L’INTERVISTA
di Simonetta Lorigliola

Siamo a Russiz Superiore, comune di Capriva del Friuli, provincia di Gorizia. Che è come dire profondo Collio, naturalmente.

Il luogo è unico per l’assoluta e semplice maestosità. Sembra che le origini dell’edificio affondino in epoca romana, è facile immaginare che fosse una delle innumerevoli fortificazioni cesaree a difesa dei confini imperiali: la posizione è strategica per dominare la vista dei territori circostanti.

La storia di Russiz continua nel Medioevo, in cui diventa una casaforte e un possedimento feudale dei potenti Conti di Gorizia. In seguito afferisce ad altre storiche e nobili famiglie, tra cui i Turm und Taxis, o, meglio, Torre e Tasso poiché le loro origini sono lombarde, innestate nella nominalistica asburgica. Furono loro a ricevere da Carlo V in persona, l’importante compito di gestire i servizi postali dell’Impero, quello su cui, come diceva l’imperatore stesso, «non tramontava mai il sole», acquistando grande influenza e ricchezze.

Oggi l’occhio spazia pacificamente tra vigneti, campi, piccoli corsi d’acqua e porzioni di bosco.

In questo edificio denso di storie e di storia, arrivo in una tiepida giornata di inizio primavera. Mi riceve il sorriso sincero e discreto di Ilaria Felluga, entriamo e, accanto al tradizionale fogolâr friulano acceso e accogliente, mi aspetta suo padre, Roberto Felluga.

Un buon caffè e le parole tessono da subito l’ordito di una narrazione familiare che sembra seguire spontaneamente il paradigma di Fernand Braudel: un racconto particolare che miniaturizza quello generale di epoche, idee e geografie antropologiche. Le storie nella Storia.

Tutto comincia più a est.

Partiamo da Isola, paese di architettura e fervenza veneziana sulla costa occidentale della penisola istriana, oggi in Slovenia, a pochi chilometri da Trieste. In quel luogo, rimasto pressoché intatto nel suo centro storico, la famiglia Felluga viveva e gestiva, dalla seconda metà dell’Ottocento, una locanda. Si trovava sulla via principale e, specifica Ilaria, l’edificio esiste ancora. Il nonno di Roberto, decide a un certo punto che il vino per il suo locale lo farà lui, e si fa oste e vignaiolo.

Refosco e Malvasia, va da sé, riempiono le botticelle per l’osteria.

Il vino piace, e il nonno decide di venderlo anche nella vicina, popolosa e curiosa Trieste, allora non separata da alcun confine, e a Grado che – di là da venire il suo destino marcatamente balneare – era un importante centro di traffici e pescai sulla costa adriatica.

Piace, quel vino, e i commerci vanno bene. Tanto che il nonno pensa di comprare un magazzino a Gradisca d’Isonzo, una testa di ponte verso il Friuli collinare, ma anche verso le città di Gorizia e Udine, potenziali interessanti mercati.

Siamo nel 1938. Che, tanto per darci una collocazione cronologica, fu l’anno delle Leggi razziali promulgate da Mussolini, e l’anno precedente allo scoppio della Seconda guerra mondiale.

Lievitavano tempi duri, grami e difficili come lo sono quelli di tutte le dittature e di tutte le guerre.

Dopo la fine del conflitto e la nascita della Repubblica socialista di Jugoslavia, il movimento di profughi italiani che lasciarono l’Istria fu imponente. Racconta quei momenti in maniera esemplare Fulvio Tomizza nel suo romanzo capitale, Materada.

I Felluga furono, storia nella Storia, tra questi profughi. Ma il loro fu un destino diverso. Quello di chi aveva da tempo guardato anche altrove.

A Gradisca c’era già una base, un luogo in cui dirigersi. Un punto da cui ripartire, molto diverso dallo zero assoluto. Così iniziava una seconda vita.

Gradisca divenne la prima roccaforte dei Felluga, e tutt’oggi rappresenta la parte più importante dell’azienda, in estensione.

In quegli anni i due fratelli, Marco e Livio, portano avanti l’attività vinicola di famiglia. E si fanno via via vignaioli friulani, tanto che nel 1956 decidono di intraprendere ognuno un proprio percorso vinicolo, pur rimanendo sempre legati e continuando a collaborare.

Livio si trasferisce a Brazzano di Cormons. Marco resta a Gradisca.

Ci avviamo agli anni Sessanta.

