LATTE CAGLIO SALE
di Irene Foresti


Nasce nell’ambito antico delle culture pastorali il noto binomio gastronomico che ancora oggi è largamente utilizzato

In molti ristoranti si possono degustare formaggi accompagnati da miele e confetture. Questo abbinamento, tuttavia, è solo il più frequente, il più recente e il più conosciuto: esiste una vera e propria tradizione dolciaria, sviluppatasi nelle principali culture pastorali del mondo, che vede protagonisti l’accoppiata tra miele e formaggio.

Chi non ha mai sentito nominare le seadas sarde, dolci originari delle zone dell’isola fortemente vocate alla pastorizia e diffusi grazie alla transumanza? Probabilmente pochi.

Più difficile, invece, conoscere la melopita greca (a base di miele e del formaggio anthotyro), il künefe o kenafeh turco e mediorientale (sorta di pasta fillo condita con miele e un formaggio simile alla nostra mozzarella), le staitite (frittelle della Grecia antica preparate con miele e formaggio), la feta me meli, gli arrubiolus sardi (palline di ricotta e miele), l’atayef o ktayef mediorientale (pancakes fritti farciti con formaggio e frutta secca e ricoperti di miele), le pardulas sarde (tortine ripiene di ricotta di pecora e miele), i sos rujolos (frittelle di miele e ricotta)…

Per capire come dolci di questo tipo possano essersi sviluppati quasi autonomamente in territori così lontani fra loro, è necessario riflettere sui significati simbolici del miele.

Se conosciamo bene lo statuto sociale del formaggio, non possiamo dire altrettanto di quello del miele e di come lo stesso muti quando viene abbinato ai prodotti caseari.

Nel mondo antico (e ancor prima nella preistoria) tutto ciò che aveva un’origine non certa alimentava miti, credenze e superstizioni e il miele, essendo disponibile in natura in forma selvatica, rientrava a pieno titolo in questa categoria.

A differenza di prodotti come il formaggio, il vino e l’aceto, infatti, non può essere prodotto dall’uomo mediante la semplice osservazione, riproduzione e controllo del fenomeno naturale che lo origina, tant’è che a oggi (nonostante il progresso tecnologico) non siamo in grado di produrre un miele artificiale paragonabile a quello naturale.

Per secoli, infatti, i meccanismi che portano alla produzione del miele da parte delle api sono rimasti oscuri, anzi: non si sapeva neppure che a produrlo fossero le api (e altri imenotteri come loro)! Ad esempio, si pensava che essudasse spontaneamente dalle foglie, che piovesse dal cielo o che comunque, come nel pensiero egizio, romano, greco e del Vicino Oriente, fosse un dono degli dei.

È anche per questo che il miele è diventato il protagonista di miti e leggende in molte culture.

Nel mondo greco, come si legge nell’Iliade, è identificato come nettare e ambrosia degli dei e il capo di tutti loro (Zeus), sempre secondo il mito, sarebbe stato nutrito proprio con il miele da Melissa (nome greco dell’ape), la ninfa a cui la madre lo affidò affinché lo portasse a Creta per salvarlo dal padre Crono, divoratore di figli.

Molti esempi anche in America del Sud. Due diversi miti indigeni raccontano come gli uomini salissero in cielo arrampicandosi su un albero per trovare miele e pesci o che i primi uomini, appena usciti dalle viscere della terra, avessero trovato a loro disposizione frutti, api e miele in gran quantità. Pur trattandosi di miti legati più alle origini dell’uomo sulla terra che a qualche divinità in particolare, esemplificano ancora come attorno al miele aleggiasse un’aura di sacralità e origine divina.

E da qui a che il miele diventasse offerta cultuale, il passo fu breve.

Libagioni di miele venivano offerte agli dei già dai Babilonesi e da alcune popolazioni sudamericane, mentre nella Sicilia greca il miele rimase la principale forma di libagione finché non si diffuse la cultura del vino.

Si tratta di un’usanza che è durata parecchi secoli, se si pensa che nell’Alto Medioevo al miele e alla sua produzione vennero riconosciuti caratteri di sacralità.

Il ruolo del miele come offerta templare è sicuramente scaturito dalla mitologia che, come detto, in molte culture lo vede protagonista.

Il fatto che il miele fosse un prodotto puro (non manipolato dall’uomo), non toccato dal fuoco (come altre libagioni) e di difficile reperibilità (prima dello sviluppo dell’apicoltura, si raccoglieva il miele selvatico) lo rendeva libagione ideale.

Tutti questi elementi, oltre alla sua grande versatilità farmaceutica, cosmetica e alimentare, con il tempo hanno contribuito a fare del miele un importante marcatore sociale: ritenuto prodotto pregiato già nell’Età del bronzo, presso la civiltà egizia del periodo dell’Antico Regno divenne un privilegio riservato alle sole mense reali e cultuali.

Per questo, presso molte civiltà antiche ma anche in epoche piuttosto recenti (parliamo di pochi secoli fa) chi danneggiava o rubava gli alveari poteva passare guai molto seri. Ed era un reato talmente frequente da figurare fra quelli puniti più pesantemente dalle leggi del Codice di Hammurabi.

Il miele ha mantenuto lo status di bene di lusso finché è rimasto uno dei pochi dolcificanti conosciuti e ampiamente disponibili in natura, ossia fino all’avvento dello zucchero.

