Scavato nel diamante e nel carbone
di Marco Magnoli

Non ho mai intrattenuto strette o convinte frequentazioni con Chiese, sette o, più in generale, religioni, almeno se per “religioni” si  intendono «complessi più o meno strutturati di credenze, riti e dottrine che legano gli individui a una divinità».

Sempre forte, però, ho avvertito la “religiosità” che emana dal mondo e dalla vita, ovvero quell’impulsivo e inesplicabile senso misto di stupore, incanto, inquietudine e angoscia che ci prende di fronte alla calda luce pastello di certi tardi pomeriggi autunnali, al melodioso bisbiglìo di un torrente che sempre nuovo si ripete, alla furia di una rovinosa tempesta, al gesto inatteso o, ancora, alla miseria di un essere umano.

Ludwig Feuerbach, filosofo ateo e materialista, sosteneva che «il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione; l’oggetto di questo sentimento di dipendenza, ciò da cui l’uomo dipende, e si sente dipendente, non è però altro, originariamente, che la natura».

La dipendenza dalla natura è sentita soprattutto nel bisogno; la religione nasce dal bisogno e dalla difficoltà da parte dell’uomo di soddisfarlo.

Nel volere e nel desiderare, tuttavia, l’uomo è libero e illimitato ed è per questo che, in definitiva, secondo Feuerbach il fondamento e l’oggetto della religione viene a coincidere con l’essere dell’uomo: «La religione è la coscienza dell’infinito; essa dunque è […] la coscienza che l’uomo ha […] dell’infinità del proprio essere».

Riflettendo sul pensiero di Feurbach, Marilynne Robinson, scrittrice e saggista presbiteriana e ora congregazionalista (dunque ispirata dal calvinismo), ha scritto:

«Se non fossi io stessa una persona religiosa, ma desiderassi riconoscere un valore alla religione, credo che tenderei alla visione feuerbachiana secondo cui essa è una proiezione delle concezioni umane di bellezza, bontà, forza e altre cose preziose, un’umanizzazione dell’esperienza che la comprende come strutturata intorno a questi valori e che finisce, dunque, col rispecchiarli. Allora assomiglierebbe all’arte, alla quale è fortemente associata».

Che derivi dalla potente suggestione della natura o che si impregni dell’irrealizzabile pulsione dell’uomo verso l’assoluto, la religiosità si avvicina molto, in effetti, alla sensibilità artistica, la quale permette di penetrare gli arcani chiaroscuri dell’esistenza e di esprimerli attraverso il linguaggio della poesia, della pittura, della scultura o, in sommo grado, della musica, forme d’arte che sanno dare voce ad aspetti della realtà altrimenti inesprimibili.

Ludwig Wittgenstein ha composto il suo Tractatus logico-philosophicus per dimostrare come le proposizioni etiche, estetiche e metafisiche (le più prossime alla “religiosità” che sto cercando di tratteggiare) siano del tutto prive di senso. Eppure proprio nel Tractatus (6.522) si legge:

«Ma vi è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico». E poco prima (6.44): «Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è».

Credo siano buone suggestioni di ciò che può essere inteso come una “religione”, seppur del tutto laica, della vita: cogliere esperienze, percezioni, stati d’animo ineffabili che stentiamo a comprendere in griglie razionali poiché sembrano riflettere qualcosa che sta “oltre” l’ordinarietà della realtà profana e che, quindi, potremmo definire “sacro”.

Mentre concepiva il film Il Vangelo secondo Matteo (1964), Pier Paolo Pasolini così focalizzò il suo progetto:

«È un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. […] Non sono credente […] ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico “poesia”: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale».

E precisava:

«Voglio fare pura opera di poesia, rischiando magari i pericoli dell’esteticità (Bach e in parte Mozart, come commento musicale; Piero della Francesca e in parte Duccio per l’ispirazione figurativa; la realtà, in fondo, preistorica ed esotica del mondo arabo, come fondo e ambiente)».

