Tra formaggi, geografia e storia in Liguria
di Irene Foresti

La Liguria, terra marinara e di cucina ittica per definizione, è poco nota per la sua produzione casearia, peraltro di antica data.

Gli scavi archeologici condotti in alcune zone della regione, infatti, hanno portato alla luce cocci e frammenti di vasi cribrati, destinati ad attività di caseificazione, databili tra la fine del Neolitico e l’inizio dell’Età del Rame.

Fra le primissime fonti a parlare di formaggi liguri figurano Plinio e Marziale (I secolo d.C.) i quali citano, rispettivamente, il «cebano» dell’appennino e il «caseus etrusca signatus imagine Lunae praestabit pueris prandia mille tuis», verosimilmente il formaggio di Luni, comune in Lunigiana, tra Liguria e Toscana.

Non si trattava, né si tratta, di un comparto industrial-artigianale capace di generare fatturati paragonabili a quelli di altre regioni, ma spicca certamente per un prodotto del tutto particolare: la Prescinseua.

Il nome derivada «presù», che è il caglio in dialetto locale.

È un formaggio che, per caratteristiche sensoriali e modalità di caseificazione, appartiene alla famiglia degli stracchini, anche se rispetto a questi possiede una consistenza che va dal semisolido al granuloso, a seconda del metodo di lavorazione adottato.

La Prescinseua si preparava spesso in casa (come molti altri stracchini, del resto) lasciando che il latte cagliasse spontaneamente per acidificazione. Fino al XIV secolo si utilizzava per condire le lasagne, ma il suo abbinamento d’elezione è, da sempre, la famosa Focaccia di Recco, anche se ormai viene sovente sostituita dalla Crescenza, soprattutto lontano dai luoghi di origine.

Quello delle focacce è uno dei tanti scenari conviviali poco noti di una Liguria che molti pensano legata prevalentemente alla cucina del pesce o al celebre Pesto di basilico il quale, peraltro, non è l’unico pesto ligure… per esempio, è ben diffuso anche il «marò di fave», spalmato tradizionalmente sul pane raffermo.

Ma la terra delle riviere è anche terra di focacce.

Anzi, in passato erano proprio le focacce a permeare il vissuto alimentare dei suoi abitanti: si mangiavano in qualsiasi occasione, persino in chiesa durante i funerali e i matrimoni.

Era pratica diffusa ma non riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa tant’è che il vescovo Matteo Gambaro (XVI secolo) si vide costretto a intervenire bandendo la focaccia dai luoghi di culto.

La passione dei liguri per le focacce si può desumere anche solo da un elenco approssimativo di alcune delle loro declinazioni gastronomiche: la fugassa genovese, la figassetta, la focaccia dolce di Sarzana (SP), il fugasùn di Dolceacqua (IM), la «revzöra» di Campo Ligure (GE), il fazzino di Bormida (SV), la fràndura di patate della Valle Argentina, la pisciarada sempre di patate e la sardenaria anche nota in ambiente nizzardo, nella seconda metà del XV secolo, come pissalandrea, forse in onore di Andrea Doria. Condita con pomodoro, olive, acciughe (da cui il nome, si ricordi che in molte zone della Liguria acciughe e sardine sono denominate allo stesso modo), capperi, aglio e olio, è tipica della provincia di Imperia. E guai a chiamarla pizza!

Piuttosto, è interessante notare come questa focaccia potrebbe essere uno dei piatti che porta ancora con sé i retaggi dell’uso di salse affini al garum romano.

Una delle sue antenate, infatti, era detta machetusa poiché insaporita con il machetu, un condimento a base di pesce, sale e olio macerati al sole e rimescolati per diverso tempo, per poi essere accompagnati a innumerevoli vivande in luogo del sale o, come faremmo oggi, della pasta d’acciughe.

A proposito di pasta…. le trofie e i ravioli come le turle del Ponente (ripiene di patate e formaggio e condite con ragù di funghi) e i gattafin (farciti con verdure e fritti) sono ben noti, ma è poco conosciuta l’esistenza di altri formati, come quei pezzetti di pasta sottilissimi, di forma circolare o quadrangolare, fra cui figurano principalmente i testaroli lunigiani (appena sbollentati e conditi tradizionalmente con il pesto) e i corseti o croxetti che sono incisi uno ad uno con un timbro affinché l’incisione aiuti ad assorbire meglio il sugo, nonostante lo spessore ridotto.

