di Marco Magnoli

Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un paio di articoli su “La Lettura”, l’inserto culturale de “Il Corriere della Sera”, che mi hanno ispirato alcune riflessioni, mi auguro non eccessivamente futili.

Il primo articolo riportava uno scambio di opinioni tra due scrittori, Alessandro Baricco e lo statunitense Dave Eggers, che si interrogavano sull’impatto che ha oggi e che ancor più avrà nel futuro la cosiddetta “rivoluzione digitale”.

Tra diverse considerazioni, un passaggio verteva sul “Metaverso”, il progetto di Mark Zuckerberg di abbandonare il mondo reale per dare vita ad un universo virtuale parallelo più o meno collegato con quello oggettivo e alimentato dalle reti globali di comunicazione.

Allora mi è venuto da pensare che non è facile inserire in una realtà simile il mondo del vino, perché al di là della circostanza scontata che il piacere del vino proviene da un atto fisico concreto, ossia dal berlo, vi è il fatto più sottile e costitutivo che, se il vino, almeno nelle sue espressioni più alte, possiede un valore oltre che edonistico anche e soprattutto culturale, è perché esso trae le sue caratteristiche, ma ancor più il suo stesso significato, dal legame profondo e dallo scambio costante con un territorio preciso; l’essenza del vino scaturisce dal contatto fisico con un territorio, con le sue specificità ambientali, pedoclimatiche e antropiche che sono poi le premesse di un sistema di valori, di un sistema culturale, di una tradizione.

Ho letto, poi, un secondo articolo nel quale Olivier Roy, studioso francese di scienze politiche e di sistemi sociali, sosteneva come nel mondo contemporaneo si stia assistendo ad un sempre più diffuso «appiattimento culturale», conseguenza, tra l’altro, dell’assottigliarsi del legame sociale con i territori nei quali viviamo. Una globalizzazione, o meglio, una deterritorializzazione che starebbe facendo venir meno i presupposti sui quali da sempre si sono formate le culture e le identità, valori indispensabili per permettere all’uomo di vivere la sua esistenza in modo pieno e completo; una tesi che, per altro, riecheggia in qualche modo le convinzioni di Martin Heidegger sulla fondamentale valenza dell’Heimat.

Ebbene, di fronte a questo scenario piuttosto pessimistico tratteggiato da Roy, che pure è suggestivo e racchiude indubbiamente degli elementi di verità, forse un po’ banalmente ho pensato che il mondo del vino, nel suo piccolo, potrebbe in realtà offrirci un quadro diverso, proprio perché il vino si alimenta e vive del legame diretto con il suo territorio.

Un legame che incide o comunque dovrebbe incidere sul modo di operare, in primo luogo, di chi il vino lo produce; e, in effetti, mi pare che ormai molti vignaioli, spesso i più giovani, mostrino in questo senso segnali di una consapevolezza più solida.

Dice bene Andrea Bonini, nell’Introduzione alla Guida Oro I Vini di Veronelli 2023, quando scrive che «La qualità delle relazioni – interne all’azienda, con la filiera, il territorio, l’ambiente – si appresta a diventare un requisito indispensabile per i vini di pregio».

A tal proposito, credo che la valorizzazione del territorio e la sostenibilità ambientale, a differenza di quanto sovente è avvenuto in passato, debbano essere intese sempre meno come un valore aggiunto da spendere, per così dire, “commercialmente”, come una sorta di richiamo per consumatori e turisti, e sempre più come un elemento di preservazione dei valori culturali del territorio, come un arricchimento per il territorio stesso e per chi lo vive e vi opera; in definitiva, come una fonte di identità.

In questo senso, dopo almeno cinquant’anni di “appropriazione” tecnologica del territorio, è ora indispensabile – e in molti lo hanno o lo stanno capendo – impegnarsi sempre più ad “adattare” la tecnologia al territorio in modo corretto, utilizzandola come strumento per valorizzarne le caratteristiche e le peculiarità (un distinguo – consentitemi la chiosa – che forse non sarebbe dispiaciuto a Heidegger).

