di Rachel Roddy

Quest’anno l’albero di Natale in piazza Venezia, a Roma, è alto 23 metri e decorato con 800 palline brillanti e trecentomila luci. L’ho visto mentre tornavo a casa dopo una cena l’altra sera.

La coppia di anziani seduta di fronte a me sull’autobus, non ne era impressionata: si dicevano l’un l’altro di come fosse troppo alto e troppo smilzo. Invece due giovani donne, proprio dietro a me, gridavano di gioia mentre l’autobus numero 170 sfrecciava superando il gigantesco abete, illuminando i loro volti e una delle notti più lunghe dell’anno.

Oltre alle fiamme e alle luci, è un’antica abitudine disporre rami verdi per il solstizio d’inverno.

Per gli egizi erano giunchi di palma verdi; per i Celti agrifoglio e vischio, mentre i Romani decoravano ampi rami di abete rosso e bianco per i giorni migliori, i Saturnali.

Per tutti e tre, il sempreverde simboleggiava la resistenza; un promemoria che la vita non solo trova una via, ma prospera nell’oscurità. E la speranza; che quel nuovo giorno pieno di sole sarebbe arrivato e la terra sarebbe stata di nuovo verde e feconda.

Tornata a casa, mentre il resto della famiglia grugniva un saluto, sono stata accolta dal nostro albero di un metro e novanta centimetri, nell’angolo della cucina.

Resinoso, legnoso, dolce; l’odore di un vero albero di Natale in una casa calda è per me una droga.

E una seduta olfattiva, una vita di alberi di Natale e tutti i ricordi felici e difficili che li accompagnano, evocati da una sola sniffata. Un secolo fa, il chimico svizzero Roman Kaiser, colpito dal profumo attraversando un bosco di conifere in Liguria in una giornata calda, analizzò un campione di resina di pino calda. Scoprì, incredibilmente, che conteneva ben 15 composti chimici volatili pregiati: un vero fenomeno olfattivo.

Non è certo una foresta ligure baciata dal sole, ma il nostro albero riscaldato dalla piccola cucina deve possedere alcuni di quei 15 composti, il che spiega parte del suo potere stupefacente su di me.

Ovviamente questo nostro albero ha le luci, 36, e una ventina di decorazioni raccolte negli anni, alcune acquistate, altre fatte in casa, tutte giocose.

Decorare l’albero con mio figlio di 10 anni, ascoltando Frank Sinatra e Mina e sorseggiando un buon vino, è uno dei momenti festivi che prediligo.

Appendere insieme sui rami la collezione di palline, gingilli e peluche acquistata tra Londra, Gela e Roma, le nostre tre città di nascita. Scoprire che un set di luci non funziona più o che una delle decorazioni predilette si è frantumata mentre era riposta.

Le nostre tradizioni gastronomiche natalizie rispecchiano molto la storia delle decorazioni: cose mangerecce provenienti da tre luoghi, disposti in modo diverso ogni anno. Il che può sembrare un po’ una negoziazione, o forse un “atto di bilanciamento” è una descrizione migliore, nel tentativo di onorarle.

Tutto inizia a metà dicembre, quando compro gli ingredienti per il ripieno di un pie inglese vecchio stile chiamato mincemeat, e che una volta conteneva carne, ma oggi è semplicemente ripieno di frutta secca, incredibilmente simile a quello del Buccellato siciliano, quindi raddoppio e ne compro abbastanza per fare entrambi.

Poi, quando andiamo a comprare il panettone, prendiamo anche il marzapane, un tocco siciliano. Se la cena del 24 è romana, che significa un gran fritto e pesce, allora il 25 sarà probabilmente riservato al pranzo di Natale inglese, ovvero tacchino, patate arrosto, cavoli e castagne e il flaming pudding, e il 26 sarà, di diritto, siciliano, se tutto va secondo i piani.

Cosa che avviene raramente, soprattutto per coloro, tra noi, con situazioni familiari complicate, distanze di navigazione, separazioni e perdite, quest’anno più che mai. Non che la maggioranza delle immagini e delle idee proiettate in giro tengano conto di questo, tanto sono fisse sul fatto che tutto sia in un certo modo, cose da fare e avere. È facile sentirsi spezzati e schiacciati.

Forse è per questo che quest’anno entrambi gli alberi, quello alto 23 metri in piazza Venezia e quello alto un metro e novanta, nell’angolo della nostra cucina, sembrano quantomai importanti. Rappresentano resistenza, speranza, luce, da inalare quando necessario.

In qualunque modo e qualunque cosa tu festeggi, appendi le tue decorazioni e qualunque cosa mangi, spero che il tuo solstizio d’inverno, Natale e Capodanno siano al massimo della felicità.

Fotografie: L. e M. Monasta

Rachel Roddy

Rachel Roddy è nata a Southampton nel 1972 ed è cresciuta a Londra. Formatasi come attrice, si è trasferita a Roma nel 2005 dove ha iniziato a scrivere, soprattutto di cibo. Il suo primo libro, Five Quarters, del 2015, ha vinto l’André Simon Food Book Award e il The Guild of Foodwriters First Book Award. Il suo secondo libro Two Kitchens è uscito 2017. Ha scritto per The Financial Times, Vanity Fair, National Geographic, Eater, Noble Rot e Internazionale. Ha una rubrica settimanale su The Guardian dal titolo A Kitchen in Rome. Vive a Roma con il suo compagno, siciliano, e il loro figlio.