di Diego Rosa

PRIMA PUNTATA


Pianura (padana)

La pianura è un’ampia estensione di terreno pianeggiante. Detto questo si è detto tutto, però se camminiamo la pianura, scopriamo una miriade di mondi: piatto non vuole dire tutto uguale. Camminare una terra vuol dire entrare nella sua storia, nella sua cultura, trovare capacità di racconto in ciò che ci dà.

la Pianura padana

     

Ce lo insegna Veronelli parlandoci della strage dei braccianti di Melissa nel 1949
I braccianti erano scesi dai monti a rivendicare i terreni che loro spettavano e dei quali il barone Berlinghieri si era ingiustamente impossessato. 
La forza pubblica sta dalla parte del barone e spara sui braccianti, uccidendone tre. 
Quella terra dà un vino, il Cirò di Villa Fragalà.
Veronelli così dice:

  «Se quel vino lo premi con la lingua contro il palato, senti il sapore di quel sangue».

Strage di Melissa – Enciclclopedia Treccani

Ognuno ha il suo pezzo di pianura, come ognuno, da noi, ha il suo pezzo di Po. 
La mia pianura è quella che vivo da sempre, tra le province di Reggio Emilia e di Mantova, sul Po. Una trentina di chilometri con qualche puntata più ampia. La sua è una storia di emancipazione lenta, ma implacabile, di miseria nera, di lavoro precario, di emigrazione, ma anche di tanta voglia di suonare e ballare.
Povero e ballerino è anche il nostro vino che però sa farsi rispettare.
L’ultimo scritto di Veronelli è del 12 novembre 2004 e ce lo racconta:

«Amici anarchici, Lieo è sinonimo di Bacco e significa Libero. Ciascuno di noi sa che nei momenti di lotta, soprattutto in quelli più decisivi in cui i migliori mettevano in gioco la vita, si alzava il bicchiere carico di Lambrusco, il più nero possibile, fosse segno di rigore, risolutezza e condivisione del destino…».

L’ultimo saluto, in Le cucine del popolo, Atti del convegno di Massenzatico Reggio Emilia – 31 ottobre 2004, pag 125.

È anche un vino che vuole essere trattato con delicatezza, pronto a ribellarsi, come quella volta che un ristoratore l’ha scosso troppo e il vino, appunto, si è ribellato innaffiando di schiuma vinosa il cliente. Il ristoratore ha reagito prontamente dicendo al cliente sconvolto che questo vino fa anche degli scherzi da prete, che sono i più stupidi. In dialetto sono i scherz da pret. 

Questo per me, oggi, è un ritorno a casa. Mi libero dei luoghi comuni perché la mia terra è cambiata e con essa la gente. Non ci sono più il grande fiume, la nebbia amica, l’indispensabile bicicletta, i vecchi saggi, gli straordinari (nel senso di fuori dall’ordinario) e i naifs. Scomparsa è anche la fame atavica.

Dal film Maria Zef di David Maria Turoldo

Interessante per la descrizione della pianura di un secolo fa è questo brano:

«Più di settant’anni fa, verso il 1910, mia madre ha attraversato le pianure su un carretto, assieme ai fratelli, il mobilio, i genitori. I luoghi che ha traversato a qui tempi dovevano essere pieni di paludi e moltissimi paesi forse non esistevano ancora. Dove non incontravano paludi forse trovavano macerie di canapa o risaie»

Le strade dovevano essere poco più larghe dei viottoli tra i campi, con molti gelsi e olmi, probabilmente pochissimi pioppi a quei tempi, forse zone di farnie e lecci. 

«Il viaggio doveva essere durato un giorno e una notte o forse di più. Mio nonno e mia nonna erano sarti, avevano con sé cinque bambini, tre maschi e due femmine; Mia madre doveva avere allora sette o otto anni. Quando sono arrivati alle porte della città devono avere attraversato una bella piazza e avere visto la Chiesa nell’alto campanile con l’orologio e il ponte canale. Al di là del ponte c’erano le mura e una porta d’ingresso della città, che si chiudeva il tramonto come tutte le altre porte della città. Immagino. Qui i doganieri controllavano i carichi dei viandanti. Forse i doganieri le hanno fatti scendere tutti dal carro per controllare che non ci fossero merce di contrabbando tra i mobili. Prima di farli entrare in città i doganieri hanno detto: ma perché venite a stare qui? In campagna si sta meglio, si vive beati. Non lo sapete che in città l’aria è cattiva, c’è sempre chiasso e il sole non riesce mai ad andare giù dall’orizzonte».

