di Alberto Natale
Ben poco è rimasto al giorno d’oggi degli eroi di Carnevale, dei mostri, dei giganti e dei villani sapienti. Delle antiche “libertà di dicembre” – le licenziosità del mondo alla rovescia che dagli antichi riti agrari in onore di Saturno erano confluite durante il Medioevo nel carnevale – resta soltanto un vago accenno all’anarchia programmata (semel in anno licet insanire) e all’inversione sociale, che un tempo era sacralizzata, rivestendo un importantissimo ruolo di rigenerazione collettiva nel nome di Messer Carnevale, un vecchio demone agrario della fertilità.
Le maschere sopravvivono quasi soltanto in veste ludica, completamente dimentiche del ruolo di connettori profondi col mondo sotterraneo e con l’oltretomba, da cui scaturiva l’ordine rituale delle “larvae” dei defunti, reincarnate nelle facies e nei travestimenti degli “zanni”.
Per lunghi secoli il ribaltamento del mondo arrivava a insinuarsi perfino nelle roccaforti della religione cittadina, quando preti e canonici partecipavano a grottesche parodie extraliturgiche del mondo “alla roversa” in cui il papa romano veniva soppiantato da un irriverente papa fatuorum e le abbazie passavano sotto il controllo episcopale di un abbas stultorum. La “pazzia” carnevalesca si esprimeva complessivamente attraverso un’esplosiva inversione dell’ordine sociale, ritualizzata ma potente e pervasiva, che trovava una degna e appariscente rappresentazione nelle festum stultorum, festum fatuorum, festum baculi, festum asini.
Il significato archetipico, prima ancora che festivo, è testimoniato da analoghe manifestazioni rituali che venivano celebrate in altre parti del mondo:
In India, lontano serbatoio di miti e di favole che attraverso i mille occulti canali dell’informazione orale penetravano nei più remoti angoli dell’Occidente, ogni anno, al tempo della luna piena di marzo, le comunità dei villaggi rurali, nella grande festa primaverile dell’amore edella fecondità, eleggevano il re della festa (il Re dello HolI) che cavalcava all’indietro, non sopra un maestoso cavallo da parata, ma su di un umile asino di campagna. In quei giorni, l’uomo più ricco e potente del villaggio diveniva zimbello dei diseredati e dei paria, in un totale rovesciamento dell’ordine sociale che annullava in una frenetica, orgiastica sarabanda ogni distinzione fra le caste. Per purificarsi il mondo doveva contaminarsi; l’inversione dei ruoli, la confusione e la contaminazione degli stati sociali diveniva il simbolo della distruzione del vecchio, dell’espulsione del male e del rinnovamento purificatore e propiziatorio che ne derivava.[1]
Pur conservando in nuce la fondamentale caratteristica dell’inversione, il tempo di Carnevale perderà gradatamente il suo significato simbolico, insieme alla sua carica sovversiva e provocatoria, trasformandosi in rappresentazione parodistica, caricandosi di simboli grotteschi e caricaturali e perdendo soprattutto la caratteristica centrale dei vecchi Saturnali, ossia il ribaltamento sociale: ne è un buon esempio la trasformazione narrativa di una celebre composizione medievale, il Dialogus Salomonis et Marcolphi, che ha fornito la base al cantastorie bolognese Giulio Cesare Croce per plasmare il noto personaggio di Bertoldo.
Mentre nel dialogo medievale si assiste a una vera è propria detronizzazione del sovrano ad opera dell’astuto villano, nel Bertoldo il rozzo ma sagace uomo dei campi e delle selve finisce per diventare consigliere del re: le audacie e le “libertà” bertoldesche sono puramente carnevalesche, codificate e purificate pressoché da ogni traccia di un’ipotesi di rovesciamento di ruoli. Al contrario, l’autore del Bertoldo attribuisce al suo protagonista la consapevolezza del suo ruolo subalterno e il riconoscimento di appartenere addirittura ad una specie umana specificamente adattata per natura a un nutrimento basso e plebeo, e alla quale i cibi di corte e i “pasticci” non risultano assolutamente confacenti: tant’è vero che Bertoldo morirà proprio a causa di una dieta ipercalorica che non gli apparteneva (“morì tra aspri duoli / per non poter mangiar / rape e fagiuoli).
L’autentico spirito carnevalesco della prima età moderna emerge più tipicamente nel sequel che Croce dette al Bertoldo ed è incarnato dal figlio sciocco Bertoldino. La ‘provincia’ in cui nacque costui è la sconfinata contrada del folklore e dell’imagerie popolare, il fermentante calderone del grottesco, del mostruoso, dell’insolito, dell’iperbolico, la terra da cui nascevano miti, leggende, fiabe, allegorie smisurate; il suo mondo è quello di Cuccagna e di re Panigone, la contrada carnevalesca dei pazzi e delle maschere, dei nani e dei giganti, dei nasuti e dei ventruti, “l’universo corporale della pancia e dei visceri, del mangiare e del dormire, della soddisfazione dei bisogni primari”.[2]
Un territorio molto simile a quello di Berlinzone, l’opulenta terra dei Baschi, in cui ci si poteva permettere di legare «le vigne con le salsicce», in una contrada che si chiamava Bengodi, “eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni, e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi” (Boccaccio, Decameron, viii, 3).
Le contrade di Cuccagna evocate da Bruno e Buffalmacco, “uomini sollazzevoli molto“ quanto “avveduti e sagaci”, per irretire il ‘semplice’ Calandrino, erano da tempo immemorabile ben note al volgo, paesaggio onirico ma non meno familiare dell’universo rovesciato e rutilante dove trionfavano gli appetiti del corpo e delle viscere, ben delineati dal massimo rappresentante e reggitore del mondo “a capinculo” lo “squaquaratissimo, sloffeggiantissimo, ingordissimo, sfondatissimo diluviatore Signor Carnevale”, un tempo in cui si poteva, anzi era prescritto, lasciare libera la fantasia e l’illusione di “sbevazare papare sgolazare squaquarare trachanare ingultire lecare stragualzare surbire et gualcire robbe delicate bone et sbilisighente”.
