Una fermentazione che non è propriamente tale. Una trasformazione biochimica che modifica il vino, in ogni senso: caratteristiche organolettiche, sicurezza, stabilità.

di Federico Duca

Nella “Storia moderna del vino italiano” curata da Walter Filiputti, l’enologo Angelo Solci scrive:  

«La possibilità d’innescare e condurre la fermentazione malolattica nei tempi desiderati è un altro grosso passo in avanti nell’enologia di precisione e di qualità. Non solo per il miglioramento organolettico, ma anche per la sicurezza alimentare. La selezione e la garanzia di purezza dei batteri hanno di fatto eliminato le “malattie del vino” tanto diffuse sino agli anni Sessanta e Settanta (acescenza, filante, amarore, girato) ». 

In queste poche righe emergono due importanti obiettivi della fermentazione malolattica: il miglioramento delle qualità olfattive e gustative del vino e la sicurezza alimentare, intesa come il risultato della stabilizzazione a livello microbiologico del prodotto.

L’apprendimento della gestione della fermentazione malolattica è stato un passaggio di fondamentale importanza durante il cosiddetto “Rinascimento del vino italiano” che prese il via dalla fine degli anni Sessanta del novecento. Guarda caso, in quegli stessi anni, fanno il loro debutto sul mercato i grandi vini rossi italiani che rivoluzioneranno il blasone vitivinicolo del nostro Paese. 

Ma cos’è la fermentazione malolattica? E perché risulta così importante nella vinificazione in rosso?

Cos’è la “malolattica”?

Innanzitutto, occorre dire che il termine corretto sarebbe trasformazione (o conversione) malolattica poiché, chimicamente, non si tratta di una vera e propria fermentazione. Tuttavia continueremo a chiamarla “fermentazione” come ormai si usa nel linguaggio comune. 

Per definizione la fermentazione malolattica è la trasformazione dell’acido malico in acido lattico e anidride carbonica. 

I primi riferimenti scientifici riguardanti questa “fermentazione secondaria” risalgono ai primi del Novecento, ma solo nei decenni successivi si è scoperto il suo significato biologico e il ruolo positivo sulla qualità del vino.
I protagonisti di questo processo non sono più i lieviti, bensì i batteri lattici, in particolare l’attore principale è Oenococcus oeni, presente fin dall’inizio nel mosto, che entra in gioco quando Saccharomyces cerevisiae sta terminando o ha terminato la fermentazione alcolica. 

L’importanza della fermentazione malolattica si può racchiudere in tre effetti positivi sulla qualità del vino. Due li abbiamo già citati. Il terzo, altrettanto fondamentale, è la stabilità microbiologica del vino, il miglioramento delle proprietà organolettiche e la riduzione dell’acidità. Vediamoli uno ad uno.

La riduzione dell’acidità

La riduzione dell’acidità è forse l’effetto principale della malolattica ed è una diretta conseguenza della trasformazione (nel gergo tecnico una “decarbossilazione”) da un acido diprotico (con un’acidità maggiore), l’acido malico, a un acido monoprotico (con un’acidità minore). Inoltre, i due acidi in questione conferiscono una sensazione differente al gusto: l’acido malico è molto più aspro, mentre l’acido lattico è più avvolgente e meno marcato. 

Per fare due esempi concreti si può immaginare per l’acido malico la sensazione acida di una mela verde. Per l’acido lattico basta pensare alla sensazione acida dello yogurt. 

Questa disacidificazione comporta anche un aumento del pH dell’ordine di 0,3-0,5 unità. A tal proposito vanno fatte delle considerazioni: una disacidificazione e la presenza di un’acidità meno aspra è sicuramente molto gradita in un vino rosso, soprattutto se prodotto in zone fredde.

Ma la malolattica non è una prerogativa solo dei vini rossi. A volte viene eseguita, totalmente o in modo parziale (non sull’intera massa) sui vini bianchi, specialmente su quelli più complessi e strutturati e, più raramente, anche sulle basi spumanti. Tutto dipende dal prodotto che si vuole ottenere, considerando la zona di produzione e l’annata. 

La stabilità microbiologica del vino

È un altro effetto importante della malolattica. Al termine della fermentazione alcolica, il vino giovane è un ambiente inospitale per la crescita batterica, a causa della presenza di etanolo, di un livello basso di pH e della poca presenza delle fonti di carbonio (gli zuccheri) necessarie ai microrganismi per crescere. 

