di Irene Foresti

L’origine della moderna azienda casearia risale a quando non esisteva ancora la differenza tra artigianalità e industria

È superstizioso, parla un dialetto (il gaì) che comprendono solo i membri della sua casta, pratica l’endogamia, è analfabeta e molto religioso, si veste con grembiule, cappellaccio di feltro, zoccoli, panciotto, camiciotto e mantello di lana e si adorna con orecchini, catene e orologi d’oro. Completano il quadro una spiccata capacità commerciale e il possesso di un buon capitale.

Potrà sembrare strano, ma è la descrizione di un imprenditore ante litteram.

È la figura del Bergamino, un allevatore che si distingueva dal pastore poiché, anziché avere pochi capi di bestiame o condurre le mandrie altrui, gestiva bestiame di proprietà.

Da questo punto di vista, il Bergamino era da ritenersi un vero e proprio imprenditore in quanto investiva continuamente per ampliare il numero delle mandrie e di curarne la salute.

L’abitudine di accumulare capitale in bestiame è nata forse come alternativa all’agricoltura e ai rischi che, in alcuni periodi, quest’ultima ha presentato.

A differenza di un terreno coltivato, infatti, le mandrie si potevano spostare in altre zone in funzione di mutate condizioni socio-ambientali (andamento climatico, guerre ecc.) e davano una materia prima (il latte) che poteva essere lavorata immediatamente, ovunque e senza particolari attrezzature per dare un prodotto facilmente commerciabile (il formaggio).

Come in molte altre culture, possedere bestiame dava prestigio ed era in particolare il capitale in vacche ad avere importanza maggiore: alcuni statuti medievali di area ligure distinguono nettamente l’habere grossum (gli armenti) e l’habere minutum (le greggi).

Ed è proprio per tutelare il capitale di famiglia (quantificabile nel numero di capi di bestiame, nei segreti della caseificazione, nelle relazioni economico-sociali ecc.) che, con il tempo, i nuclei familiari bergamini assunsero struttura e regole particolari.

Come in tutte le società pastorali, le famiglie erano patriarcali, mononucleari (si restava tutti sotto lo stesso tetto, anche dopo il matrimonio) ed endogamiche (i matrimoni erano fra consanguinei). Inoltre, la conoscenza delle tecniche casearie veniva trasmessa esclusivamente ai membri della famiglia e nessuno di questi percepiva uno stipendio, ma solo vitto e alloggio, evitando che l’indipendenza economica li spingesse a mettersi in proprio o ad abbandonare il focolare.

I Bergamini ci tenevano molto a sottolineare la loro “diversità” rispetto ad altre classi sociali e lo facevano anche attraverso l’abbigliamento nel quale ogni particolare aveva un ben preciso significato.

L’utilizzo di oggetti d’oro (soprattutto orecchini ad anello), oltre a essere funzionale a sottolineare le maggiori possibilità economiche rispetto ai pastori, aveva un significato superstizioso dato che quegli orecchi erano ritenuti protettivi per la vista.

Il bastone in legno di nocciolo avrebbe dovuto allontanare gli spiriti maligni dalla mandria.

La superstizione era un fenomeno diffuso fra le persone che frequentavano luoghi remoti e isolati, come gli alpeggi. Sulla montagna di tutto l’arco alpino esistono luoghi sacri, consacrati da pastori e Bergamini, a varie divinità sin dalla preistoria e tutte le società pastorali si sono sempre mostrate molto religiose.

In epoca romana (si ricordi che la Roma delle origini era più pastorale che agricola), per esempio, il 21 aprile i mandriani celebravano i Parilia (festa per la consacrazione delle mandrie) con un pasto rituale, la recitazione di preghiere per la salute e la fecondità degli animali, la bevuta di latte consacrato e la prova della corsa attraverso il fuoco.

Come è ovvio, anche la vita dei Bergamini era segnata da ricorrenze religiose: S. Giorgio (23 aprile) segnava il momento della salita agli alpeggi e S. Michele (29 settembre) quella del ritorno in pianura, mentre durante la permanenza in altura si festeggiava S. Lucio (12 luglio), protettore dei casari.

Esisteva, inoltre, una forma cultuale tesa a garantire la produzione lattifera, fondamentale per il rinnovamento della mandria (l’allattamento artificiale per i vitelli non esisteva ancora) e per la produzione di formaggi.

Il compito di salvaguardare aspetti così delicati era affidato alle così dette Madonne del latte o galattofore, delle quali in montagna sono presenti numerose raffigurazioni, spesso all’interno delle così dette “santèle”, piccole edicole votive che si trovano su mulattiere, snodi viari ecc.

Tornando al dress code del Bergamino, il cappellaccio, il mantello (“tabàr”) e il grembiule da casaro (“scüssàl”) venivano portati, quando non si lavorava, come se fossero una divisa utile a rendersi immediatamente riconoscibili.

A causa di questo forte spirito identitario e della necessità di ostentarlo, i Bergamini, con il tempo, si crearono molti antagonisti e detrattori, in primis tra chi svolgeva un lavoro simile ed era considerato inferiore.

