Resoconto di una bella chiacchierata con Vincenzo D’Alessandro che ci racconta «anima e core» di questo unico, storico, inappuntabile e accogliente locale partenopeo.

di Simonetta Lorigliola

‘E curti
Via Padre Michele Abete, 6
Sant’Anastasia
Napoli
e-curti.it


Un po’ di storia, quantomai necessaria per un luogo come questo.

Il locale nasce ufficialmente nel 1952 quando Luigi e Antonio Ceriello lo rilevano da uno zio che aveva abbandonato l’abito talare per dedicarsi alla professione di oste. Luigi e Antonio erano due nani lillipuziani e avevano girato l’Italia per tanti anni, impegnati in attività circensi. Da sempre amavano il buon cibo e il buon vino.

Da subito si dedicano alla ricerca ed elaborazione di tradizionali preparazioni partenopee. Il locale si fa presto un nome, e da tutti viene indicato come «a cantina de ‘e curti», essendo i curti, in napoletano, i piccoli di statura.

È con loro la sorella Assunta, attivissima in cucina. Si aggiunge poi la nipote Angela e, dal ’65, il marito di quest’ultima, Carmine D’Alessandro. Luigi scompare nel 1973 e Antonio nel 1990. Ma l’attività è ormai di famiglia e la tradizione continua, oggi con Sofia e Vincenzo, figli di Carmine e Angela.

Sono proprio loro che nel 1995 decidono di valorizzare, commercializzandolo, il nucillo (nocino) di famiglia, producendolo secondo quanto prescritto da una ricetta del 1904 custodita proprio dai curti che lo realizzavano e offrivano a fine pasto, graditissima consuetudine nel loro locale.

Vale la pena soffermarsi su questo elisir, amato e lodato da Luigi Veronelli.
Le noci della cultivar Sorrento, nei loro malli verdi, vengono raccolte a mano da piante selezionate nella zona del Vesuvio, di Positano, Capri, Ischia e, dal 2010, anche nel Cilento. I malli, nel giorno della raccolta, sempre a cavallo del 24 giugno come vuole la tradizione, vengono tagliati a mano in quattro parti e messi a macerare con alcool puro, aromi e spezie (tutto naturale) in damigiane di vetro verde. Queste vengono tenute al sole e, dopo circa 90 giorni, l’infuso viene prima travasato in vasche e poi miscelato a uno sciroppo a base di soli zucchero e acqua.

Segue il filtraggio con panni di tela d’Olanda, eccezionale tessuto adoperato storicamente per le lenzuola dei corredi. Solo alla metà del mese di ottobre, dunque, il Nucillo ‘e curti è pronto.

Oggi se ne producono 40.00 bottiglie vendite all’estero, dagli stati uniti alla Francia e in tutta Italia grazie alla distribuzione della Moon import di Bepi Mongiardino, il che significa proporre e posizionare il liquore accanto a un’accurata selezione di grandi vini e distillati del mondo.

Incontriamo Vincenzo D’Alessandro che, come detto, con la sorella Sofia, rappresenta la nuova colonna portante del locale di famiglia. Senza dimenticare che in cucina c’è la loro mamma Angela.

Cominciamo dal piatto. Qual è una preparazione ad alto valore simbolico per la vostra storia e per la vostra identità?

‘O sicchio d”a munnezza. È un piatto che si fa dall’apertura del locale, senza soluzione di continuità. Parla di munnezza, spazzatura. E sembra un accostamento ardito, trattandosi di cibo. Eppure serve anche a rovesciare il luogo comune di Napoli città della munnezza. In questa ricetta storica, infatti, la munnezza rappresenta lo scarto. E lo scarto ha grandi risorse. L’idea prende origine dal riciclo di quel che rimaneva sul tavolo alla fine del pranzo di Natale, quello che si metteva sul desco per accompagnare l’ultimo bicchiere: noci, nocciole, pinoli, uva passa… Da questi ingredienti nasce il condimento per lo spaghetto. Lo spaghetto è rigorosamente quello di Gerardo Di Nola, di Gragnano, un antropologo prestato al cibo, che purtroppo è mancato l’anno scorso. E poi ci mettiamo anche i pomodori del piennolo, quelli veri di Ercolano, frazione San Vito, dove ci fu l’ultima colata del Vesuvio del 1944, che ha generato un terreno con caratteristiche uniche: una sorta di crosta protegge la terra e la piantina di pomodoro, che cresce senza bisogno di annaffiature, dando un pomodoro per sé pastoso, asciutto, il solo adatto a essere raccolto per la conservazione all’aria. Solo qui ci sono i veri piennoli, gli altri non possono competere: è la terra che parla.

Un destino comune a tanti prodotti tipici che sono diventati trasfigurazione di se stessi, vestiti pressoché di marketing

Da quando il cibo è diventato una moda ha perso la sua identità. Fino a 15 anni fa mangiare il pomodorino non era figo, e lo mangiavamo solo noi. Ora la scelta di certi prodotti è diventata di tendenza, ci vanno dietro in molti e, inevitabilmente, il mercato offre quel prodotto su larga scala, che però non è più lo stesso. Ma tanto chi se ne accorge? Oggi il web spopola e tutti sanno tutto, magari senza muoversi di un metro. Cosa sanno, davvero? E così gli si può rifilare ogni cosa. Tutto è superficiale: una volta ci si faceva il segno della croce, prima di cominciare a mangiare, e ora fanno la fotografia col telefonino.

