I retroscena conviviali del formaggio, visti da Irene Foresti

Il Manteca è un formaggio pugliese non stagionato, nato dalla necessità di conservare il burro ai tempi in cui i frigoriferi erano ancora un miraggio, soprattutto in un territorio in cui, a differenza delle zone settentrionali della Penisola, le alte temperature atmosferiche erano insidiose e implacabili per diversi mesi all’anno.

Il burro, si sa, irrancidisce facilmente in contatto con l’aria e a temperature superiori a quelle di refrigerazione, ma i casari del nostro Mezzogiorno hanno escogitato un metodo per evitare il più possibile l’instaurarsi di queste condizioni: avvolgerne i piccoli panetti in uno strato di pasta filata (quella della mozzarella o della scamorza, per intenderci) che sostanzialmente fungeva da camicia di raffreddamento o scambiatore di calore e da involucro «sottovuoto».

Il nome stesso di questo formaggio richiama il burro (manteca in spagnolo) e ancor prima la presenza di una bisaccia o più in generale un contenitore simile a un otre (in latino mantica).

È un prodotto poco noto, parente stretto della ben più conosciuta Burrata, ma la Puglia è una regione che, oltre alla vasta compagine casearia, presenta una variegata offerta gastronomica, con alcuni elementi di rilievo che spesso sfuggono ai riflettori nazionali.

Il territorio iapigio è notoriamente associato alla cucina di mare ma vanta un’importante tradizione legata all’allevamento e alla cucina della carne, che gli ha valso il nome di portabandiera della macelleria equina italiana.

Non c’è di che stupirsi se pensiamo che già in epoca preistorica, proprio in Puglia, i primi uomini sopravvivevano cacciando cavallo selvatico, stambecco, cervo, uro (un bovino estinto) e camoscio. Questi animali, a differenza di oggi, venivano consumati interamente, compresi midollo, cervello, lingua ecc.

L’evoluzione e i cambiamenti climatici hanno fatto il loro corso e l’ecosistema è completamente diverso rispetto a millenni fa. Ma il consumo della carne è rimasto nella tradizione di questi luoghi e sopravvive soprattutto nelle masserie e nelle macellerie con cucina, meglio note come fornelli (u furnidd).

Si tratta di negozi storici, per lo più di quartiere, testimoni dell’antica abitudine di alcuni macellai di tenere presso i propri locali anche un piccolo forno a legna dove cucinare le carni su spiedi o bracieri la sera, dopo aver chiuso l’attività commerciale.

Ovviamente non sono dei veri e propri ristoranti, anzi: il servizio è paragonabile a quello dei vari chioschi o locali che servono il così detto street food: i clienti scelgono la carne al bancone e, quando è pronta, la consumano in piedi o su appoggi improvvisati.


Tuttavia, è proprio in questi locali che è più facile assaggiare le specialità carnee della zona, non così facilmente reperibili nella ristorazione tradizionale, a eccezione di qualche masseria affezionata al cibo del buon ricordo.

La peculiarità dei fornelli sta proprio nella cottura della carne a fuoco indiretto, senza che sia mai grigliata, diversamente da come accade nei barbecue festivi, diventati ormai un’abitudine un po’ in tutta Italia.

Pare che sia stata proprio la connotazione festiva del consumo conviviale di carne a dare origine a questi locali nati, secondo la cultura popolare, per cuocere e condividere il cibo durante le feste religiose o profane che fossero.

Più verosimilmente, i fornelli si inseriscono nel vasto novero italiano dei negozi che esercitavano, allo stesso tempo, attività di vendita e di ristorazione, quando la normativa lo consentiva ancora.

Anche oggi molti ristoranti permettono ai clienti di scegliere la carne o il pesce crudi prima di cucinarli, ma l’esperienza in un furnidd è unica e singolare.

Cosa vi si può mangiare?

Accanto a vari tipi di salsicce singolari come la zampina (impasto a base di carni bovine ed ovine, pomodoro, formaggio, basilico e peperoncino) e la cervellata (carni suine e bovine, pecorino ed aromi), trovano posto numerosi spiedini e/o involtini spedati.

Fra i più noti ci sono le bombette (capocollo arrotolato con formaggio pecorino, ma ogni famiglia ha la propria ricetta, come sempre), piccole quanto basta da poter essere mangiate in un paio di bocconate.

Nei fornelli si possono assaggiare piatti i cui nomi lasciano presagire di tutto: gnummerieddi, cazzomarri, muscisca e cingomme.

