Atti di responsabilità, azioni individualiste, stili di vita e di alimentazione. Nelle piazze e nelle pance, questa pandemia dovrebbe portarci a spegnere le polemiche blaterate ed aiutarci a vedere più chiaro. Per migliorare la vita di tutte e di tutti.
di Simonetta Lorigliola
Si chiude, o quasi. Niente più aperitivi, né cene nei ristoranti. Sui giornali e sui social non si parla d’altro. Le piazze si accalcano. Le vetrine si infrangono. La stretta “gastronomica” occupa spazi decisamente maggiori rispetto a quelli destinati alla chiusura di teatri e cinema, musei.
In vigore da oggi un nuovo Decreto, dopo giorni di imbarazzanti tira e molla tra centro e periferie, Stato e Regioni. Tornano zone rosse, compaiono quelle arancioni e gialle.
La condanna alle regole per contrastare il Covid resta ed e è dilagante. Sembra però che manchi, quasi sempre, la chiarezza.
C’è chi scrive: «aprire i locali e chiudere le scuole!»
C’è chi ha sostenuto che si sarebbero dovute chiudere del tutto le scuole e non i ristoranti perché è ovvio che sono le prime e non i secondi a diffondere il contagio. E lo dimostrerebbe il fatto che quest’estate i locali erano pienissimi di gente, e non ci sono stati focolai.
Bestialità, poiché i dati epidemiologici parlano chiaro: la situazione attuale è il frutto di un eccessivo allentamento delle misure preventive da giugno in poi. Si vedano le dichiarazioni di autorevoli voci scientifiche che riassumono gli errori commessi che avrebbero portato a questa situazione.
Leggere simili ragionamenti ideologici su una delle massime testate nazionali di gastronomia è stato piuttosto sconvolgente. Oltreché contrario ad ogni evidenza scientifica. È come assistere all’accensione di un fumogeno in mezzo alla folla: tutti se ne accorgono, guardano, da vicino e lontano, desta indubbiamente molta attenzione ma toglie ogni visuale. Per non parlare del bruciore agli occhi. Azioni di offuscamento.
Nel mezzo di una pandemia, è vero, non deve essere facile prendere decisioni, e prendere quelle irreprensibilmente giuste ancora meno. I fattori sono molti e complicati.
Ci sono i dati, i numeri, oggi molto chiari: la curva dei contagi è in costante crescita. Ma ci sono anche le Regioni, le categorie e i soggetti sociali che tirano per la giacca. La decisione presa, qualunque sia, scatena comunque, da qualche parte, reazioni negative. E tant’è.
I teatri, i cinema, le sale da concerto, i musei
Chiudere musei, teatri e cinema tarpa la vita sociale e culturale, almeno in parte. È vero. E penalizza i lavoratori di quel settore. Purtroppo è così in questa fase, e la temperatura culturale ne risentirà, inevitabilmente.
Chiudere i bar e i locali che hanno anabolizzato il bel rituale dell’aperitivo favorendo l’ammasso di persone, ha un valore diverso. Lo sappiamo tutti che in quei contesti, in molti casi, non c’è regola sanitaria che tenga, a partire dalla distanza di sicurezza. Recenti studi dicono che stare a contatto per più di 15 minuti con qualcuno che sia diffusore e che parli accanto a te, implica un’alta probabilità di contagio.
Chi può sostenere che sia sensato e indispensabile che questi luoghi restino aperti, mentre la curva dei contagi cresce pericolosamente?
Ristoranti, caso diverso
Per i ristoranti è diverso. Sono luoghi in cui il numero delle persone è strettamente controllato, o può esserlo facilmente. E anche le distanze lo sono. È un modo differente di stare insieme, di socializzare e di consumare. Non ci sono ammassi di alcun tipo. Naturalmente chi ci va, sa che il rischio non potrà mai essere zero, ma di certo quel rischio sarà centuplicato prendendo una metropolitana nell’ora di punta, o un bus urbano alle sei del pomeriggio. Perché i trasporti pubblici sembrano essere un settore sui cui è impossibile intervenire? Oggi siamo giunti, tardivamente, a decretare che possono viaggiare al 50% della capienza. Così tardi, e senza controlli seri, servirà? E intanto a pagare son gli studenti delle superiori: tutti a casa a far lezione davanti a uno schermo. Orrore educativo e relazionale.