Quei piennoli oggi ormai sono stati piantati in tutti i dintorni del Vesuvio, ma sono molto diversi da quelli di San Vito. Lo può sapere solo chi li ha potuti assaporare…

E forse sarebbe giusto che in molti potessero assaporarli, non ogni giorno, anche solo qualche volta, per aumentare la propria conoscenza e il proprio piacere

Veronelli diceva che dovrebbe essere vietato vietare. E aggiungeva: perchè il Sorì tildin non lo può bere ognuno di noi, almeno una volta all’anno?

Torniamo agli spaghetti e alla munnezza

Gli altri ingredienti di questo piatto sono aglio, prezzemolo e olio d’oliva d’eccellenza, dal Salento o dall’Irpinia. La battaglia sull’olio di Veronelli me la ricordo bene, ed ero con lui.

Questo piatto antico è unico, una sorta di agrodolce sui generis. Questa era la pasta povera, quella del sugo senza carne. È una cucina di recupero. Ma per noi non è solo la storia gastronomica a parlare, è la filosofia di famiglia: abbiamo sempre evitato gli sprechi.

E se dovessimo cercare una definizione per questa vostra cucina?

Noi non siamo per la tendenza gourmet. Anzi, non siamo per nessuna tendenza. Non è uno di quei ristoranti dove il maître ti squadra e ti sottopone a un esame di fisica nucleare. Noi operiamo in quella modalità per cui Veronelli attribuiva il Sole e poi il Cuore a certi luoghi o piatti: qualcosa che si poneva al di fuori delle classifiche, che registrava un’affezione, un racconto, un amore. Noi siamo quella cucina là.

E il vino?

Per il vino vale la stessa regola: da noi puoi bere spendendo pochi euro o anche 1000 euro, ma avrai la stessa attenzione e un servizio inappuntabile.

Devo aggiungere che oggi è ancora più grande la nostra attenzione sul vino. Mai sorella Sofia ha sposato un positanese, Roberto Marrone,  grande conoscitore di vini, e con lui abbiamo completato una rinnovata e ricca carta in cui trovano spazio un centinaio di etichette: la metà sono campane, le altre guidano in un viaggio per l’Italia, attraverso piccole aziende che lavorano in eccellenza.

Come è andato questo ultimo anno?

L’anno scorso, poco prima del Covid, abbiamo perso zia Assunta e papà. Un grande dolore.

Oggi in cucina ci sono mia mamma, mio cugino e un altro giovane. Andiamo avanti nel solco familiare. Ci siamo trasferiti di fronte al locale storico, dove eravamo in affitto da 95 anni.
Abbiamo acquistato una palazzina, compiuto un rigoroso restauro anche con il supporto dello studio milanese di architettura Zito Mori, che, tra le altre cose, ha realizzato la bellissima cantina per Masseto. Oggi abbiamo 50 coperti interni e circa 60 in giardino. Abbiamo aggiunto, nel dehor, una griglia a brace naturale, senza che questo abbia nulla a che fare con le steak house, naturalmente.

Riapriamo, anche con le limitazioni, e daremo il nostro massimo, come sempre.

Che tipo di locale incontra chi varca la soglia de ‘E curti nel 2021?

Qui si può mangiare in un posto bello e accogliente ma non di apparenza, di sostanza.
Si troverà il servizio giusto, attento ma non supponente e un cibo vero ma democratico.
Il piatto più giovane qui ha 50 anni di storia.

In questo nostro locale viene a pranzo il parcheggiatore abusivo che con 20 euro mangia e beve un buon bicchiere, ma ci viene magari anche il Presidente della Repubblica che mangia lo stesso cibo, curato allo stesso modo, anche se lui forse può permettersi una bottiglia da 100 euro… e quella sarà l’unica differenza ai loro tavoli.

Celebriamo la bellezza e l’eleganza, con l’importante specifica che restiamo orgogliosamente un’osteria.

La nostra è una cucina semplice, con tantissima attenzione alle materie prime. E con prezzi giusti, accessibili. I clienti berranno in bicchieri Spigelau e, se vorranno un antipasto di mare, non troveranno l’internazionale capasanta ma i nostri maruzzielli, e le alici non saranno quelle del Cantabrico, ma di Sciacca.

E tutto sarà curato perché, come diciamo noi a Napoli, l’uocchie va sempre in coppa ‘o buono.

Le materie prime saranno semplici, locali e di stagione perché questa filiera corta e trasparente è quella che ci consente la freschezza e sostenibilità dei prezzi, e anche di pagare bene il lavoro dei dipendenti.

Non ci sono mai prodotti da stivare e magari poi da buttare, o costosi recuperi di materie prime. Tutto è vicino, tutto reperibile e tutto al massimo del buon mercato, con un’ottima qualità. Ecco, questo troverete ai Curti. Vi aspettiamo.

Crediti foto di Vincenzo D’Alessandro: Scatti di Gusto



Simonetta Lorigliola

Simonetta Lorigliola, giornalista e autrice, si occupa di  cultura materiale. 
È nata e cresciuta in Friuli. Ha frequentato l’Università degli studi di Trieste, laureandosi in Filosofia. È stata Responsabile Comunicazione di Altromercato, la principale organizzazione di Commercio equo e solidale in Italia. Ha collaborato con Luigi Veronelli, nella sua rivista EV Vini, cibi, intelligenze e nel progetto Terra e libertà/critical wine. Ha vissuto in Messico, ad Acapulco, insegnando Lingua e cultura italiana. Ha diretto Konrad. Mensile di informazione critica del Friuli Venezia Giulia. Da molti anni collabora con il Seminario Veronelli per il quale è oggi Caporedattrice e Responsabile delle Attività culturali. La sua ultima pubblicazione è È un vino paesaggio (Deriveapprodi, 2018).
Foto di Jacopo Venier