Come mai, dunque, un prodotto così pregiato e costoso è finito per essere abbinato al formaggio, considerato spesso cibo di contadini e pastori, si ricordi? È un altro caso di nobilitazione del formaggio come nell’abbinamento con le pere? Non è da escludere, ma c’è di più e per spiegarlo bisogna fare un passo indietro.

Diversi testi religiosi parlano spesso di «latte e miele»: nella Bibbia Dio descrive a Mosè la Terra promessa come un paese dove scorrono latte e miele e associazioni simili sono presenti anche negli inni vedici.

Si tratta di promesse poco credibili che hanno la funzione di richiamare alla mente una delle tante declinazioni del cosiddetto Paese di Cuccagna o Bengodi, un luogo in cui la ricchezza e l’abbondanza alimentare sono infinite e alla portata di tutti, poveri o ricchi che siano.

Il latte, inoltre, al pari del miele è uno degli alimenti che l’uomo non ha bisogno di modificare o di manipolare per poterlo consumare tale e quale e in passato rappresentava un prodotto di pregio, in quanto veniva utilizzato per la produzione del formaggio. Erano in pochissimi, infatti, a consumarlo come bevanda.

Anche per questo, il latte accompagnava spesso il miele in qualità di libagione rituale, come testimoniano autori quali Plutarco, Plinio e Omero. Non è un caso, dunque, se il piccolo Zeus rifugiato a Creta venne nutrito non solo dal miele di Melissa, ma anche dal latte della capra Amaltea.

Miele e latte, altresì, erano un’ottima combinazione per la teoria dei contrari. Nella cultura egizia, si controbilanciavano in quanto il primo è un alimento solare e fonte di energia divina e il secondo ha natura lunare. Allo stesso modo, il miele (per usare la terminologia di Lévi-Strauss) è un alimento crudo e naturale, mentre il formaggio è cotto e culturale. Nell’interpretazione della Scuola medica salernitana, infine, il miele ha natura calda e il formaggio, fredda.

A questo punto, si può verosimilmente pensare che il ruolo del latte si sia in breve traslato al formaggio evolvendosi di conseguenza a seconda delle epoche. Tant’è che secondo la mitologia greca i segreti della caseificazione e dell’apicoltura sarebbero stati insegnati agli uomini da Aristeo, figlio di Apollo.

Ma come ha fatto questo binomio a entrare nelle culture pastorali, se fin qui abbiamo sempre parlato di altri contesti sociali?

La prima precisazione va fatta relativamente all’epoca romana.

Pietanze a base di formaggio e miele appaiono nel Satyricon di Petronio, nel De re coquinaria di Apicio, nel Deipnosofisti di Ateneo e nel De agri cultura di Catone.

Erano forse le famose placentae romane (focacce o fiadoni preparate con l’abbinata bianco-oro)? Difficile dirlo con certezza, ma la cosa da notare è che, diversamente da quanto possano far pensare le immagini più ricorrenti dei film ambientati nell’antica Urbe, la società romana delle origini era di stampo pastorale.

Non è dunque un caso se miele e formaggio si siano abbinati nella preparazione di dolci, ma non solo: la cucina rinascimentale, per esempio, vedeva la presenza di zucchero o miele praticamente ovunque.

Fino a tempi non troppo lontani, l’apicoltura è stata un’attività collaterale alla transumanza. Del resto, le api stesse sono transumanti, spostandosi periodicamente  per il ciclo delle fioriture, a seconda della stagione.

L’uomo, semplicemente, ha compreso l’utilità del trasportare con sé le arnie in concomitanza agli spostamenti delle mandrie per avere un prodotto in più, da consumare o, meglio ancora, da rivendere. Lo sforzo produttivo era quasi pari a zero: la maggior parte del lavoro lo fanno le api. E la resa sicura: raccogliere il miele selvatico era come andare a caccia, dunque poteva essere un’attività infruttuosa.

Per tornare ai dolci di cui in apertura, in passato non si trattava di ricette per tutti i giorni (la seada, ad esempio, era un dolce pasquale) e che il tipo di formaggio da utilizzare non era troppo vincolante: si usava quello che c’era, verosimilmente parte della produzione casearia destinata all’autoconsumo familiare.

Ciò avvalora l’ipotesi dell’abbinamento di due ingredienti facilmente disponibili a costo bassissimo poiché autoprodotti, prodotti da animali (le api) semi-addomesticati o raccolti in natura.

Quel che va notato, è che molte ricette originano da civiltà che hanno conservato a lungo, o conservano ancora, un’identità pastorale (Sardegna, Grecia, Turchia ecc.) e di come il binomio miele-formaggio si sia evoluto nel tempo.

È partito da un’utopia mitico-religiosa per passare all’ambito cultuale e infine a quello culinario, che poi è l’unico in cui ancora sopravvive.

Viene quasi da pensare che quando usi e tradizioni finiscono in cucina diventino sempiterni, ma questa è un’altra storia.


Irene Foresti

Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Dopo essersi occupata della direzione di impianti della grande distribuzione food, di educazione alimentare e marketing e comunicazione dei prodotti alimentati, da alcuni anni è Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva che gestisce i servizi di refezione presso scuole, aziende, ospedali e case di cura. Nel tempo libero, appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche. Ha scritto Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020).