Eppure si potrebbe approfittare di questa situazione emergenziale per fare un ragionamento sui tempi e ritmi delle nostre vite. E anche sperimentare qualche orario scaglionato, nelle entrate a scuola e al lavoro. Certo, avremmo le vite un po’ sconquassate, ma se l’emergenza è tale, tutti dovremmo fare la nostra parte.
Il nuovo decreto rilancia lo smart working, che però non sembra raccogliere grande favore. Resistenze, anche qui. Favorirà il lavoro da casa – per forza- il pubblico, il privato chissà.
L’erba e il fascio: perché non differenziare le chiusure?
Tornando alla ristorazione, ci sono anche bar ed enoteche che mantengono uno stile sobrio: si consuma solo al tavolo, con i necessari distanziamenti, spesso all’aperto anche ora, complice il terribile cliente change. C’è sempre un numero chiuso, il che è di per sé una prima garanzia di sicurezza. Si può anche far sì che i controlli siano più frequenti.
Così, questi locali, avrebbero potuto continuare il loro lavoro, magari accentuando l’attenzione su alcune variabili critiche a livello sanitario. Nella mia esperienza di questi mesi, ho raramente incontrato ristoranti o trattorie in cui non fossero rispettate le norme sanitarie e di arieggiamento, dato fondamentale per il controllo del contagio. Queste chiusure potrebbero forse, almeno al di fuori delle zone rosse e arancioni, tenere conto delle diverse tipologie di locali e non fare di tutt’erba un fascio.
Le vere curve e i riduzionisti
È tutto vero. Ma oggi un solo dato e numero dovrebbe essere comunicato chiaramente: la curva dei contagi sale e salirà fino a febbraio. La fonte, massimamente autorevole, è una ricerca che viene continuamente aggiornata dell’Institute for Health Metrics and Evaluation che tiene sotto controllo le curve a livello mondiale, scendendo nel dettaglio locale. Per l’Italia sono disponibili previsioni regionali.
E sono tutt’altro che rosee.
Anche questo sembra non bastare. Dilaga il riduzionismo: il Covid è una malattia a bassa moralità, si sente dire sempre più spesso. E l’affermazione sarebbe sostanziata dal fatto che chi muore di Covid ha, in genere, almeno due cosiddette comorbidità. Vuol dire che i cardiopatici, gli obesi, gli ipertesi e così via sono soggetti ad alto rischio, se si ammalano. E dunque?
Quelle patologie sono oggi le più diffuse a livello mondiale. La fonte è uno studio del Global Burden of Disease, coordinato in Italia dall’IRCCS Burlo Garofolo di Trieste, uscito sulla rivista Lancet in ottobre 2020. Il che vuol dire che a teorico rischio morte per Covid è una bella fetta di popolazione. Che facciamo? Attendiamo che muoiano i malconci e gli anziani e poi puntiamo sull’immunità di gregge?
Le curve, il rischio: alimentazione e stili di vita
Invece si potrebbe e dovrebbe andare ancora più a monte.
Perché c’è un così gran numero di soggetti a rischio?
Quali sono le cause di quelle patologie?
L’autorevole studio lo ha già detto, le cause sono due: stile di vita e alimentazione.
Bingo.
Ecco di cosa dovremmo parlare adesso, se davvero volessimo ragionare su un futuro in cui emergenze siano evitabili.
Oggi, in piena pandemia e in piena discussione pandemica in cui crescono i negazionisti e le contestazioni, i conflitti dovremmo parlare anche di altro. Del vero succo della questione. Della ciccia. E sono già due metafore alimentari: il cibo è dentro il linguaggio perché è dentro la nostra vita, e ne traccia contorni e sfumature. Nonché percorsi cellulari e metabolici. Corpo e cervello.
