IL VIGNETO NELL’OASI. Per la tutela ambientale, culturale ed enoica di un territorio

di Simonetta Lorigliola

Chiamo Giovanni Scaglione, al telefono, qualche giorno fa. Ha nevicato tanto, mi dice. E lui ha un po’ di tempo per parlare. 

La campagna, la collina – siamo in Alta Langa -, i vigneti sono ricoperti da un manto soffice alto 30 centimetri. La neve, aggiunge Scaglione, farà bene ai bulbi delle orchidee selvatiche, li proteggerà. A marzo, come ogni anno, ci saranno poi le prime belle fioriture, tra i filari.

Dal 2007 Forteto della Luja è un’Oasi Wwf: vigneti, boschi (il forteto è la boscaglia, in toscano colto) e un corso d’acqua, la Luja. Un’oasi naturalistica che produce vini è un caso, probabilmente, unico al mondo. 

Le vigne

Uno di quei vini è il Moscato Passito, amato da Luigi Veronelli che fu a capo della battaglia per il suo riconoscimento, attraverso la costituzione di una DeCo, poi incarnata dalla Doc Loazzolo, la più piccola d’Italia.

Andiamo a conoscere Forteto della Luja e Giovanni Scaglione, suo vignaiolo eletto.

Quali sono oggi i punti significativi del vostro percorso, guardando alla storia di Forteto della Luja?

I bilanci complessivi sono difficili da fare perché l’azienda ha radici molto profonde: otto generazioni. E poi c’è il fatto che ci sentiamo e siamo sempre in evoluzione. 

Però posso dire, facendo un bilancio parziale, che siamo riusciti a mantenere vive le nostre radici e la nostra tradizione. E per noi, e per me, questo era e resta uno degli obiettivi principali.

Come si integrano radici e tradizioni in un’Oasi WWF?

Sono tutt’uno. Quell’oasi serve per tutelare l’ecosistema ma soprattutto per proteggere un’agricoltura biologica e contadina, con vigne che hanno 70 anni di età, in cui sarebbe impossibile ogni meccanizzazione e in cui i lavori vengono fatti utilizzando i cavalli.

Siamo diventati Oasi naturalistica nel 2007 e il motivo profondo che ci ha portato verso questa scelta è stato il desiderio di proteggere quella tipologia di vita rurale che sta alla base della nostra storia familiare e territoriale.

Quest’oasi è una zona di tutela e conservazione degli ecosistemi ,ma la tempo stesso ospita un’unità agricola produttiva. Come vive in quest’insolita quotidianità?

Non siamo solo un’oasi dove si produce vino, è l’oasi stessa ad essere stata costituita intorno alla nostra azienda, che ne è il cuore. Pratichiamo un’agricoltura biologica certificata da Icea e non meccanizzata, come ho detto. Niente macchinari, manualità su ogni lavorazione.

Per il lato di tutela ambientale e della biodiversità ci sono i naturalisti e i botanici inviati dal WWF che tengono monitorato ogni aspetto e rappresentano il supporto scientifico. Poi c’è un lato divulgativo che risponde all’importanza di far conoscere luoghi come questo. Organizziamo, per esempio, la Giornata delle farfalle o la giornata delle orchidee: entrambe vivono qui e sono indicatori ambientali: le orchidee per la sanità del terreno e le farfalle per la qualità dell’aria. C’erano già prima della costituzione dell’Oasi…

Una descrizione del luogo, a volo d’uccello…

I vecchi vigneti scoscesi dove crescono numerose specie di orchidee selvatiche, circondati da muretti in pietra a secco e da boschi maestosi immersi in un paesaggio ricco di biodiversità. A valle, il rio che scorre.

Un luogo unico, ma anche un esempio di quanto valga la pena conoscere, apprezzare e custodire paesaggi in cui siano integrati elementi agricoli ed elementi naturali.

In questo scrigno di biodiversità in equilibrio naturale, si sente l’influsso dei cambiamenti climatici?