Questa «realtà preistorica ed esotica» Pasolini è, poi, andato a cercarla, trovandola, nei Sassi di Matera, nelle campagne di Barile, nel Castello di Lagopesole, atmosfere di una Basilicata che gli trasmise sensazioni più ataviche, “mistiche” e autentiche di quanto non aveva saputo fare nemmeno l’autentica Palestina.

Basti osservare le sequenze della Natività riprese nelle Sheshe di Barile, con gli usci delle grotte/cantine, ciechi antri, quasi ingressi di sepolcri che schiudono un varco di accesso al ventre misterioso della terra, un segreto custodito dalle balze e dalle terrazze ornate d’erbe  e di pietre.

L’odierna Basilicata non è più quella degli anni Sessanta del secolo scorso, ma ancora conserva molti luoghi, tra cui il Vulture con la mole del suo vulcano spento, dove la religiosità dell’esistenza si avverte con maggior forza, si comunica spontanea dalla natura, dagli uomini e dalle loro opere.

Ed il vino, suprema sintesi di paesaggio e uomo, ha tanto a che fare con questa religione e i suoi simboli.

Il Vulture è terra di aglianico, vitigno dal carattere forte, risoluto, ma temperato di vulcanica grazia che, come in un ammaliante ossimoro, dona un tocco più gentile, garbato e minuto.

In agro di Barile, località Pian di Carro, giace a 600 metri di altitudine un vigneto vecchio di settant’anni, terreni magmatici e umorali, altamente drenanti e ricchissimi di minerali dai quali Eugenia e Francesco Sasso, figlia e padre, traggono le uve per il loro Aglianico del Vulture Ròinos, campione della Denominazione e bandiera di Eubea, un’azienda che si pone tra i più raffinati e ispirati interpreti di un territorio dalle potenzialità strabilianti.

In cantina l’aglianico viene lavorato a chicco intero, con accurata macerazione e lenta fermentazione seguite da lunga elevazione in botti da 18 ettolitri di rovere francese, perfezionata da un ulteriore affinamento del vino in bottiglia.

L’annata 2018, degustata per l’edizione 2021 della Guida Veronelli, ha ancora una volta dimostrato la superiorità di questo Aglianico dal colore intenso e dalla personalità limpida eppure elusiva, cangiante, emozionante.

Un vino di cui Francesco Sasso sostiene si lasci scoprire solo “con gradualità” e che – parafrasando quel che Pasolini disse dei volti degli abitanti del luogo – pare scavato «nel diamante e nel carbone».

È l’impronta dei vini di terroir, quelli che raccontano se stessi e la loro storia tanto con la concretezza dell’eccellenza quanto, e forse ancor di più, con le rarefatte allusioni delle sfumature e dei dettagli, fra i quali si scorge chiaro il nome del luogo d’origine, il nome del Vulture.

Wittgenstein termina il suo Tractatus con la sezione 7, composta da un unico, perentorio enunciato:

«Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere».

L’ineffabile è tale perché la nostra logica non possiede gli strumenti adatti a intenderlo con precisione, nella sua essenza e verità.

«Il vino è un valore reale che ci dà l’irreale».

Forse con questa famosa massima Luigi Veronelli cercò di risolvere a modo suo il problema, suggerendo come, in qualche caso, l’ineffabile si possa almeno annusare, gustare, assaporare: il vino – e il Ròinos non fa certo eccezione – della religiosità del mondo e della vita ha, insomma, il gusto e il profumo, veggente profeta che, come la poesia che strugge o la musica che ammalia, si insinua fra i nostri istinti e ci offre un eloquente assaggio di mistero.


MARCO MAGNOLI

Deve alla tradizione familiare la passione per i vini di qualità e a Luigi Veronelli, incontrato nel 2001, l’incoraggiamento a occuparsi di critica enologica. Dal 2003 è collaboratore del Seminario Permanente Luigi Veronelli. È tra i curatori della Guida Oro I Vini di Veronelli.