«Erano anni in cui nascevano i primi tentativi di cercare un riconoscimento per i vini di queste terre, e anche di virare verso un perfezionamento qualitativo. Non era la tendenza generale, ma c’era chi ci stava mettendo la testa. Mio padre, mio zio Livio e altri come Mario Schiopetto, per esempio. Schiopetto faceva l’oste e solo poi, come mio nonno, aveva cominciato a fare il vino acquistando bellissimi vigneti dall’Arcivescovado di Udine» racconta Roberto Felluga.

Erano anni in cui questi vignaioli svegli, intraprendenti, che avevano lo sguardo lungo battevano il Collio in cerca di vigneti, terre per dare fiato a quell’idea di viticoltura d’eccellenza che avevano in mente. Mappavano il territorio, con l’idea di poterlo un giorno promuovere come tale.

«Il Consorzio Collio nasce nel 1964 e risponde all’idea di riconoscere il valore di una terra, dei suoi vini, di un sapere vinicolo».

Il secondo passo in questa direzione è la nascita della Doc Collio, nel luglio del 1968, due anni dopo il riconoscimento delle prime quattro Doc italiane, la Vernaccia di San Gimignano, l’Est! Est! Est! di Montefiascone, l’Ischia e il Frascati.

Nel 1967, l’anno prima, Marco Felluga aveva incontrato Russiz Superiore. E l’aveva fortemente voluta, quella magnifica collina. Che ora si aggiungeva ai vigneti di Gradisca.

«Erano tempi in cui non esistevano consulenze blasonate o dettami cui a cui rifarsi, la cosa più importante era la propria esperienza, la capacità di analisi e visione. Non erano nemmeno i tempi di un vivaismo come lo conosciamo oggi. In questo quadro mio padre, che conosceva i suoi vigneti palmo a palmo, si dedicò alla selezione massale. E da quel momento in poi abbiamo sempre continuato a farla. È una modalità importante per mantenere l’identità dei nostri vini che, naturalmente, dipendono dal suolo e dall’interazione delle piante con quello».

Roberto è entrato in azienda poco più che ventenne, dopo un periodo di studi universitari ad Agraria.

Gli chiedo come è stato il rapporto con suo padre, senza dubbio una personalità imponente e importante.

«A mio padre ho sempre riconosciuto un metodo rigoroso che ha portato all’eccellenza, al successo. Detto questo, abbiamo due caratteri molto diversi, ma il tempo ci ha portato ad amplificare il dialogo e il confronto, e posso dire felicemente che da almeno vent’anni siamo buoni amici».

Con una tradizione di famiglia così definita, oggi in cosa consiste l’identità dell’azienda?

«Sta nel mantenere quello che hai ricevuto e nel valorizzarlo al meglio, passando dal necessario confronto con l’attualità. È indubbio che le mode e le tendenze indichino mutamenti, e io dico che più che alle mode stesse bisogna guardare a quei mutamenti, studiarli e capirli per innestare nuovi stimoli e spunti nella propria storia e nella propria soggettività vinicola.

Per esempio oggi la questione ambientale si impone e chi la ignora è fuori dal tempo. Ci sono i cambiamenti climatici. Come può un viticoltore non tenerne conto? E come può non chiedersi quale ruolo può avere, cosa può fare di concreto…».

E, dunque, oggi la Marco Felluga come si pone rispetto alla questione ambientale?

«Per noi la scelta di tutela ambientale è in un percorso coerente con la nostra storia. Basti pensare, come accennato, alla scelta di perpetrare la selezione massale. L’ambiente non c’entra con il marketing. Noi abbiamo l’obbligo di fare qualcosa per questo nostro pianeta e chi non lo comprende opera un vero e proprio furto nei confronti delle giovani e future generazioni. Io ho sempre analizzato, studiato i vari metodi di coltivazione rispettosa dei suoli. Ho invitato qui Nicolas Joly, per esempio. Ascolto, cerco, leggo. Provo… Non sono un’integralista, ho un approccio pragmatico e cerco di mettere insieme il meglio di diverse pratiche organiche, biologiche, biodinamiche. Mi sono costruito un mio paradigma di rispetto ambientale. Non in forma autoreferenziale, però.

Siamo certificati VIVA. E poi collaboriamo con un network di agronomi sensibili che operano svincolati dal mercato dei grandi gruppi agrochimici. Seguiamo da moltissimi anni la lotta integrata, sistemici non ne facciamo. Ma anche il biologico ha i suoi miti da sfatare, e il rame ne è un esempio eclatante. È un metallo pesante, che si accumula nel suolo. Inquina. E noi stiamo sperimentando, al suo posto, altri prodotti, a impatto zero, e le nostre analisi ci dicono che abbiamo già abbattuto della metà i residui di rame nel terreno».