Un biologo del WWF quest’estate ha rilevato la presenza di un insetto che qui nemmeno io avevo mai visto. Mi ha poi spiegato che questo animaletto era presente, fino a poco tempo fa, solo in Sicilia, nel pieno Sud della penisola. Questo è un esempio per dire che l’influsso del climate change arriva, è inevitabile.

Per fortuna abbiamo l’altitudine, che è un elemento importante per una buona conduzione del vigneto.

Quando nasce il Forteto e come si sviluppa la sua storia legata al vino?

L’accorpamento aziendale è documentato dal 1826 mentre la grotta-cantina in pietra, e una parte dei fabbricati, risalgono al Settecento. Fino al 1985 ci si dedicava alla produzione di uve e solo una piccola parte veniva vinificata, per il consumo familiare. 

Ancora oggi la nostra cantina è molto piccola, è la cantina contadina del nonno, di fatto oggi non ne non esistono quasi più… Non ne abbiamo costruita una nuova: un fatto di conservazione e tutela. E funziona bene. Questa cantina storica è sottoterra e ci sono, di media, 14 gradi. 

Ma tutta la struttura dell’azienda è quella originale, la classica cascina piemontese di Alta Langa. Per non allargare e costruire abbiamo scelto di spostare a Canelli una parte dell’imbottigliamento e dello stoccaggio, sempre seguiti dalla famiglia.

La nostra filosofia è quella di non consumare il suolo. Il territorio agricolo andrebbe preservato da nuove costruzioni. Io sono sempre favorevole al recupero e alla ristrutturazione, piuttosto: qui in Langa ci sono cascine abbandonate, che potrebbero venire recuperate. Come fanno in Provenza, o in altri luoghi perché anche l’architettura rurale ha il suo valore storico, non c’è niente da inventarsi…

E poi c’è il discorso sull’energia. In azienda abbiamo una produzione con il fotovoltaico che copre interamente le esigenze di elettricità ed acqua calda.

Anzi, il vostro è stato il primo impianto fotovoltaico installato in una una Cantina in Piemonte…

Funziona dal 7 febbraio 2005. È stato il primo impianto piemontese, e forse anche italiano, di produzione di energia elettrica solare ad uso non abitativo, ma legato alla produzione vitivinicola. Allora fece davvero notizia…

Andiamo in vigna. Quali i vostri vitigni d’elezione?

Nel 2018 abbiamo organizzato un Simposio internazionale dedicato al pinot nero. C’erano diverse cantine borgognone, svizzere, tedesche e italiane e vari relatori qualificati di diversa provenienza.

Lo abbiamo fatto perché crediamo che il pinot nero, qui a Loazzolo, si possa considerare un vitigno d’eccellenza. Siamo l’unico comune piemontese in cui il primo vitigno coltivato, come quantità, è il pinot nero.

Quali sono le ragioni di questo radicamento?

La famiglia Gancia a metà dell’Ottocento aveva cominciato qui a fare alcuni esperimenti con il moscato, per poi rivolgere l’attenzione principale ai pinot e allo chardonnay. In quegli anni aveva dato ai contadini, da piantare in vigna, anche il pinot nero, che si è continuato a coltivare.

Oggi viene utilizzato per produrre lo spumante Alta Langa, una nuova denominazione, e per il metodo classico, in generale.

Noi, invece, con il pinot nero facciamo un rosso, in assemblaggio con il barbera; li vinifichiamo separatamente e poi li uniamo. Non abbiamo inventato nulla, è un po’ la tradizione del paese.

E rimanendo tra i rossi, voglio citare anche la Barbera. La vinifichiamo per ottenere una versione leggera, da accompagnare a carni bianche e verdure, o persino a qualche pesce.

Anche qui, nessun artificio. Nella tradizione piemontese erano pochi i vini bianchi. Del rosso, detto in poche parole, bisognava farne anche un bianco. E l’uva barbera era destinata a quella vinificazione leggera, che dava un vino rosso buon sostituto del bianco a tavola.