Non bisogna poi dimenticare che la Liguria ha avuto un ruolo non indifferente nel mercato della pasta: Genova era uno dei porti che smerciavano questo prodotto già alla fine del XIII secolo: è del 1279 la notizia di una «barisella plena de macaronis», parte dell’eredità del nobile Ponzio Bastone.

La centralità della città dei Doria nel commercio della pasta si è sviluppata grazie alla sua particolare collocazione geografica, che la vede situata sulla costa ma con facile accesso alle così dette “vie marenche” (strutture viarie che collegavano l’entroterra ligure e piemontese con il mare, da cui appunto il loro nome).

È così che la pasta, giunta via nave principalmente da Venezia, dalla Sicilia e dalla Puglia, poteva essere trasportata nel cuore del nord Italia, al pari di quanto accadeva per la frutta e la verdura coltivate nella Valle del Bisagno.

Lo stesso destino era toccato, ben prima e in direzione contraria (ossia dalla Pianura Padana verso il porto di Genova), ai “cosciotti di maiale salati”(primigeni prosciutti) prodotti dai Galli transpadani.

La Liguria è infatti una regione geograficamente poliedrica: la sua forma arcuata la rende ricca anche di valli e valichi montani, soprattutto nella zona dell’Appennino: è in questi contesti che si è sviluppata la cultura pastorale che ha anche dato origine alla Prescinseua.

Non mancano gli insaccati: il salame di animelle e sangue di maiale (lessato o spalmato fresco spalmato sul pane), il berodo (sorta di sanguinaccio), la testa suina in cassetta ed il salame di S. Olcese o la Mostardella ottenuta da tagli bovini più coriacei, non idonei alla produzione del salame, mescolati con lardo suino.

Oggi sono cambiate molte cose, ma le evidenze storiche ed archeologiche ci restituiscono un’immagine della Liguria decisamente diversa da quella attuale, o quantomeno poco conosciuta.

I tempi cambiano le cose. In Liguria nel Paleolitico vivevano il cervo, lo stambecco, il camoscio, il capriolo, l’uro (estinto), il bisonte, l’ippopotamo, l’alce, il mammuth e il leone. Qui come in altre zone d’Italia, come ad esempio la Puglia e la Sardegna.

E come in altri territori dediti alla pastorizia, anche in Liguria si affittavano pascoli ed edifici a uso caseario e vigeva il calendario della transumanza: c’erano date precise che scandivano i momenti di transito da e verso gli alpeggi: si transumava per S. Bernardo il 15 giugno e si tornava il 29 settembre, giorno di S. Michele.

Anche lo sviluppo dell’allevamento e della pastorizia liguri o (più propriamente) l’addomesticamento degli animali è stato evidenziato dallo studio dei rinvenimenti archeologici di età preistorica, soprattutto a carico di ossa bovine, ovine e suine.

La loro collocazione all’interno di grotte ha accreditato l’ipotesi dell’impiego di questi luoghi come stalle. A partire dal Neolitico, poi, sono emersi dati importanti che indicano l’aumento delle dimensioni delle ossa stesse e il prolungarsi della curva di macellazione degli animali (soprattutto a carico delle pecore): tutto fa pensare a capi più vocati alla produzione di latte e formaggi che alla produzione di carne.

Accanto ai resti scheletrici, in riferimento alle medesime epoche preistoriche, gli scavi hanno consentito di recuperare numerose punte di frecce e pugnali, segno inequivocabile della necessità di difendere strenuamente mandrie e greggi dai frequenti furti di bestiame.

La pastorizia era, dunque, un’attività ben radicata per le prime popolazioni liguri, come dimostrano anche le incisioni rupestri (Età del Bronzo) presenti a quote elevate (fino a 2800 metri di altitudine) e la longevità di questo comparto produttivo.

La tribù dei Viturii era dedita in Valpolcevera all’allevamento e al baratto. Nell’epoca del Viturii Paolo Diacono, storico longobardo, parla del notevole numero di mandrie e greggi presenti nella regione, con l’importante contraltare di un’agricoltura molto guastata.

Per concludere, vale certamente la pena, dovendo necessariamente passare per l’entroterra per raggiungere la costa di Levante o di Ponente, fermarsi per assaporare qualche formaggio o piatto pastorale di una Liguria gastronomica non certo dimenticata, ma quasi sicuramente poco conosciuta.


Irene Foresti

Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Si è occupata professionalmente di grande distribuzione food, educazione alimentare, marketing e comunicazione. È Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva. Appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche e ha pubblicato Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020). La sua ultima pubblicazione è Casoncelli. Storia e identità della pasta ripiena più amata da bergamaschi e bresciani  (Centro Studi Valle Imagna, 2021).