bergamasche sono uguali e non tutte hanno vissuto lo stesso sviluppo del comparto caseario. In Val Seriana, per esempio, nel corso del tempo la produzione di formaggio si è ridotta in favore dell’industrializzazione, tant’è che oggi si è quasi persa la memoria dei suoi prodotti, smerciati addirittura fino a Brescia, dove erano considerati di ottima qualità.
Oggi i bergamini di una volta non esistono più, la transumanza è diventata perlopiù un fenomeno folclorico, i casari non hanno più nozioni empiriche perché conoscono la chimica e la microbiologia ed i caseifici, per quanto piccoli, hanno dovuto adeguarsi alla stringente normativa igienico sanitaria. Anche il mercato è cambiato. La maggior parte dei consumatori è abituata a prodotti standardizzati: ci si aspetta che un formaggio con un certo nome abbia sempre gli stessi colore, odore e sapore, se è «bruttino» o non ha una confezione o un nome accattivanti viene snobbato ed è bandita ogni forma di difetto (anche se non nocivo per la salute, si pensi alla saporitissima «tara»). I produttori bergamaschi di formaggio hanno saputo adeguarsi al nuovo contesto, mantenendo un buon livello di artigianalità e conservando i caratteri tradizionali di ogni prodotto.
Negli ultimi anni, inoltre, si è assistito ad una sorta di riscoperta della montagna, quale meta di turismo gastronomico a corto raggio e come luogo in cui investire la propria vita lavorativa. Ci sono molti ragazzi e giovani bergamaschi, poco più che trentenni, i quali hanno deciso di intraprendere la professione del casaro o dell’allevatore, sporcandosi le mani con la gestione degli animali, imparando a mungere, acquisendo competenze per la caseificazione, mettendosi in gioco proponendo i propri prodotti su un mercato in cui la fanno da padroni i grandi nomi e sperimentando uno stile di vita a cui pochissimi sono ancora abituati. Non è da tutti e non è scontato. Alzarsi all’alba per mungere, fare il fieno, dormire nella stalla quando la vacca gravida è prossima al parto e spostare badili e badili di letame sono solo alcune delle attività che farebbero inorridire molti teens e non solo.
Tutto ciò rappresenta un indotto ed un’opportunità di crescita e valorizzazione importantissimi per una provincia come quella di Bergamo che, abbiamo già detto, non è mai finita fra le glorie culinarie nazionali conosciute in tutto il mondo. Qualunque straniero collega automaticamente il nome di Bologna alla mortadella, quello di Milano alla cotoletta o quello di Ferrara alla salama da sugo. È più difficile, invece, che i turisti ricolleghino il formaggio al nome di Bergamo, nota più che altro (grazie soprattutto all’offerta ristorativa) per i casoncelli, la polenta taragna e la polenta e osèi.
Per poter sfruttare al massimo l’occasione della nomina a Città Creativa UNESCO per la Gastronomia è necessario lo sforzo da parte di tutti gli attori del comparto: produttori, ristoratori, associazioni ed istituzioni. Sono tante le iniziative di promozione e valorizzazione del patrimonio caseario bergamasco, grazie a pubblicazioni, eventi, convegni ecc., fra cui per esempio Cheese Valleys, il Progetto Forme ed il Festival del Pastoralismo.
Inoltre, non va sottovalutata l’importanza del ruolo dei ristoratori nel proporre formaggi locali nei menù e nel curarne la corretta comunicazione ai clienti. Molti esercenti, infatti, effettuano un grande lavoro di ricerca di prodotti e produttori sul territorio e di valorizzazione gastronomica; non solo li servono come portata a sé (il classico orologio di formaggi), ma li utilizzano anche per cucinare altre pietanze e spiegano ai clienti dove sono stati acquistati, che caratteristiche hanno e quale sia la loro storia, tutte informazioni che sicuramente contribuiscono a consolidare il legame di Bergamo con i suoi formaggi.
«Come si può governare un paese che ha 246 varietà differenti di formaggio?». Così disse l’ex presidente francese Charles de Gaulle, nel secolo scorso, a proposito della propria patria, accostando la vastità delle declinazioni casearie all’altrettanto varia ed ostica compagine di orientamenti politici, di opinione ecc.
De Gaulle intendeva riferirsi alla difficoltà di gestione di problematiche scaturite da idee e opinioni diverse o al fatto che la Francia si vanta da sempre di avere i formaggi migliori del mondo? Non è questa la sede per approfondire la storia politica francese, ma è innegabile che un prodotto come il formaggio si presta molto bene a rappresentare il concetto di eterogeneità.
Ogni formaggio (anche della stessa tipologia) è diverso da un altro poiché è frutto di fenomeni non completamente governabili (per l’appunto, come diceva De Gaulle), fra cui l’alimentazione degli animali (erba e fieno non sono sempre uguali e pascolare in pianura o in alpeggio non è la stessa cosa), la mano del casaro, le condizioni meteo ed il conseguente profilo microbiologico degli ambienti di maturazione e stagionatura.
Non so dire se sia possibile governare una provincia che vanta innumerevoli formaggi, ma sicuramente questa ricchezza è espressione di un patrimonio culturale, esperienziale e storico che le valli bergamasche hanno da sempre espresso attraverso i loro formaggi, meritevolissimi di adeguata protezione e valorizzazione.
Irene Foresti
Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Si è occupata professionalmente di grande distribuzione food, educazione alimentare, marketing e comunicazione. È Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva. Appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche e ha pubblicato Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020). La sua ultima pubblicazione è Casoncelli. Storia e identità della pasta ripiena più amata da bergamaschi e bresciani (Centro Studi Valle Imagna, 2021).