Il cazzomarro (o marro) è un voluminoso rotolo di frattaglie ovicaprine, avvolto e legato con le membrane intestinali degli stessi animali, cotto alla brace o allo spiedo. Questo piatto deve il proprio nome alle attività necessarie per la sua preparazione: schiacciare (cazzare) qualcosa di voluminoso e granuloso (marra, dal latino) in un involucro sufficientemente costrittivo affinché l’impasto possa cuocere senza sfaldarsi


Suoi parenti più piccoli (grandi non più di un mignolo) sono gli gnummerieddi o turcineddi, anch’essi debitori del proprio nome alla caratteristica di essere dei globetti attorcigliati e torti, compressi prima della cottura.

Il fatto che entrambi siano a base di frattaglie (o quantomeno del quinto quarto) è presto spiegato se si pensa che al Sud, fino a un passato piuttosto recente, i contratti di mezzadria prevedevano che ai baroni (gli ultimi feudatari) fossero destinati i tagli di carne migliori, mentre ai contadini rimaneva il resto.

Il quinto quarto non è così facile da cucinare e da rendere appetibile come la carne. Trippa, rognone, cuore, polmoni, fegato, milza, animelle, intestino, mammelle… hanno sapori e consistenze piuttosto forti, anche per coloro che un tempo, pur adattandosi a mangiare un po’ di tutto, erano privi di mezzi ed ingredienti per valorizzarli e avevano poco tempo per cucinarli.

La soluzione per alleggerirne l’afrore e ingentilirne il sapore, dunque, potrebbe essere stata proprio quella di prepararli in involto (grande o piccolo che fosse) con l’aggiunta di pecorino e vari altri ingredienti piuttosto saporiti (peperoncino e aromi), per poi cuocerli.

Chiudono il novero dei piatti dei fornelli la muscisca e le cingomme. La prima è una preparazione di carne (ovina, caprina o bovina) essiccata e poi cotta alla brace, mentre le seconde (a dispetto del loro nome, evocante le gomme da masticare) non sono altro che piccolissimi e gustosi spiedini.

La Puglia, infine, come molte regioni del sud Italia, non può non essere ricordata come una delle patrie d’elezione della pasta. Non è certo un caso se la potente Venezia se ne approvvigionava proprio qui per poi esportarla presso i porti commerciali e che il mattarello, nel dialetto locale, è detto laganaturo (in epoca romana, la lagana era il grande foglio di pasta dal quale venivano ritagliati i vari formati, corti o lunghi).

La pasta con le cime di rapa è piuttosto nota, ma pochi conoscono piatti come ciceri e tria (un mix di pasta fritta e bollita, mescolata poi con i ceci) o formati particolari come le sagne ‘ncannulate.

Cos’altro si mangia in Puglia?

Ci vorrebbe un’enciclopedia per descriverlo ma, giusto per farvi venire l’acquolina in bocca, accanto ai ben conosciuti taralli, puccia (soprattutto con il polpo, che un tempo era essiccato al sole ed esportato in tutti i porti dell’Adriatico), frise, pasticciotto, pettole, cartellate e fav e fogghie (purè di fave e cicoria).

E poi i purceddhi (gnocchetti dolci consumati a Natale e in occasione della festa di S. Antonio abate, simili agli struffoli napoletani ma a base di olio extravergine d’oliva, vino bianco e senza uova), alla minestra di lumache (le famose monacelle, retaggio della tradizione culinaria romana, che vantava numerosi siti in cui questi molluschi venivano allevati e ingrassati con vino cotto e farina per farne gustosi manicaretti), alle scarcelle (rotonde trecce di pasta pasquali decorate da un uovo sodo intero o più uova, in numero sempre dispari), ai pizzi leccesi (cibo di strada salentino a base di grano duro, pomodoro, cipolle e olive), alla pitta di patate (pizza rustica condita con cipolle, olive e capperi), alla acquasale o cialledda (variante della panzanella toscana) e alle numerose ricette a base di cozze (da quelle alla tarantina in zuppa, a quelle arraganate (ripiene) alla tiella riso patate e cozze, buone rigorosamente solo nei mesi che non hanno la lettera R nel proprio nome).

Ovviamente, non si può terminare un buon pasto di cucina pugliese senza un sorso di caffè leccese, nato nel secolo scorso in uno dei pochi bar della regione che aveva a disposizione del ghiaccio picconato e che ebbe l’idea di unirlo al caffè e al latte di mandorla (frutto molto diffuso in zona) per farne una gradevole bevanda estiva.


Irene Foresti

Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Si è occupata professionalmente di grande distribuzione food, educazione alimentare, marketing e comunicazione. È Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva. Appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche e ha pubblicato Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020). La sua ultima pubblicazione è Casoncelli. Storia e identità della pasta ripiena più amata da bergamaschi e bresciani  (Centro Studi Valle Imagna, 2021).