Produciamo, infine, un Brachetto Passito.

Poi naturalmente c’è il Moscato, quello riconosciuto dalla Doc nata del 1992…

L’altro versante, infatti, è quello. Loazzolo è la più piccola Doc d’Italia, dedicata proprio al Moscato. È stata ottenuta grazie al coinvolgimento di Veronelli, era nel solco della battaglia veronelliana per le DeCo, le Denominazioni Comunali.

Veronelli aveva individuato subito in Loazzolo un vero e proprio ombelico. Il piccolo comune è posto in un incrocio di territori: al confine tra Langhe e Monferrato, tra est e ovest, e al confine tra Appennino ligure e il basso Piemonte, tra nord e sud.

Qui da noi abbiamo la prima collina dell’Alta Langa. Questi confini plurimi che si incrociano, fanno incrociare anche i differenti suoli, quello bianco della Langa, quello rosso del Monferrato. E giungono i diversi influssi climatici, quello continentale piemontese e quello mediterraneo, dalla Liguria. Basta guardare vegetazione e colture: ulivi, fichi d’india, pini silvestri, roverelle…

Da noi arriva lo scirocco, il marin (da mare), il clima, di giorno, è mite ma di notte fa freddo, molto più che in Liguria. Su questo confine prolifera la biodiversità.

Quando Veronelli è venuto qui ha visto i vigneti storici mischiati coi boschi, l’altitudine, le condizioni ambientali, ha subito affermato che ci volesse una Denominazione comunale. Diceva che si trattava di un punto strategico, per la sua unicità e particolarità.

Un ombelico, appunto: con una giornata serena da qui si vede tutto il Piemonte.

Qual è la vostra individuale storia con questo Moscato?

Siamo un’azienda molto piccola, inserita in un ambiente montano, in un paesino di poche centinaia di persone, a 550 metri sul livello del mare, con un clima e un terreno diversi dalla maggior parte degli altri luoghi di produzione del Moscato…

La nostra storia con il Moscato risale a molte generazioni fa. Era l’uva che i contadini coltivavano per conferirla ai produttori storici di Canelli come Gancia e Contratto e Bosca. In parte, la tenevano per loro stessi. 

Anche mio bisnonno e suo padre facevano così e una parte d’uva veniva destinate all’autoconsumo e alla vendita del Moscato, solo sul mercato locale. Loro lo chiamavano il Filtrato dolce.

Filtravano coi sacchi di cotone (i cosiddetti «sacchi olandesi») e, non avendo a disposizione alcuna tecnologia, non riuscivano a mantenere il vino dolce per mesi o o per anni. Già nell’estate successiva alla vendemmia diventava secco. E loro continuavano a berlo, come Moscato secco. 

Lo bevevano,  il Moscato, come vino della colazione, prima di andare a lavorare nei campi. Si prendeva assieme alla Sòma d’aj un crostone di pane abbrustolito, con uno spicchio d’aglio sfregato sopra e magari un pezzetto di acciuga.

Col passare del tempo, siamo arrivati a mio nonno Egisto che già negli anni Cinquanta aveva cominciato a espandere le vendite a livello regionale. Andava in giro con il suo camioncino. Nel frattempo la tecnica di vinificazione si era evoluta, c’erano i primi filtri a cartone. 

Il nonno arrivava anche al capoluogo regionale. Una fotografia lo ritrae all’Esposizione Universale, svoltasi a Torino nel 1861, per festeggiare il centenario dell’Unità d’Italia. Era in fiera con il suo banchetto a vendere i vini.

Mio padre si è diplomato enologo ad Alba nel 1961 e nel 1969 si è laureato in Biologia. Ha sempre lavorato nella nostra azienda ma faceva il consulente per altre aziende e l’insegnante alla Scuola Enologica di Alba. Dal 1985 nasce Forteto della Luja, azienda autonoma, di mio padre. 

