di Rachel Roddy

È la stagione dei frutti rischiosi. È la stagione delle more che crescono su rami difesi da spine. Forse è una stagione confusa per i bambini che sanno che la maggior parte delle volte, quando vedono una bacca irresistibile che chiede di essere raccolta, incontrano le ammonizioni degli adulti che gridano loro ”No!” mentre si lanciano e afferrano la bacca tra le piccole dita, “Potrebbe essere velenoso” seguito da un avvertimento: che i bambini possono morire per aver mangiato bacche o che possono incorrere in un forte mal di pancia, come se le due cose fossero sullo stesso piano.

Ma poi, da fine agosto a fine settembre, in tutta l’Inghilterra, quegli stessi adulti non solo raccolgono le bacche, le mangiano! Con la bocca tutta sporca di viola si contraddicono e dicono ai bambini che non solo è bello, ma fa anche bene raccogliere quelle bacche, perchè sono more. 

Poi diventa ancora tutto più confuso, poichè gli stessi genitori che passano la vita a proteggere i propri figli da parolacce, pericoli imminenti e graffi, li incoraggiano attivamente ad affondare mani e braccia tra i rami spinosi alla ricerca di grasse bacche.

Crescendo, a settembre, in una calda serata, mia madre e la sua amica Ros portavano noi bambini a raccogliere more nei boschi, alla periferia della città in cui siamo cresciuti. Ci davano contenitori Tupperware o barattoli vuoti di yogurt e ci veniva detto di trovare ognuno un pezzo di siepe pieno di bacche, e raccoglierle. 

I mirtilli, come i lamponi e le more, fanno parte del genere Rebus che a sua volta fa parte della più ampia famiglia delle rose, i cui membri hanno steli legnosi con molte spine.

Le loro modalità di crescita sono piuttosto sconclusionate, dato che gli steli e le foglie si attorcigliano in un labirinto spinoso, comunemente detto rovo. Ricordo come, all’età di 8 o 9 anni, la mia avidità e il desiderio di raccogliere (e mangiare) fossero di gran lunga superiori alla mia preoccupazione per i graffi.

Valeva per tutti noi. Avevamo trovato il modo di spingerci contro i rovi, con le gambe coperte dai jeans, compattandoli per raggiungere i rami più alti e raccogliere i frutti migliori. 

Ma indipendentemente da quanto fossimo intelligenti, i rami erano sempre più intelligenti e arpionavano la nostra pelle lasciandoci lunghi graffi. Le ferite fornivano un altro motivo per mangiare subito il frutto, mordere i grappoli di bacche che rilasciavano succhi densi e scuri che ci macchiavano bocca, denti e dita.

Ora, a distanza di anni, so che i composti molecolari delle more sono il feraneolo, l’esanoato di etile, gli iononi, l’eptanone e l’esanel, motivo per cui il loro odore, e quindi il sapore, ricorda il caramello, la violetta, la mandorla e il formaggio, e che l’astringenza deriva dai tanti piccoli semi. Ma, allora, le more avevano un sapore semplicemente rischioso e dolce. E sapevano anche di quel luogo e di quel preciso momento; che è fissato contro una siepe spinosa, in un campo che odorava di erba secca e di letame, in un’appiccicosa notte di settembre, col prurito alle braccia, la bocca dolce e tanti amici.

Il momento della raccolta non durava mai a lungo per noi ragazzi. Portavamo le nostre bocche viola, le braccia graffiate e i contenitori a malapena riempiti a mamma e Ros, poi scappavamo a scavalcare i recinti, che ancora esistevano, e riempivamo altre scatole di more.

Quasi 40 anni dopo, in un’altra parte ancora più verde dell’Inghilterra, all’equinozio d’autunno (che è anche il mio compleanno) mio figlio di 10 anni, che è metà italiano e metà inglese, e tutti i suoi cugini imparano che i rami di more sono rischiosi, e più intelligenti di loro. L’antico viottolo che porta dai miei genitori, la casa dei suoi nonni, fino a Colmer’s Hill, è fiancheggiato da siepi che sono in gran parte rovi, con i loro rami lunghi, spinosi e arcuati pieni di more. 

Il frutto acerbo non è affatto nero, ma rosso rubino, vira al viola e poi al nero carbone quando è completamente maturo. Nel suo libro Nose dive (“immergersi col naso”) Harold McGee descrive come le piante radicate, e lo sono anche i cespugli di more, producano bacche per favorire i viaggi dei semi che daranno vita alla loro prole. E di come la bacca attraente e grassoccia attiri l’attenzione di un uccello che la mangia, la trasporta e poi la espelle in un altro luogo.

L’attrazione per la raccolta è altrettanto grande per gli umani, così come la profonda soddisfazione che ne deriva. Raccogliamo tutti, adulti e bambini, scambiando il bottino della frutta con graffi, alternando la bocca e il sacchetto di plastica che usiamo per raccogliere le more, che come tutti i frutti sono “emblema di relazione, simbiosi, collaborazione, generosità; il regno vegetale trasmutando la sua generosità di luce solare e aria in nutrimento e piacere”.

Un volta tornato a casa, mio cognato mescola more di rovo con pezzi di mele, dono dell’enorme albero in giardino, e le ricopre con una miscela ottenuta strofinando farina, burro, zucchero e avena per realizzare quello che è noto come “crumble di mele e more”. 

Il piatto è cotto in modo che la frutta si ammorbidisca e il ripieno diventi brunito. È uno dei preferiti di famiglia, qualcosa che mi manca quando sono in Italia e spero sempre, quando visito l’Inghilterra, in un crumble fatto di frutti rischiosi e gratificanti, per l’equinozio d’autunno.

Traduzione dell’inglese a cura della redazione SV

Foto Miro Monasta

Rachel Roddy

Rachel Roddy è nata a Southampton nel 1972 ed è cresciuta a Londra. Formatasi come attrice, si è trasferita a Roma nel 2005 dove ha iniziato a scrivere, soprattutto di cibo. Il suo primo libro, Five Quarters, del 2015, ha vinto l’André Simon Food Book Award e il The Guild of Foodwriters First Book Award. Il suo secondo libro Two Kitchens è uscito 2017. Ha scritto per The Financial Times, Vanity Fair, National Geographic, Eater, Noble Rot e Internazionale. Ha una rubrica settimanale su The Guardian dal titolo A Kitchen in Rome. Vive a Roma con il suo compagno, siciliano, e il loro figlio.