Come viviamo e cosa mangiamo. Ecco il tema.
Il coup de foudre, nascosto, ma centrale. E i luoghi dove questo potrebbe più efficacemente accadere sono molti. Le riviste gastronomiche, per esempio. E anche le scuole. Altro che chiuderle e tenere aperti i bar.
Cultura contro alimentazione spazzatura (e patologie)
Le scuole facciano i doppi turni, semmai. Gli insegnanti si rassegnino a lavorare qualche pomeriggio, non cadrà il mondo. E così ci sarà meno assembramento sui trasporti. Ad esempio. Invece da oggi i ragazzi e ragazze delle superiori saranno costretti alla asettica didattica a distanza in tutta Italia, senza distinzioni.
Invece le scuole potrebbero essere uno dei punti di partenza di una rivoluzione alimentare e degli stili di vita.
Che va iniziata ora, perché ora si vedono meglio i nefasti risultati di una relazione trascurata con il cibo, il tempo, il piacere e il godimento.
Che il junk food, tra l’altro presentissimo anche nelle scuole, sia diventato uno dei massimi oggetti del desiderio alimentare è la spia di questa stortura del godimento, è come mettere il piacere dentro un recinto di filo spinato che ti tiene prigioniero e ti condanna.
E il medesimo studio ci dice anche che più si abbassa il livello culturale, più dilagano le patologie derivanti da cattiva alimentazione. Il fattore X è, dunque, conoscenza e cultura.
Il Novecento è definitivamente un ricordo
Siamo in un momento tragico, ha scritto Marco Revelli, riferendosi alle crude piazze delle proteste. Tragedia, nel senso classico, dice il sociologo: no chance tra bene e male. Coloro che protestano, siano essi gli “uomini della strada, gli esercenti o le fasce più marginali della popolazione che spaccano le vetrine echeggiando canti fascisti, sono tutti diversi esempi della definitiva fine del Novecento.
Per tutti loro non ci sono, infatti, più scelte tra un’ideologia o un’altra.
Queste persone si sono sentite derubate della loro posizione economica e reagiscono con una devastante invidia sociale, un sentimento amaro e potente, che impedisce di guardare a qualunque orizzonte.
Che oscura ogni futuro.
Restano solo l’individuo e le sue individuali necessità.
Un momento tragico, ripete Revelli.
Ma le cose si cambiano. Possono cambiare. E la crisi, da sempre, è stata momento di rottura e mutamento.
Questa dovrebbe essere la lezione da condividere, a partire da ora, perché non c’è emergenza che tenga.
Bisogna ritrovare il bene comune, ripartire dalla cura per le proprie vite e le proprie pance, in connessione con quelle degli altri e con il grande grembo che tutti ci ospita, quello del nostro pianeta, di cui tutti siamo ospiti e che ha infinitamente bisogno dei nostri atti di responsabilità individuale e collettiva.
E anche del nostro amore.
Simonetta Lorigliola
Simonetta Lorigliola, giornalista e autrice, si occupa di cultura materiale.
È nata e cresciuta in Friuli. Ha frequentato l’Università degli studi di Trieste, laureandosi in Filosofia. È stata Responsabile Comunicazione di Altromercato, la principale organizzazione di Commercio equo e solidale in Italia. Ha collaborato con Luigi Veronelli, nella sua rivista EV Vini, cibi, intelligenze e nel progetto Terra e libertà/critical wine. Ha vissuto in Messico, ad Acapulco, insegnando Lingua e cultura italiana. Ha diretto Konrad. Mensile di informazione critica del Friuli Venezia Giulia. Da molti anni collabora con il Seminario Veronelli per il quale è oggi Responsabile delle Attività culturali. La sua ultima pubblicazione è È un vino paesaggio (Deriveapprodi, 2018).
Foto di Jacopo Venier