È vero, i tramonti sul Po, quelli sull’acqua, sono lunghissimi e stupendi. 

Lontano dal Po, invece, il sole scende tra gli alberi, le case, le colline, i monti, tra quelle quinte che per primo Leonardo da Vinci individuò piene d’aria. 

Anche Cézanne le fece sue. Sono loro che ci danno le misure, la lontananza.

Un giorno ho perso questo senso, non avevo più la sensazione della lontananza. Seduto a un tavolino stavo bevendo una birra e davanti a me c’era un campo di grano che finiva nel nulla, non c’erano quinte a darmi la distanza. Mi ha preso lo sgomento perché ero convinto che, dopo quel grano, ci fosse il vuoto assoluto. 

La pianura può dare sensazioni del genere. La mia terra è la Bassa, un’entità che non c’è. 

Una volta ho letto in un libro che è una terra che sorge dall’acqua e che nacque dal movimento che tutto disperde e ricompone: terra, acqua, aria, fuoco.
So di certo che prima c’era solo il mare, un grande golfo che arrivava ai piedi dei monti. Fanghi, paludi, fatiche per prosciugare e arginare, per rubare raccolti alle acque. 
È la Padania o Padanìa e si divide in Alta, verso i monti, o Bassa, sul Po. 
A dividere non è una questione di altitudini, ma di opposte condizioni idrografiche. 
L’alta pianura è arida, pochi alberi e coltivazioni di cereali e viti. 
La bassa è ricca di acqua e ha un’agricoltura più ricca e allevamenti.
Ariosto la chiama 

«Quel ricco pian che fin dove Adria stride
tra l’Appennino e l’alpe il Po divide». 

Teofilo Folengo ci dice 

«qui nasce buona razza di cavalli
la terra nuota nel latte di vacca
c’è frumento, c’è pecore, c’è olive
c’è pesci e uva». 

Cesare Zavattini la chiama il culo del cappone, cioè la terra più buona.

La storia della Bassa è storia di miseria.  Ce lo dice Zavattini con questa fulminante poesia:

«O Vèst an funeral acsè puvrèt
c’an ghera gnanca al mort
dentr’in dla casa
la gent adre i sigava
a sigava anca me 
sensa savè al parchè
in mes a la fumana».

(ho visto un funerale così povero / che non c’era neanche il morto / dentro la cassa / le persone piangevano / anch’io piangevo / senza sapere il perché / avvolto dalla nebbia)

Cesare Zavattini

La povertà, la fame nera è la linea continua che lega la storia di questa terra.
L’acqua è l’altro elemento fondamentale.

Piero Camporesi, storico della letteratura, non studia gli uomini di oggi, ma quelli di ieri. Umberto Eco ha scritto:

«Camporesi è un signore che entra in una stanza dove c’è un tappeto, dai disegni e dai colori bellissimi, che tutti hanno sempre considerato come un’opera d’arte, lo prende per un lembo, lo rivolta e ci mostra che sotto quel tappeto brulicavano vermi, scarafaggi, larve, tutta una vita ignorata e sotterranea».

Una vita che nessuno ha mai voluto raccontare eppure è lì, sotto il tappeto. 
E allora andiamo anche noi con Camporesi sotto il tappeto, in barba a tante rievocazioni letterarie, teatrali e cinematografiche false o ipocrite, volutamente assenti rispetto alla realtà. 
La fame nei nostri luoghi, e non solo, è sempre stata senza fine, specie d’inverno e nei periodi di carestia le persone si mangiavano l’un l’altra. I morti non si seppellivano e non rimaneva niente per gli uccelli perché la fame degli uomini li aveva già consumati.

Angelo Beolco, detto il Ruzante, nel Dialogo facetissimo, ci mostra Menego che durante la carestia del 1528 conta con le dita i mesi che lo separano dal pane fuggente, il pane sempre in fuga, inafferrabile:

«Gennaio, Febbraio, Marzo, Aprile, Maggio e anche mezzo Giugno al frumento (sospira) oh non ci arriveremo mai! Canchero, ma è un anno ben lungo questo. Io so che il pane scappa da noi, ma sì più che le passere dal falco». 