Tuttavia anche una scarsa densità di zuccheri e amminoacidi può essere sufficiente a favorire lo sviluppo di alcuni batteri e lieviti insidiosi. La fermentazione malolattica, a opera di O. Oeni, permette quindi di consumare queste poche fonti nutritive e rendere il vino ancora più stabile. 

A tal riguardo, vanno analizzati alcuni aspetti: innanzitutto, come abbiamo visto in precedenza, la malolattica comporta un discreto aumento di pH, che se fosse già alto in partenza (per esempio in annate calde su alcuni vini rossi) può comportare un pH finale del vino eccessivo. Questo, oltre a rendere meno efficace l’azione della SO2, sarebbe molto più favorevole ad altri sviluppi batterici. 

Inoltre, O. oeni, come tutti gli altri microrganismi, agisce secondo le sue esigenze nutrizionali e riproduttive, perciò, terminata la conversione dell’acido malico in acido lattico, è in grado di consumare anche l’acido citrico: ciò non è un bene se il consumo diventa importante, perché, tra le altre cose, potrebbe alzarsi ancora di più l’acidità volatile e potrebbero formarsi ammine biogene. 

Cosa fare quindi? 

Buone pratiche sono quelle di controllare i ceppi di O. oeni che si stanno sviluppando (esistono ceppi selezionati) e monitorare, tramite analisi di laboratorio, quando la malolattica è terminata (si considera ultimata quando l’acido malico è minore di 0,2 mg/l), per poi solfitare.

Le proprietà organolettiche del vino

Come detto, la malolattica modifica le proprietà organolettiche del vino.

L’aumento di pH comporta una diminuzione dell’intensità del colore. 

Dal punto di vista aromatico il bouquet del vino risulta meno “erbaceo”, e molto più fruttato, con uno spettro olfattivo più ampio. 

Il consumo di acido citrico, in piccole dosi, comporta un aumento della molecola di diacetile, che conferisce al vino un aroma simile al “burro”, molto gradevole, entro certi limiti. 

Dal punto di vista gustativo, invece, come abbiamo già detto, la sensazione acida è differente per la conversione dell’acido malico in acido lattico e per la riduzione del pH.

Oltre a questo, anche il corpo del vino cambia, risultando più “pieno” e viscoso. 

Fermentazione malolattica spontanea o indotta? 

Per fare questa scelta è necessario analizzare il contesto. Se il vino, al termine della fermentazione alcolica, presenta un ambiente sfavorevole per la crescita batterica, ciò può comportare una difficoltà non indifferente nell’avviare la fermentazione malolattica, soprattutto se la quantità di cellule di O. oeni è insufficiente. 

Non di rado, capita che la fermentazione malolattica spontanea si inneschi diversi mesi, o addirittura anni, dopo la fermentazione alcolica, con O. oeni che resta latente nel vino finché non trova le condizioni favorevoli per svilupparsi. 

Inoltre, con una malolattica spontanea può risultare difficile tenere sotto controllo molti effetti sulle proprietà aromatiche e gustative del vino, sullo sviluppo della volatile e sulla produzione di ammine biogene. 

Tuttavia, diversi vignaioli, soprattutto i più esperti e con più confidenza con i loro vini, si affidano a una malolattica spontanea. 

Dal momento che non tutte le annate sono uguali, è possibile anche affidarsi a una malolattica indotta ed eseguire un inoculo di O. oeni analogamente a quanto si può fare con l’inoculo di Saccharomyces cerevisiae per l’innesco della fermentazione alcolica.

È bene chiarire che non vi è nulla di “chimico” o di “dannoso” (o altre strambe dicerie) nei batteri o lieviti selezionati. 

Nel caso di O. oeni si tratta puramente di batteri di cui si conosce il ceppo e, quindi, il comportamento che avranno nel corso della fermentazione malolattica, se operanti nelle condizioni ideali. Sono gli stessi batteri che esistono in una fermentazione spontanea, con la sola differenza che in questo caso si conosce in modo più preciso la popolazione batterica. 

Ma i ceppi sono comunque sempre selezionati esclusivamente da campioni di vino. 

Nel caso di una malolattica indotta è bene preparare un “piede di fermentazione”, per adattare i batteri alle condizioni di alcol, pH e temperatura del vino. 

Si può anche eseguire un co-inoculo insieme a Saccharomyces cerevisiae, ma in questo caso bisogna accertarsi che si sviluppi prima il lievito, per cui solitamente, quando si adotta questa pratica, si inocula O. oeni leggermente dopo rispetto a S. cerevisiae, o verso il termine della fermentazione alcolica.

