Paesaggi in bottiglia

di Ilaria Bussoni

Il vino è un paesaggio in bottiglia. Questa, se la parafrasi, è l’affermazione che non smette di precisare Simonetta Lorigliola, anche nel suo ultimo libro: Eolie enoiche. Racconti di vini, di isole, di vignaioli sensibili alla terra.

Qui, nell’arcipelago di queste isole, dire paesaggio sarebbe anche facile: speroni di rocce laviche nella densità di un blu marino che fa eccezione anche al cianografo di Von Humboldt; canne e panaci a delimitare sentieri dove il calore della sabbia solleva l’odore del fico e del finocchio; lecci e opunzie, tra ulivi e piante di agrumi, tra palme e buganvillee, ciascuna con la propria espressività di vita vegetale adattata dal sale, dal vento, dal vulcano e dalla migrazione.

E poi terrazzi e muretti a secco che hanno ospitato colture, cubetti imbiancati di calce sostenuti dalla montagna e bisuoli di maioliche a ridosso dell’ombra del giardino.

E nel mezzo, ovunque perché per sua natura sta sempre nel mezzo, il cappero, talvolta allacciato alle propaggini delle viti inselvatichite che ora fanno da siepi o da tappeto per i rovi.

L’immagine ci ha aiutato a coglierlo questo paesaggio.

Prima con quella tradizione pittorica che corre parallela al Grand Tour e che espone il catalogo di una formazione sensibile imprescindibile per le classi oziose di Sette e Ottocento.

Poi con quel naturalismo geologico, vulcanico, mineralogico, botanico, esplorativo che fa del disegno della natura una premessa conoscitiva delle scienze della vita.

E, infine, con il ricordo-promessa di una vacanza indimenticabile che, attraverso la cartolina, fa del paesaggio un oggetto ideale immutevole nella sua eternamente godibile fissità e dunque per questo da difendere e preservare, meglio se nell’estetica di un confetto a portata di mano.

Ma se mettiamo da parte la comune illusione di sapere cosa sia, il paesaggio pone, invece, un’altra questione: quella della mutevolezza delle forme dell’esistente nel divenire dell’espressività del vivente, ivi inclusa quella umana con le sue pratiche, le sue tecniche, i suoi modi di generare e abitare dei mondi.

Il paesaggio è sì quel luogo in cui l’umano fa della natura un oggetto di relazione del quale poter godere, ma è anche quel luogo in cui l’umano non può fare a meno di una relazione con la natura.

Il paesaggio è sempre antropico, non solo perché non c’è paesaggio senza punto di osservazione, non c’è paesaggio senza un godimento sensibile della relazione tra noi e tutto il resto, ma anche perché il paesaggio è quel luogo in cui l’umano si pone il problema della costruzione di una natura e dei confini che questa dovrà avere.

Il paesaggio è, dunque, quel luogo in cui scintilla quell’artificio che chiamiamo natura.

E certo la natura non sarà la stessa se al turista vacanziero sbarcato in ciabatte offriamo uno spritz o un Occhio di terra di Nino Caravaglio.

Non è affatto questione di gusto o di qualità, ma di sapere quale parte si sta interpretando nel gioco del mondo e della costruzione di paesaggio.

Quella del capannone industriale e dell’agricoltura chimica intensiva o quella della viticoltura artigiana che si destreggia tra biodiversità e singolarità del terroir?

Non è questione di etica o di benevolenza per i prodotti locali, ma di sapere che il paesaggio è un complesso di alleanze tra agenti indipendenti dall’umano eppure con questo in relazione (come il clima, le variabili atmosferiche, gli insetti o le malattie) e le pratiche varie e numerosissime dell’umano che per vocazione dovrebbero ripetere e rigenerare di continuo quel rito di reverenza nei confronti della singolarità di un equilibrio vivente.

Il paesaggio è quel luogo in cui all’umano spetta di capire quale dio venerare. E il genius loci, divinità variante nella ripetizione delle sue mutevoli geografie, è sempre e solo singolare.

Fa bene dunque Simonetta Lorigliola a cercare col suo lavoro e con la sua scrittura, a scovare dove stiano queste alleanze per il vivente tra le pratiche umane dell’agricoltura e della vinificazione.

E fa bene a interpellare l’unico sapere davvero in grado di discernere se tali pratiche siano all’altezza del dio del terroir: il gusto.

La conoscenza estetica, la conoscenza che si ricava da un’esperienza estetica, è infatti un viatico privilegiato per cogliere quel dato immateriale, quel punto di equilibrio tra gli agenti che fanno l’esistenza di un paesaggio.

Proprio il gusto, il giudizio estetico che ricava un piacere dall’intimità con una cosa, è quella facoltà in grado di percepire se esiste un genius loci.

Mettere in bottiglia un paesaggio significa allora cogliere con l’allevamento di vegetali e con il sapere tecnico della vinificazione l’istantanea di una tensione tra agenti della vita in continua trasformazione.

C’è chi sa farlo e chi no. C’è un paesaggio dove è possibile farlo, e ci sono luoghi dove un paesaggio non è più possibile.  

Alle Isole Eolie è possibile non perché il luogo sia più preservato dall’inquinamento dell’agricoltura chimica e intensiva, perché il paesaggio sia incontaminato o perché l’arcipelago sia rimasto momentaneamente al riparo dalla corruzione del turismo di massa, ma perché alcuni vignaioli – uno più di altri – con la loro pratica, e con il loro vino, dimostrano che è possibile ricreare le condizioni di una produzione agricola, dunque di una prassi e di una tecnica umana, capace di generare in permanenza un paesaggio.

Eolie enoiche è dunque sì un viaggio tra le vinificazioni resistenti delle Isole Eolie, lungo il filo della narrazione privilegiata del vignaiolo Nino Caravaglio che ha trovato un suo modo per tradurre la variante singolarità del genius loci di isole-vulcano.

Ma è anche un libro che ribadisce continuamente che l’esperienza di gusto è il contatto diretto con la singolarità di un luogo, quando c’è. Imparare a riconoscere la genialità di una bottiglia è allora l’altra parafrasi del libro di Simonetta Lorigliola: anche sfregandola, da nessuna bottiglia di “vino industriale” mai uscirà alcun genio.

Fotografie di L. Monasta


Ilaria Bussoni

Filosofa di formazione, ha studiato e vissuto in Francia. E tra i fondatori della casa editrice DeriveApprodi, per la quale oggi co-dirige la collana di cultura materiale habitus. È fondatrice con Nicola Martino del magazine online OperaViva, per il quale scrive di estetica, arte e cinema.