Quale relazione, passando dall’ambiente, tra vino e paesaggio?

«La relazione tra vino e paesaggio è fondamentale. Un produttore avveduto dà ricchezza a un territorio. Il Collio senza vigne sarebbe una boscaglia informe, e come potrebbe esserci un tessuto sociale ed economico? Però il Collio conta 7000 ettari di terreno, di cui 1500 a vigneto: c’è un bell’ecosistema, non c’è la monocoltura. Il produttore deve essere consapevole, oggi più che mai, che l’ambiente deve stare al primo posto, deve essere la priorità».

Cosa è oggi il Collio e quale rapporto con l’altra parte delle colline, la Brda, il collio sloveno?

«Potremmo forse dire che oggi Collio rappresenta un’identità precisa, quasi un marchio, all’interno del vasto scenario del made in Italy in cui trovano spazio la moda, il design, la  cucina e, naturalmente, anche il vino.

Il made in Italy è un valore condiviso e il marchio Collio rientra in questa visione. Esiste un’identità che va sostenuta e mantenuta, così come sta facendo il Consorzio, che deve essere un luogo di dialogo e confronto, di forza comune.

Con la Brda dobbiamo dire che è la storia che ci ha diviso e, a livello vitivinicolo, siamo due soggetti diversi. Oggi possono e devono esserci collaborazioni in termini di comunicazione del territorio, così come ci insegna la bella esperienza della candidatura di Gorizia e Nova Gorica a Capitale europea della cultura 2025. Ma le reciproche identità vanno mantenute e rispettate».

Uve più amate, cru, vini d’affezione?

«Tutti i vini che noi facciamo sono importanti perché tutti sono ugualmente seguiti con grande attenzione.

In un’importante mappatura dei cru realizzata a fine Settecento, durante il regno di Maria Teresa d’Austria, Russiz superiore era indicato come zona d’elezione. E va ricordato che molti tra i vitigni di territorio vengono dall’influenza asburgica: si coltivavano qui le uve per fare qui vini che si bevano e piacevano nell’Impero centrale. Ma quei vitigni oggi sono naturalizzati, sono divenuti autoctoni. L’ultimo vigneto che abbiamo messo a dimora, nato sempre da nostra selezione massale, è di tocai friulano. Anche il sauvignon è quello storico friulano, è l’uva maggiormente prodotta a Russiz superiore dove le viti più vecchie hanno oltre 50 anni. Sono tutte uve arrivate qui, acclimatate e ormai inserite in un loro ecosistema».

Cosa pensa del luogo comune secondo cui il Collio è terra solo di grandi bianchi?

«Rispondo che siamo alla stessa latitudine di Bordeaux! Il territorio è sempre stato focalizzato a comunicare i bianchi, il che è giusto. Danno risultati d’eccellenza. Ma l’impegno per noi è pari per i bianchi e per i rossi. E poi non posso non ricordare che qui a Russiz Superiore il vino principe è il Merlot. A livello internazionale la nostra azienda ha bei riconoscimenti per i suoi rossi. L’eccellenza del Collio può esprimersi anche su quel fronte».

In questo disegno che parte ha la filosofia enologica?

«Se per noi tutti i vini sono ugualmente importanti, così lo sono tutte la fasi: dalla pianta alla bottiglia. Ed è sempre la cura per i dettagli che fa la differenza. L’uva deve arrivare in cantina completamente sana e integra. I bianchi vengono diraspati subito poiché la componente fenolica del raspo provoca sbavature nel corredo aromatico. Poi raffreddiamo gli acini e le bucce già in pressa, per preservare quello stesso corredo. A seconda delle uve facciamo un po’ di macerazione. La fermentazione avviene a temperatura controllata. Una parte dei vini faranno un percorso nel legno, che è tutto rovere, soprattutto francese e con una calibrata stagionatura, dato essenziale. Abbiamo lavorato molto per ridurre l’utilizzo di anidride solforosa e stiamo lavorando parecchio sulla ricerca dedicata ai lieviti autoctoni. Questo non significa colpevolizzare la solforosa: toglierla del tutto spesso significa lasciare il campo alla formazione di tossine nocive, più nocive di un contenutissimo residuo di anidride solforosa».