Tempo fa, quando non vi era ancora una grande conoscenza riguardo la malolattica e la tecnologia di cantina era molto scarsa, soprattutto per quanto riguarda il controllo delle temperature, la malolattica avveniva spesso in primavera. 

Ciò può essere spiegato col fatto che, avendo vendemmie mediamente più tardive rispetto ad ora che sono anticipate per l’aumento delle temperature medie, le fermentazioni alcoliche avvenivano in autunno inoltrato e terminavano quando il clima era già abbastanza rigido. La malolattica necessita di una temperatura ideale di 18/22 °C, per cui O. oeni non trovava le condizioni ideali per svilupparsi, dunque rimaneva quiescente nel vino e, in primavera, con l’aumento delle temperature, riusciva a svilupparsi e a effettuare la malolattica. 

A oggi questo problema è abbastanza superato grazie all’utilizzo di vasche termocondizionate. Tuttavia, è possibile incontrare ancora situazioni di questo genere, quando non si è dotati di moderne tecnologie, le raccolte sono un po’ più tardive e si opta per una malolattica spontanea che, quindi, spesso avviene in primavera.  

In conclusione, la scelta di una malolattica spontanea o indotta dipende da tanti fattori che il vignaiolo deve tenere in considerazione, secondo la sua esperienza, l’annata e le condizioni in cui si trova ad operare in cantina. 

Le condizioni per un corretto svolgimento della malolattica

L’enorme difficoltà dello sviluppo di una corretta malolattica risiede nelle condizioni ambientali di partenza in cui O. oeni deve svilupparsi. O. oeni è già presente nel mosto in partenza, ma resta quiescente durante la fermentazione alcolica, al termine di questa, con la morte di S. cerevisiae, trova spazio per moltiplicarsi. 

Ma le condizioni iniziali presentano un vino con importante contenuto di etanolo, pH relativamente bassi e poche sostanze nutritive. Come superare questi impedimenti? 

L’alcol è il primo fattore limitante, anche se O. oeni ha una buona resistenza all’etanolo. Sopra i 14 % vol. bisogna, però, prestare attenzione e selezionare un ceppo adeguato. 

Il pH è molto limitante quando è basso, a pH 3,2 (o inferiori) il rischio di non sviluppo è elevato. Da pH 3,3 e superiori diventa meno impattante. Nel caso di pH troppo bassi si può prendere in considerazione una disacidificazione, ma è sempre una pratica rischiosa che rischia di compromettere gli equilibri del vino e per questo andrebbe eseguita con grande cautela e una serie di accortezze. 

La temperatura è sicuramente il fattore su cui si può agire con più facilità: l’optimum per O. oeni è tra 18 e 22 °C.

I livelli di SO2  incidono moltissimo sullo sviluppo dei batteri, in quanto O. oeni è estremamente sensibile alla solforosa. Per questo è fortemente sconsigliato solfitare al termine della fermentazione alcolica, se subito dopo si vuole eseguire la fermentazione malolattica. 

Per vini in cui la malolattica non si innesca subito e vengono conservati in cantina per diverso tempo (e quindi è necessario solfitarli per preservarli dalle ossidazioni) il rischio di non riuscire più a far partire la malolattica in un secondo momento è molto elevato. 

Una moderata ossigenazione del vino, al fine di innescare la partenza della malolattica ,non è un fattore determinante, ma può sicuramente aiutare. 

In conclusione

La malolattica, dunque, un tempo classificata addirittura come fenomeno dannoso per il vino, è invece ormai definita come un passaggio fondamentale innanzitutto nella vinificazione in rosso ma anche per determinati vini bianchi e basi spumanti.

Per eseguire una vinificazione che miri a ottenere un prodotto di qualità, la conoscenza di questo processo è estremamente importante. Tanto quanto la conoscenza della fermentazione alcolica. 



Federico Duca

È nato ad Alzano Lombardo (BG) il 22 agosto 1995. Grande appassionato di gastronomia, nel 2016 ha frequentato il suo primo corso di degustazione con SV. Si è laureato in Viticoltura ed Enologia presso l’Università di Milano. Ha frequentato l’Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli. Nel mondo enologico ha collaborato con diverse aziende vitivinicole e oggi lavora in ambito commerciale. Dal 2017 è nella redazione della Guida Veronelli. Gli piace fare il vino con gli amici, in una piccola azienda in Valcalepio.