Ruzante ci dice anche che per lenire la fame c’è anche il surreale stratagemma di tapparsi «la busa de soto». Così gli escrementi, non potendo uscire, avrebbero mantenute piene le budella, neutralizzando la fame.

Per neutralizzare la fame si invoca anche la malattia.

Poi c’è la stagione delle erbe di cui si mangiavano le gemme, non si aspettavano il fiore e il frutto.
Nell’Ottocento Caterina Percoto ci dice che gli agricoltori friulani in primavera falciavano il grano ancora verde per sopravvivere.

Antonio Ligabue – Il pifferaio


Gli effetti più potenti di comico macabro Ruzante li raggiunge quando Menego, oltraggiato nel cuore e nella carne dal rivale in amore, ipotizza la propria distruzione per autofagia:

«Mi mangerò da me stesso e così morirò ben pasciuto a dispetto della carestia».

L’autofagia, ci dice Camporesi, non è così campata in aria così come il sacrificio rituale dei vecchi. 
Questi fatti a teatro portavano a risate collettive, ma nella realtà l’eccidio e la morte dei vecchi permettevano la vita ai giovani. Gli uomini morenti di fame potevano diventare macellai-necrofagi di altri uomini. 

Per contraltare, le corti erano luoghi di grande abbondanza. Nella reggia dei Gonzaga si preparavano piatti orgoglio di un’egemonia culinaria che la corte di Mantova eserciterà a lungo in tutta Europa:
Il banchetto storico fu organizzato per la mostra del Mantegna allestita a Mantova nel 1961. Era il primo evento culturale dopo l’Olimpiade di Roma, del 1960, con 250.000 visitatori inattesi e una serie di manifestazioni organizzate sul loro afflusso, convegni, concerti e spettacoli teatrali. 
Alberto Arbasino così descrive la strada per arrivarci: «venendo da Modena, un panorama piatto e disteso di salici grigi e di pioppi argentati, tutto un Lancret, con pennoni e bandiere sventolanti di Esso e Motta e Alemagna e Cortemaggiore, cani a sei zampe da tutte le parti».

Il banchetto storico è un episodio dell’evento artistico e dei consumi che aveva generato, ma aveva coinvolto pochi privilegiati. Al pranzo «in costume rinascimentale” collaborano Angelo Berti e i suoi aiuti».

Ecco il menu trascritto da Vincenzo Buonassisi:

Antipasti alla Rigoletto Consommè Isabelle d’Este Maltagliati alla Brentatora Agnolotti alla Buonaccolsi Tortelli di zucca Risotto col puntel Risotto col pesce e con le rane Risotto con l’anitra selvatica e il tartufo Luccio in salsa Anguille alla San Giorgio Conchiglie alla Barbara di Brandeburgo Crostacei alla Martin Faliero Carni rosate al vino e spezie alla moda dei Canossa Medaglioni di pollo alla Maddalena Faraona farcita sotto la cenere Pavone alla Mantegna Cinghiale di Amuconc Maialini arrosto Spiedate d’uccelli Tacchino alla Polirone Formaggi Dolci (Alberto Capatti, Storia della cucina italiana, pag 131-135)

fine della prima puntata _ continua


DIEGO ROSA

Laureato al DAMS di Bologna, con una tesi su Pinot Gallizio, “l’uomo di Alba”, Diego Rosa, nato a Viadana (MN) nel 1948, ha partecipato a tranquille esposizioni individuali e collettive. “Le mie opere – usa dire – sono nelle case dei miei migliori amici”. Ha organizzato vari eventi artistici tra cui, tra il ‘90 e ‘95, la rassegna “Trame e orditi”, con l’obiettivo di fare il punto delle arti visive nella zona della Bassa padana tra Reggio, Mantova, Parma e Modena. Si è interessato di teatro con opere da lui stesso scritte e interpretate, riguardanti il teatro Dada (“Gigino Rafedi”), Giovanna Daffini (“L’amata genitrice”, rappresentata insieme ai Folkin’ Po) e i canti anarchici (“Il galeone, ribellarsi è giusto” con Mara Redeghieri, Lorenzo Valdesalici e Nicola Bonacini).  Da anni frequenta l’ambiente patafisico con performances e installazioni. Ciò l’ha portato a pubblicare “Ode” con “FUOCOfuochino”, la casa editrice più povera del mondo.  Da tempo collabora con riviste quali ApARTe° (materiali irregolari di cultura libertaria) e “A”, rivista anarchica.  Abita e lavora a Gualtieri (RE).