Parliamo della commercializzazione, anche in relazione ai mutamenti generati dalla recente emergenza sanitaria. Quali sono i vostri mercati di riferimento e come è andato quest’ultimo anno?

«Vendiamo in Germania, Stai Uniti, Russia e in altri 50 paesi ma il nostro mercato di riferimento è, da sempre, quello italiano che totalizza più del 60%, delle nostre vendite, soprattutto nel canale della ristorazione, che è stato quasi fermo per parecchi mesi.

In questo ultimo anno, come in molti settori, si è potenziato però il canale delle vendite on line. La pandemia ha portato cambiamenti che resteranno: gli italiani finora non erano un popolo da acquisti on line. Non mai tutto solo positivo: bisogna anche pensare che lo sviluppo di grandi piattaforme come Amazon inevitabilmente penalizza il tessuto commerciale dei territori e bisogna andarci cauti. Noi abbiamo scelto di utilizzare qualche canale scelto di vendita on line, ma abbiamo anche deciso che nel nostro nuovo sito non ci sarà uno shop on line perché desideriamo, comunque, sostenere le reti commerciali sul territorio».

Come è stata la quotidianità di questo ultimo anno?

«Personalmente devo dire che l’impedimento a muoversi e a viaggiare mi ha portato a dedicarmi molto di più alla campagna. Sveglia alle sei e vita quotidiana in vigna, cogli operai. Mi sono vissuto molto di più questa dimensione, comprendendo anche che è un privilegio poter stare qui, camminare nel verde, a contatto con la natura. Certo, è stato un anno in cui tutti abbiamo generalmente sofferto, ma qui, come persone, non siamo stati penalizzati. A livello economico ne abbiamo risentito, ma già a febbraio 2020 avevo intuito che le cose si sarebbero messe per le lunghe e avevo subito attivato alcuni canali di vendita on line. Questo ci ha dato respiro».

Quali prospettive e obiettivi per la Marco Felluga?

«Mantenere quello che abbiamo avuto e costruito. Da qui segue che una priorità assoluta, lo voglio ripetere, è la questione ambientale.

Nel settore vitivinicolo, a differenza di altri, c’è forse una maggiore generale sensibilità su questo tema, dato che si vive a contatto con la natura.

Noi vogliamo darle sempre maggiore centralità. È la questione più attuale che ci sia. nell’attualità bisogna starci, mantenendo la propria barra, guardando ai mutamenti, valutando le richieste di mercato, ma tenendo fermi i propri obiettivi.

Oggi noi puntiamo a gradazioni alcoliche contenute perché interessa a noi, e lo stesso vale per la riduzione della solforosa: interessa a noi trovare un equilibrio. Senza che questo abbia nulla a che fare con la tendenza dei vini naturali. Qui in Collo non c’è storia e tradizione che racconti di macerazioni lunghe sui bianchi. Si è sempre puntato su eleganza e longevità. Senza contare che con lunghe macerazioni si perdono le varietali e, quindi, si disperde l’impronta territoriale del vino. Non ha senso rincorrere quella strada solo perché lo richiede un certo mercato. Io rispetto tutti, e non denigro questi vini, ma non c’entrano niente con il Collio.

Il nostro impegno è nel valorizzare quello che di ricco e interessante offre questo nostro territorio. Abbiamo pensato, anche con mio padre e altri amici produttori, a un progetto per valorizzare il Pinot bianco, varietà storica del Collio ma spesso dimenticata e poco coltivata».

E di questo, riparleremo presto su seminarioveronelli.com

Russiz Superiore
Capriva del Friuli GO


Simonetta Lorigliola

Simonetta Lorigliola, giornalista e autrice, si occupa di  cultura materiale. È nata e cresciuta in Friuli. Ha frequentato l’Università degli studi di Trieste, laureandosi in Filosofia. È stata Responsabile Comunicazione di Altromercato, la principale organizzazione di Commercio equo e solidale in Italia. Ha collaborato con Luigi Veronelli, nella sua rivista EV Vini, cibi, intelligenze e nel progetto Terra e libertà/critical wine. Ha vissuto in Messico, ad Acapulco, insegnando Lingua e cultura italiana. Ha diretto Konrad. Mensile di informazione critica del Friuli Venezia Giulia. Da molti anni collabora con il Seminario Veronelli per il quale è oggi Caporedattrice e Responsabile delle Attività culturali. La sua ultima pubblicazione è È un vino paesaggio (Deriveapprodi, 2018).
Foto di Jacopo Venier