Solo per fare due rapidi esempi – ma molti altri se ne potrebbero fare – pensiamo al ruolo dell’enologia varietale, o alle zonazioni rivolte ad accertare e confermare scientificamente la reale vocazione di un territorio, spesso suggerendo l’opportunità di legare pochi vitigni ad aree ben definite e circoscritte, il che oggi in alcuni comprensori si rispecchia nella volontà sempre più sentita di definire e delimitare singoli cru, singole vigne capaci di contraddistinguersi nel dar prova dell’assoluta eccellenza del valore di un terroir; un’esigenza, quella di legittimare e di dare un nome ai cru, che ci piacerebbe divenisse finalmente pervasiva in tutte le aree vitivinicole del nostro Paese.

Ritengo, più in generale, che la chiave stia nel fare “sinergia” di territorio, nel portare la coscienza del territorio a livello di sistema, creando reti di cooperazione tra le aziende vitivinicole, ma immaginando anche una visione più vasta, che preveda sinergie e collaborazioni tra realtà operanti in settori diversi per definire un concetto di territorialità il più possibile esaustivo, che chiami in causa l’ambito agricolo, gastronomico, artigianale, artistico, culturale, turistico fino ad arrivare di riflesso a stimolare e coinvolgere attivamente persino i consumatori.

E questo, lo ripeto, in primo luogo ad uso – per così dire – “interno”, cioè a vantaggio del territorio stesso nella definizione del suo sentire identitario.

Non mancano in diverse aree esempi in tal senso, così come non mancano vignaioli che hanno ormai ben compreso come le novità, le innovazioni non siano uno strumento che di per sé dà lustro ad un comparto, ad un comprensorio, al limite ad una singola azienda, bensì uno strumento attraverso il quale esaltare gli elementi di qualità intrinseci in un territorio, determinandone l’unicità.

Non mancano, tuttavia, nemmeno esempi che vanno in senso opposto laddove, nel nome e alla ricerca di una presunta e originale peculiarità, si percorrono strade e si adottano approcci viticoli ed enologici un po’ astrusi quando non persino del tutto fuori contesto che, anziché valorizzare le specificità, rischiano di apportare elementi di banalità o standardizzazione, per altro risolvendosi talvolta in prodotti, in vini qualitativamente mediocri e francamente poco piacevoli.

Si potrebbe, per esempio, discutere della ormai sfrenata diffusione della spumantizzazione in ogni parte d’Italia, in ogni contesto pedoclimatico e pressoché con ogni vitigno; o, ancora, del proliferare degli Orange Wine, tipologia del tutto peculiare e non a caso nata all’origine, o meglio ripresa, in contesti molto particolari e con vitigni altrettanto particolari; oppure di quello che definirei lo “spontaneismo” enologico, una filosofia che conosciamo ormai da molti anni, ma che spesso continua ancora a mostrare pericolosi estremismi.

Non voglio, però, dilungarmi su questi temi e nemmeno aprire polemiche.

Quest’anno le proposte di Sole che ho portato all’attenzione della redazione della Guida Oro – e che subito sono state accolte – riguardavano segnatamente vignaioli i quali, oltre a produrre ottimi vini, mi sono sembrati sinceramente sensibili al recupero e all’esaltazione della cultura del territorio, della capacità del territorio di creare valori culturali innanzitutto per se stesso, valori condivisi in primis dalle stesse comunità che lo vivono.

Mi pare, del resto, un atteggiamento del tutto naturale per una Guida che porta il nome di Veronelli, perché Luigi Veronelli sosteneva appunto che i territori e, più nello specifico, la terra e il lavoro sulla terra, prima ancora che fonte di valori materiali e economici, siano fonte di valori morali, sociali e culturali, poiché contribuiscono in maniera primaria a creare quelle allusioni e quei linguaggi implicitamente condivisi dai quali scaturisce l’originale identità di una comunità.

L’auspicio, dunque, è quello che sempre più vignaioli, e soprattutto i più giovani, prendano piena consapevolezza del valore, in fondo, etico del loro lavoro e del loro operare in seno a una comunità territoriale; una speranza che, personalmente, mi fa guardare al futuro con un pizzico di ottimismo in più.


MARCO MAGNOLI

Deve alla tradizione familiare la passione per i vini di qualità e a Luigi Veronelli, incontrato nel 2001, l’incoraggiamento ad occuparsi di critica enologica. Dal 2003 è collaboratore del Seminario Permanente Luigi Veronelli. È tra i curatori della Guida Oro I Vini di Veronelli.