di Alberto Natale

Il libro di Paolo Tegoni è un portolano enoico in cui si trova un bere e un mangiare geografico e storico, un percorso a ritroso nel tempo, un modo per riconnettere il passato con il presente, oggi sempre meno consapevole delle sue radici

Nel suo taccuino di viaggio sensoriale sulle vie mediterranee delle Malvasie Paolo Tegoni registra una vasta tramatura di impressioni odorose, gustative e tattili, sullo sfondo di scorci ambientali e geografici, attraversati dai suoni del vento, del mare e dalle voci degli uomini e degli animali che percorrono le vigne e i loro contorni.

I colori e la percezione palpabile della terra ne rivelano le variazioni geologiche e la specifica mineralità del suolo; i territori attraversati sulle orme di vitigni antichi – anzi, ancestrali – cessano di ridefinirsi nei termini puramente psichici del “paesaggio”, nozione di moderna percezione, oggi così abusata da risultare stucchevole.

Come ebbe a dire Piero Camporesi,[1] la nascita del concetto di paesaggio – oltre ad essere alquanto moderno – rappresenta anche un’invenzione incomprensibile nell’immaginario dei secoli passati, un’astrazione fondamentalmente calata a forza nel mondo reale e non scevra di distorsione e inganno. Una pura immagine mentale, buona per essere piegata e dispiegata in un mondo fantasticato, sempre più lontano da quello reale.

Nel diario di viaggio di Paolo Tegoni, il paesaggio torna invece a presentarsi come territorio, foggiato dagli elementi naturali e dalla mano umana, e gli spazi vitati si inseriscono a pieno titolo nella dimensione multidimensionale del terroir: Uno spazio composito percepibile solo per via cenestetica, nel quale anche la mente diviene organo di senso, come ragionevolmente sostiene il pensiero buddhista.

Un diario che è, inevitabilmente, un portolano che ripropone le principali vie di comunicazione del Mare nostrum, attraverso le quali le Malvasie hanno trasferito le proprie impronte aromatiche e gustative nei territori italiani (Venezia – il porto di arrivo della Malvasia d’Oriente -, Parma, Chianti, Sardegna, Eolie) e nei confinanti distretti adriatici sloveni e croati, approdando infine nel Peloponneso, a Monemvasia, dove in realtà il viaggio è storicamente iniziato.

La storia dei vini ossidativi, vinificati sotto la “flor“, socchiusi a respirare nelle botti scolme i vapori soffiati dal genus loci del territorio, non può certo essere riassunta in un solo viaggio e l’autore ci promette prossime ricognizioni per andare più a fondo nei misteri del “ribollir de’ tini” che diffonde per il borgo il sentore vinoso della fermentazione, ancora sorvegliata dai tanti folletti del passato, genia tutelare dei mosti: i buffardelli, i linchetti, i mazapegul, i monacielli, i sa surtore.

Perché frequentare le mappe dei vigneti messi a dimora è, per forza di cose, un viaggio non soltanto geografico, ma anche un percorso a ritroso nel tempo, un modo per riconnettere il passato con un presente, oggi sempre meno consapevole delle sue radici.

Un bere e un mangiare geografico, ma anche storico per “riconoscere il portato di natura e cultura” – sottolinea l’autore – che trova piena identità nella “triade virtuosa” di uomo, ambiente e prodotto finito, rappresentata dalla definizione evocativa di terroir.

Il soffermarsi nelle vigne e nelle cantine dei percorsi delle Malvasie non avrebbe senso, naturalmente, se non si intrattenesse un intenso dialogo con gli attori principali della vinificazione, gli uomini e le donne che contribuiscono con il loro sapere e la loro passione alla magica trasformazione delle bacche della vite in quel “composto di umore e di luce” di galileiana memoria per trasformarlo in un “esquisito nettare”, giusto compendio della chimica del suolo e della fisica dell’irraggiamento solare.

La galleria di ritratti di questi personaggi, pur nella loro eclettica diversità, pone al centro l’identità comune dell’artigianato scientifico del vinificatore, in cui – oltre all’immancabile passione, alla fantasia competente e allo spirito imprenditoriale – emerge su tutto il ruolo fondamentale della ‘memoria’ e della continuità di sapere generazionale che identifica come un marchio a fuoco il produttore di vini di qualità.

L’esplorazione di Tegoni vale a ricordare, in particolar modo, quanto sia riduttiva l’immagine prevalente del vino, confinata – a seconda delle situazioni – nella celebrazione spesso manierata (si dovrebbe trovare un termine migliore di ‘degustazione’) o nella dimensione ludica dello svagato consumo ricreativo: significativo, a tale proposito, è il richiamo alle parole del bottigliere di papa Paolo III Farnese (pontificato 1534-1549) Sante Lancerio che, oltre a ricordarci quanto le Malvasie fossero ben accette in Vaticano, ci fa notare che il suo consumo non fosse certo circoscritto al solo ambito del gusto.

“La Malvagia buona viene a Roma da Candia, di Schiavonia ne viene la dolce, tonda et garba. Se si vuole conoscere la meglio bisogna che non sia fumosa né matrosa, ma che sia di colore dorato, perché, se altrimenti fosse, sarebbe grassa, et il beverla continuo farebbe alterare il fegato. De le tre sorti usava Sua Santità, la dolce alle gran tramontane a fare un poco di zuppa, la tonda per nodrimento del corpo beveva, et della garba usava gargarizzarsi per rosicare la flemma et collera. Imperò rare volte et mattine era, che S.B. non usasse per uno delli tre effetti.”

Come si può notare, del gusto si accenna solo tra le righe, mentre l’accento viene posto sulle tre funzioni fondamentali del riscaldare, del nutrire e del curare. Stiamo parlando quindi, come avrebbe soggiunto Camporesi, del governo del corpo, di quella sfera estesa dei sensi che ricomprende l’intero complesso delle facoltà vitali.

Giova ricordare che Sante Lancerio fu anche – e verrebbe da dire: ovviamente – anche storico e geografo, poiché del vino nulla si può dire se non si sa da dove proviene e da quando ha iniziato ad essere concepito e spillato.

NOTE

[1]     Piero Camporesi, Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Milano,Il Saggiatore, 2016 (prima edizione Garzanti, 1992.

Paolo Tegoni 
Malvasia: un diario mediterraneo
Parma, Terrae, 2022


ALBERTO NATALE

Alberto Natale si è laureato con Piero Camporesi e ha fatto poi parte del suo gruppo di ricerca, rivolgendo il suo interesse e i suoi studi alla letteratura di consumo nell’età moderna. Oggi è membro del Comitato scientifico del Centro Studi intitolato allo stesso Piero Camporesi presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna. Natale ha studiato i rapporti tra Giulio Cesare Croce e la letteratura di piazza, i temi del mostruoso in Tomaso Garzoni e gli usi propagandistici della paura nella letteratura di consumo del XVII e XVIII secolo. Seguendo la pista camporesiana dell’antropologia alimentare, si è occupato delle trasformazioni simboliche dell’immagine degli alimenti nella società e nella letteratura e delle narrazioni del cibo nel racconto cinematografico.