I “marà”, per esempio, erano pastori che non transumavano ma vivevano tutto l’anno sulla media montagna, praticando un’economia semi-chiusa: si cibavano di ciò che producevano i pochi capi di bestiame che possedevano e smerciavano qualcosa con il circondario.

Nonostante fossero messi meglio dei “casalini” (che non possedevano bestiame e lavoravano curando quello altrui), si può ben capire che rispetto ai Bergamini la differenza fosse netta, tanto che i “marà” stessi epitetavano i Bergamini come “buascèr”, in un chiaro intento dispregiativo (in bergamasco le “boasse” sono le feci delle vacche).

E non finisce qui.

I Bergamini erano malvisti non solo da chi non aveva le stesse possibilità sul piano economico-sociale, ma anche da chi era al loro stesso livello dal punto di vista economico e che, tuttavia, si riteneva un gradino più in alto per stile di vita, istruzione, genealogia, pulizia ed igiene personale, ossia dalla nascente borghesia agricola del XVIII-XIX secolo.

In realtà questa classe sociale in via di sviluppo non vedeva di buon occhio i Bergamini non solo per i loro usi e costumi poco cittadini, ma perché erano dei pericolosi rivali in affari, una concorrenza che minava le possibilità di guadagno che si profilavano con lo sviluppo agrario del periodo.

Ma come si svolgeva il lavoro del Bergamino?

Prima di tutto, era necessario organizzare la transumanza, ossia il trasferimento delle mandrie in alpeggio e il loro ritorno in autunno. Era importante pianificare tutto in anticipo e nei dettagli: pensare all’itinerario, definire e prenotare i luoghi di sosta in funzione della disponibilità di fieno per gli animali, valutare la percorrenza giornaliera in base al tipo di percorso (si percorrevano tragitti di lunghezza variabile fra i 50 ed i 140 km) e così via.

Ovviamente, la transumanza non è stata inventata dai Bergamini: è presente in varie forme in molti luoghi del pianeta, presso numerose popolazioni e nota sin dall’antichità.

Quello che va riconosciuto ai Bergamini, invece, è che con la loro abitudine di transumare tra pianura e montagna hanno contribuito in modo determinante alla diffusione e allo sviluppo dell’allevamento nella così detta Bassa, l’ampia pianura che si sviluppa a valle dell’arco alpino.

Questa zona, infatti, fino al XV-XVI secolo era destinata prevalentemente a uso agricolo ed è stata la presenza dei Bergamini, dapprima stagionale e poi permanente (quando cessarono di praticare la transumanza) a permettere lo sviluppo progressivo del settore dell’allevamento e della produzione casearia, che ancora oggi è attivo e florido.

Molti lettori si saranno chiesti, a questo punto, come mai i Bergamini si chiamassero così.

La prima e più spontanea associazione linguistica è quella con la città di Bergamo, e in effetti molti cognomi bergamini sono di origine bergamasca: Stracchetti, Mazzoleni, Santi, Arioli, Papetti, Invernizzi, Locatelli, Monaci, Cattaneo, Valsecchi… E alcuni tra questi nel tempo sono diventati marchi commerciali di prodotti caseari.

Tuttavia, sebbene molte famiglie bergamine provenissero dalle montagne bergamasche, non tutte ne erano originarie. E dunque? Le ipotesi sono due, entrambe altrettanto valide.

La prima è che un tempo fosse diffuso chiamare “bergamaschi” i montanari o i pastori in genere, forse perché molti orobici delle valli emigravano frequentemente per motivi di lavoro.

La seconda ipotesi rimanda ancora al mondo della montagna, poiché la radice della parola (berg) in molte lingue compare nei vocaboli che indicano qualcosa che è “posto in alto”, ma la disamina linguistica sarebbe troppo tediosa in questa sede.

Per ora basti sapere che in latino volgare esisteva un termine ben preciso: berbicarius, derivato da berbices, da rendere in latino classico come vervex, ossia pecora. Tant’è!

La vocazione zoocasearia dei Bergamini, insomma, è insita nel loro stesso nome e, poiché hanno dato alla professione del semplice pastore quel qualcosa in più (lo spirito imprenditoriale) che ha consentito lo sviluppo dell’attuale produzione industriale di formaggi, possono esserne considerati quasi i fondatori.

La categoria dei Bergamini oggi non esiste più e fa parte della storia, ma si è in qualche modo evoluta.

Negli ultimi anni, infatti, molti giovani hanno deciso di intraprendere la carriera di imprenditori zoocaseari in forma contenuta allevando pochi capi di bestiame per la produzione altamente qualitativa di formaggi di nicchia. È un fenomeno che alcuni hanno definito “ritorno alla montagna” e c’è da auspicarsi che sia davvero così, visti i passati anni di spopolamento delle valli bergamasche.


Irene Foresti

Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Dopo essersi occupata della direzione di impianti della grande distribuzione food, di educazione alimentare e marketing e comunicazione dei prodotti alimentati, da alcuni anni è Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva che gestisce i servizi di refezione presso scuole, aziende, ospedali e case di cura. Nel tempo libero, appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche. Ha scritto Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020).