La Liguria più autentica tra viticoltura eroica, memoria collettiva e visione artigianale

di Francesca Motta

C’è un lembo di Liguria, stretto tra il mare e le montagne, dove la storia ha lasciato la sua impronta in ogni angolo del paesaggio. Qui, nell’entroterra tra Ventimiglia e Bordighera, seguendo il corso del torrente Nervia, sorge Dolceacqua, il famoso borgo dominato dal Castello dei Doria e la cui magia fu catturata dal pennello di Claude Monet.

E salendo un po’, in altitudine, precisamente in località Arcagna, troviamo Terre Bianche, un’azienda vitivinicola il cui nome rende omaggio alla peculiarità geologica di questa zona, tanto cara a Luigi Veronelli.

Le origini di Terre Bianche

Tutto ha inizio nel 1870, quando Tommaso Rondelli pianta i primi filari di Rossese, intuendo il potenziale di questa terra particolare, chiara, per l’appunto, bianca, dando avvio a un’avventura lunga più di 150 anni.

Da lì in avanti, la storia della vigna si intreccia con quella della famiglia, e ogni generazione aggiunge un capitolo. Negli anni Ottanta, il testimone passa a Claudio e Paolo Rondelli che, con Franco Laconi, ampliano l’azienda, migliorano qualitativamente e quantitativamente la produzione, e danno vita al primo agriturismo della Liguria, con annesso ristorante, inserito in Guida Michelin. 

Poi la vita ha cambiato le carte.

«Avevo 19 anni quando ho perso entrambi i miei genitori» ci racconta Filippo Rondelli. «Ho lasciato gli studi e sono rientrato in azienda. All’inizio è stato tutto complicato, ti chiedi: ma chi me l’ha fatto fare? Poi arriva quella pacca sulla spalla, da qualcuno che si intende di vini e ti dice “vai avanti, stai andando bene”, e capisci che vale la pena continuare».

Oggi a guidare l’azienda con grande spirito artigiano è lui, Filippo, affiancato dalla moglie Fabiana e dalla famiglia. Cresciuto tra Pavia e il paese di Brunetti, in comune di Camporosso, è tornato dunque alle sue origini per portare avanti questo lascito fatto di vigne storiche.

Dolceacqua: la culla del Rossese

Dolceacqua non è solo lo sfondo, è parte integrante del racconto. Qui la vite è di casa da più di duemila anni, tra i primi castellari costruiti dai Liguri dove si coltivavano piccole porzioni di terreno, gli scambi commerciali con gli antichi Greci che diffusero la coltura della vite, i Romani che utilizzavano l’argilla bianca di queste terre per tegole e laterizi e i monaci benedettini che svilupparono la coltivazione degli ulivi.

La zona di produzione del Rossese ha conosciuto guerre, crisi e rinascite. Nel 1972, dopo il declino della viticoltura locale seguito al Dopoguerra, il Rossese di Dolceacqua ottiene la prima Denominazione di Origine Controllata della Liguria. Un punto di svolta per quello che Veronelli definì il più grande vino italiano. E oggi, a distanza di cinquant’anni, le vigne continuano a raccontare.

I vini, fedeli interpreti di un territorio

Oggi Terre Bianche coltiva circa 10 ettari di vigneti, sparsi in piccoli appezzamenti, proprio come spesso accade in questa parte di Liguria dove la viticoltura è eroica, verticale, frammentata. Tra i vigneti storici di Arcagna (dove alcune viti superano i 100 anni), i più giovani di Scartozzoni, i più ripidi di Aurin, e i più caratteristici di Terrabianca, ogni parcella ha una sua identità. 

La produzione, nonostante le superfici, è di circa 50-55 mila bottiglie l’anno. Le rese per ettaro sono basse, soprattutto per il Rossese, per cui il disciplinare consente 90 quintali a ettaro, ma «se arriviamo alla metà siamo già contenti», dice Filippo con un sorriso. 

Da questa frammentazione nasce anche la ricchezza stilistica. Rossese di Dolceacqua, Pigato, Vermentino: tre vitigni, tante interpretazioni, ognuna legata a un vigneto, a una storia, a un’identità precisa. 

Il Rossese, poi, un po’ come il Pinot nero, ha una duplice natura: può essere giovanile e luminoso, ma anche profondo e complesso. La linea di Terre Bianche con la mappa in etichetta è pensata per essere il “biglietto da visita”, quella che Filippo definisce la più rappresentativa del territorio. «Come nei ristoranti: giudichi dalla semplicità. Se il piatto di ingresso è buono, allora puoi fidarti di tutto il resto». 

Poi ci sono le referenze più complesse, nate da singole parcelle – UGA o Nomeranze, come si definiscono qui – vinificate con tempi più lenti, più strutturate. «Sono vini molto legati all’identità del singolo vigneto, che possono dividere» continua Filippo. «Un po’ come la musica: il rock è per tutti, ma se ti spingi in generi più specifici, come nel metal, ad esempio, o lo ami o lo odi».