Aveva conosciuto Giacomo Bologna, era stato il suo enologo. È stato proprio Bologna a proporgli di produrre, insieme, un Moscato di alta qualità. E mio padre sapeva che il massimo il moscato lo dava come passito. Era stato consulente in Gancia, dove questo fatto era stato oggetto di studi e sperimentazioni serie, tutte documentate.

E così mio padre dice a Bologna che per fare quel Moscato (passito) d’eccellenza lui ha la vigna giusta, con viti piantate nel 1937, e anche la madre. E conosceva la tecnica di quell’appassimento, ormai raro, ma largamente praticato in questa zona all’inizio del Novecento. In zona, quasi non si faceva più.

Così è iniziata per noi la produzione professionale di Moscato, per la vendita. La prima botte era pronta. Era il 1987. E Bologna venne in cantina con Veronelli. Che lo assaggia, ne resta colpito e subito pensa alla sua massima valorizzazione, con la DeCo.

La prima bottiglia è l’annata 1985, commercializzata nel 1988.

Appassimento in parte sulla pianta (noi raccogliamo tra il 25 di settembre e il 15 di ottobre, a scalare) e successivo ulteriore appassimento in fruttaio, in un locale coi muri in in pietra secca, senza cemento, che risale al Settecento. Qui abbiamo i finestroni, che apriamo e chiudiamo. Niente ventilazione artificiale. 

È un vino che richiede tempo, e solo a dicembre le uve solitamente vengono pigiate. La fermentazione è lenta e procede per tutto l’inverno, nelle botti di legno con inoculazione il lievito madre prelevato dal fondo della botte dell’anno precedente. 

Com’è andata la vendemmia 2020?

Se fosse il rancio di un soldato sarebbe… ottimo e abbondante!

Scherzo, per dire che abbiamo avuto ottima qualità delle uve, e anche una certa quantità. Lo dico perché noi, abitualmente, abbiamo rese rese per ettaro molto basse….Quest’anno, di media, c’è stato un 10% in più, in quantità. Un’ottima vendemmia, e sono fiducioso che dia bei vini. Poi il tempo, dirà il resto…

Per approfondire

Il Loazzolo Doc

La denominazione Loazzolo abbraccia un unico comune: Loazzolo, che si trova ad oltre 400 metri di altitudine. Ha circa 400 abitanti ed è ubicato sulla dorsale collinare che separa la valle del fiume Bormida da quella del Belbo.

In questa piccolissima area di produzione, si produce questo particolare vino da uve a bacca aromatica moscato bianco, vitigno molto diffuso in tutto il sud Piemonte. La sovramaturazione in pianta è una delle due tecniche utilizzate per produrre il Loazzolo Doc, l’altra è l’appassimento in fruttaio su graticci o in cassette. A volte le due tecniche vengono affiancate. 

Il risultato è un vino dolce, prodotto in quantità limitatissime, il quale solo dopo almeno due anni di permanenza in cantina può chiamarsi Loazzolo.

Per maggiori informazioni leggi il Disciplinare di produzione, che descrive in modo efficace, sintetico e scorrevole la storia e le caratteristiche del Loazzolo Doc.

fortetodellaluja.it


Simonetta Lorigliola

Simonetta Lorigliola, giornalista e autrice, si occupa di  cultura materiale. 
È nata e cresciuta in Friuli. Ha frequentato l’Università degli studi di Trieste, laureandosi in Filosofia. È stata Responsabile Comunicazione di Altromercato, la principale organizzazione di Commercio equo e solidale in Italia. Ha collaborato con Luigi Veronelli, nella sua rivista EV Vini, cibi, intelligenze e nel progetto Terra e libertà/critical wine. Ha vissuto in Messico, ad Acapulco, insegnando Lingua e cultura italiana. Ha diretto Konrad. Mensile di informazione critica del Friuli Venezia Giulia. Da molti anni collabora con il Seminario Veronelli per il quale è oggi Responsabile delle Attività culturali. La sua ultima pubblicazione è È un vino paesaggio (Deriveapprodi, 2018).
Foto di Jacopo Venier