Nell’immaginario dei ceti popolari il Carnevale rappresentava – se ancora di rovesciamento si trattava – la soddisfazione effimera di una fuga dal tempo presente dominato dalla sottoalimentazione (non a caso il primo pensiero di Calandrino, attivato da un pavloviano languore, è quello di informarsi sulla sorte dei capponi, una volta terminata la loro funzione di arricchire il brodo), un tempo sovvertitore di gerarchie sociali e destini quotidiani in cui il capovolgimento generale del gramo mondo quaresimale culminava in un’orgiastica aspirazione proteica, dove i capponi rappresentavano l’oggetto proibito del desiderio, mentre il formaggio con la sua realtà tangibile e plebea sembrava destinato a tenere insieme, come un cremoso collante, la celebrazione dell’eccesso con il mondo quotidiano, moltiplicando l’ambito del possibile alimentare con la smisurata disponibilità di un ingrediente universale e magico che prendeva il posto della terra sostituendone isole e montagne.
Nel paese di Cuccagna, “dove chi più dorme più guadagna” – e che dopo tutto sembra incarnare una permanente contrada carnevalesca – il formaggio è di norma l’elemento più rappresentato dell’iperbole alimentare: in una stampa popolare romana del xviii secolo, conservata presso la collezione Bertarelli a Milano, la tradizionale cornucopia del latte cagliato trovava ancora un’inesausta rappresentazione: al centro campeggia una “montagna grandissima di cascio grattato” sulla cui sommità una “caldara larga un miglio” bolle in continuazione, eruttando “macheroni et ravioli, quali razzolando per lo cascio cascano giù nel lago di butiro squagliato” per la delizia ed il sollazzo di chi “ne piglia e mangia suo piacere” insieme a fette di provole (“provature fresche”).
Altrove svetta una seconda montagna di “provature marzoline” circondata da un fiume di latte da cui affiorano “groppi” di ricotte, che del resto sembrano trovarsi in ogni dove, sparse nel paesaggio insieme alle vigne legate con salsicce e agli asini impastoiati con “salsiccioni”. Il parossismo caseario non si limita alla sfera alimentare, ma tracima dalla campagna alla città dove costituisce la parte preponderante del materiale edilizio impiegato negli edifici (nei palazzi “di cascio parmigiano son le mura et di ricotta le fanno imbiancare” mentre la “prigione per chi lavora” ha le spesse pareti di “cascio pecorino”).
Ma al Carnevale faceva seguito – inevitabile – la Quaresima: non è un caso che un genere letterario coevo e molto in voga che potrebbe essere definito “letteratura del patibolo” proponesse continuamente pagine edificanti di supplizi e condanne capitali per coloro che infrangevano la legge (che, come è facile intuire, provenivano di norma dagli strati inferiori della società) e che le esecuzioni pubbliche venissero spesso eseguite “in tempo di Carnevale” con tanto di sbirraglia “mascherata da Zanni”.
Se vi fossero ancora dubbi sull’assimilazione degli spettacoli di giustizia al mondo carnevalesco, in quella sua dimensione rimossa e macabra dove il riso diventava crudeltà, basterà ricordare alcuni episodi sintomatici[3]: il 6 febbraio 1599, in tempo di Carnevale, venne bruciato Guglielmo Marsigli ferrarese; ma l’omicida fu prima impiccato “in abito da Zanni”. Quasi un secolo più tardi, il 18 dicembre 1688, il bandito capitale Ermes Minelli delle Lagune, non essendo in grado di muoversi perché ferito, fu portato al patibolo su una sedia da tre uomini “mascherati da zagni” e tirato su con una girella”. La scena si ripeté ancora nel 1713, protagonista Giuseppe Franchi, oste di Castenaso, sempre in tempo di Carnevale.
Se il mondo di Carnevale sprigionava i suoi mostri umani, la giustizia terrena, con i suoi ‘santuari penali’, altro non rappresentava, in questa prospettiva, che la restaurazione quaresimale dell’ordine.
Tutte le immagini dell’articolo sono tratte da dipinti di Pieter Bruegel il Vecchio
NOTE
[1] Piero Camporesi, La maschera di Bertoldo, Torino, Einaudi, 1976, p. 8.
[2] Ibidem, p. 131.
[3] Le notizie che seguono sono tratte dal Libro de Giustiziati in Bologna, estratto dall’originale della Compagnia ed Arciconfraternita di Santa Maria della Morte, che comincia li 10 gennaro dell’anno 1540, Bologna, Biblioteca Universitaria, ms.2042.
ALBERTO NATALE
Alberto Natale si è laureato con Piero Camporesi e ha fatto poi parte del suo gruppo di ricerca, rivolgendo il suo interesse e i suoi studi alla letteratura di consumo nell’età moderna. Oggi è membro del Comitato scientifico del Centro Studi intitolato allo stesso Piero Camporesi presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna. Natale ha studiato i rapporti tra Giulio Cesare Croce e la letteratura di piazza, i temi del mostruoso in Tomaso Garzoni e gli usi propagandistici della paura nella letteratura di consumo del XVII e XVIII secolo. Seguendo la pista camporesiana dell’antropologia alimentare, si è occupato delle trasformazioni simboliche dell’immagine degli alimenti nella società e nella letteratura e delle narrazioni del cibo nel racconto cinematografico.