L’obiettivo, a ogni modo, è lasciare che siano le uve a parlare, nella maniera più sincera possibile. Per questo ogni intervento in vigna e in cantina è calibrato con precisione, mai invadente. «La conoscenza non deve appesantire il vino, ma valorizzarne la naturalezza» spiega Filippo. Un approccio artigianale, rispettoso, che non cede a mode effimere.

E nonostante la vocazione locale, Terre Bianche guarda al mondo. L’export è importante, ma senza snaturarsi. «Siamo liguri un po’ anomali: da sempre vendiamo tanto anche fuori, ma restiamo legati alla nostra terra».

La svolta delle UGA: un progetto di territorio

Uno dei lavori più importanti portati avanti da Filippo è stato il progetto delle Unità Geografiche Aggiuntive (UGA) per il Rossese di Dolceacqua. «È stato il mio pallino. Sono cresciuto in un’azienda che ha sempre dato più importanza al territorio che alla persona. Filippo un giorno non ci sarà più, ma il territorio deve continuare a parlare».

Così, nel 2011, grazie alla prima associazione di produttori di Dolceacqua, detta Vigne Storiche, si riunisce intorno a un tavolo insieme a tutti i produttori: «Ci siamo detti quali erano le vigne più importanti e le abbiamo messe per iscritto in nel disciplinare DOC del Rossese di Dolceacqua. Poi è arrivato Alessandro Masnaghetti, allievo storico di Veronelli, che voleva vedere i confini. Ma non c’erano! Ci siamo accorti di aver fatto un lavoro incompleto».

Così Filippo riprende a studiare e in particolare si concentra su Barolo, Barbaresco, Borgogna, Bordeaux. Chiede aiuto alla CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) e allo storico Alessandro Giacobbe, elabora un metodo, ricomincia a mappare tutto con le nuove informazioni apprese su circa 3000 ettari, in un lavoro che dura quasi quattro anni.

«Grazie alla CIA, alla Camera di Commercio di Imperia, alla Regione Liguria e i Comuni della DOC, che hanno facilitato molti aspetti tecnici e di ricerca, nel 2014 terminiamo il progetto, lo approviamo e lo presentiamo, ma è stato pubblicato solo adesso, nel 2025, dopo essere rimasto fermo per dieci anni tra Regione e Ministero. Eravamo tra i primi in Italia ad aver intrapreso questo studio: prima di noi ricordo solo Barolo e Barbaresco, e così ci sono passati davanti gli altri. È stato comunque un ottimo lavoro, perché basato sulla diplomazia, sulla sinergia e sull’accordo tra produttori».

Una cultura da ricostruire

Filippo racconta anche di un cambiamento importante nella mentalità della regione: «Noi liguri siamo migliorati tanto, sia nel turismo che nella gestione delle carte vini. Prima arrivavi in un ristorante di qua e il primo vino proposto non era nemmeno della Liguria. In Piemonte avevi, invece, 80 pagine di vini locali e solo un trafiletto con gli altri italiani. Ora le cose stanno cambiando».

Il paradosso? «Quando ho iniziato, quasi 30 anni fa, esportavamo in Giappone, negli Stati Uniti… Era più facile trovarci su una carta di un ristorante tristellato a Tokyo che qui, dove il nostro vino costa molto meno».

Ma c’è speranza: «Le nuove generazioni stanno evolvendo. C’è più voglia di provare i vini del posto e la tendenza resta positiva. Molti produttori hanno lavorato bene anche quando regnava la totale ignoranza collettiva e adesso vediamo i risultati».

Una Liguria che studia, ascolta e cresce

In fondo, la storia di Filippo Rondelli e di Terre Bianche è quella di una realtà che ha imparato a riconoscere il proprio valore partendo dalla memoria, dallo studio e dall’impegno. Con la consapevolezza che il vino è uno dei modi più autentici per raccontare chi siamo. 

Chi visita questi luoghi, chi assaggia questi vini, chi ascolta Filippo parlare della sua vigna centenaria, capisce subito che qui la vite non è solo coltivata: è vissuta. E in ogni bottiglia di Terre Bianche c’è un po’ di questa Liguria fiera e complicata.


FRANCESCA MOTTA

Nata e cresciuta a Milano, classe 1995, dopo la maturità classica, si trasferisce a Oxford dove lavora nella ristorazione e consegue un Diploma di perfezionamento in Scienze Politiche. Successivamente, si dedica al volontariato in Ghana, dove tiene corsi sui diritti umani nelle scuole di Accra. Al rientro in Italia, dopo aver conseguito la laurea in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano, decide di trasformare la sua passione per il vino in un lavoro. Completa il Corso per sommelier con AIS Milano e ottiene il Master in Wine Culture and Communication presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Nel 2022 entra a far parte dell’Associazione Nazionale Le Donne del Vino. Dal 2023 è impegnata nell’ambito dei servizi di comunicazione per il settore vitivinicolo. Dal 2021 collabora costantemente con il Seminario Permanente Luigi Veronelli in qualità di redattrice.