di Pietro Stara
La cucina francese dal XVII secolo al 14 luglio 1789 ovvero la nascita del nazionalismo gastronomico francese
Nel 1651 il tipografo parigino Pierre David pubblica il ricettario Le cuisinier françois di Pierre François de La Varenne (1618-1678) che impara l’arte della cucina italiana sotto Maria de’ Medici moglie di Enrico il Grande. Quindi trascorre dieci anni nelle cucine del Marchese d’Uxelles Louis Chalon du Blé a cui dedica il libro. La seconda edizione esce nel 1652 e sarà la versione di riferimento per tutte le edizioni successive, circa 61 in cent’anni, e per la sua prima traduzione in una lingua inglese (Londra 1653).
Cucina nazionalista?
Con un piccolo azzardo si può affermare che il 1651 segna la data di nascita del nazionalismo gastronomico francese e della cucina francese tout court: La Varenne segna la fine dei ricettari alla Taillevent, dal soprannome attribuito a Guillaume Tirel per il gran naso con il quale sembrava fendere il vento, rappresentante di quell’arte culinaria che a partire dal XIV secolo domina la cucina europea: Le Viandier, scritto in forma poetica nel 1380, contiene 46 ricette generiche senza alcun ordine preciso che variano dallo Spezzatino al biancobrodo di Germania a varie tipologie di salse, senza alcun riferimento territoriale nazionale.
La carpa francese e quella tedesca
Soltanto ne Il Ménagier de Paris (Traité de morale et d’économie domestique composé vers 1393 par un Parisien pour l’éducation de sa femme) composto tra il 1392 e il 1394 come manoscritto di economia domestica e destinato alla giovane sposa di un ricco borghese parigino, libro in cui prevalgono nettamente le ricette lombardes, vi è un riferimento alla Francia:
Carpe a l’étouffée
que les Alemans dient des François qu’ils se mettenten graot péril de mengier leurs carpes si pou cuites. Et a-l’enveu que se François et Alemans ont un queux François qui leur cuise carpes, icelles carpes cuites à la guise de France, les Alemans prendront leur part et la feront recuire plus assez que devant, et les François non.
(I tedeschi dicono dei francesi che si mettono in pericolo se mangiano le loro carpe non cotte. E se i francesi e i tedeschi hanno un cuoco francese che cucina la carpa per loro, cioè la carpa cotta a piacere della Francia, i tedeschi prenderanno la loro parte e la faranno cucinare più di prima, e i Francesi non lo faranno)
Et alias….
A Le cuisinier françois seguono Le jardinière français di Nicolas de Bonnefons (1651), Les délices de la campagne dello stesso autore (1655), Le cuisinier di Pierre de Lune (1656), L’École parfaite des officiers de bouche di Pierre Ribou (1662), L’art de bien traiter di L.S.R., Le nouveau et parfait cuisinier di Pierre de Lune (1668), Le cuisinier royal et bourgeois di François Massialot (1691), La maison bien reglée di Audiger (1692).
Verso una cucina meno artificiosa
Si intravvedono così alcuni dei primi cambiamenti in ambito culinario che anticiperanno, di gran lunga, tendenze che troveranno pieno compimento nei secoli successivi. Ad esempio Nicolas Bonnefons, in una riedizione 1679 del suo trattato Les délices de la champagne, esorta i maestri di casa dicendo loro che
«la zuppa di cavolo deve sapere solo di cavolo, quella ai porri sappia di porri, quella alle rape sappia di rape […] lasciando da parte le composizioni per bisques, hachis, pannade e altri camuffamenti»
Sebbene la cucina, secondo un lascito rinascimentale che si rifà esplicitamente alla tradizione romana, sia ancora prepotentemente centrata sull’artificio, iniziano a irrompere pratiche voluttuarie, filosofiche e sociali imperniate sulla naturalità e sulla separazione dei sapori, che relegheranno, sempre più in fondo, il dolce al pari della frutta, sullo stravolgimento dell’ordine delle portate, sulla riduzione progressiva dell’uso delle spezie e sull’uso di salse dense e burrose.
Cucina: Arte o Medicina?
Il XVIII secolo francese spinge ancora oltre le istanze seicentesche: i cuochi, al pari degli altri artisti, codificano in maniera più precisa la loro professione, gareggiano nella composizione di piatti sempre più ricercati, raffinati e, manco a dirlo, estremamente costosi.
Ogni casata di rango fornisce nomi a piatti inventati e ogni cuoco diviene proprietà esclusiva e non cedibile, se non ad altissimo prezzo, della relativa proprietà.
Nella seconda metà del Settecento, nel 1764 per la precisione, si verifica un piccolo fatto, estremamente significativo: per la prima volta, nel secondo volume del Traité des livres rares, i libri di cucina vengono classificati come «Arte» e non vengono più catalogati nella sezione di «Scienze e arti» ma rimangono nella sottoclasse di «Medicina».
Successivamente, nel Catalogo Perrot, grazie al lavoro di Née de La Rochelle e Belin Junior, la «Cucina» esce dalla sottoclasse «Medicina» e viene separata da «Igiene» e «Dietetica». Anche se in seguito i cataloghi torneranno a mettere la «Cucina» nell’antica classificazione medica, la rottura epistemologica del periodo settecentesco è evidente e verrà pienamente recuperata nel secolo successivo.
Dal gusto al buon gusto
La cucina nel Settecento non è più al servizio della gola, ma, come tutte le arti, del buon gusto e non deve più rispondere a caratteri soggettivi legati allo stato umorale di colui che mangia o al temperamento di una popolazione, ma deve in qualche modo rispondere a canoni di oggettivazione, cosa che Anthelme Brillat-Savarin evidenzia con decisione, in un trasporto scientifico e razionale dell’epoca Illuministica che farà da preambolo al positivismo scientifico ottocentesco:
Brillat-Savarin e la gastronomia narrativa
«La gastronomia, dunque – di cui la Physiologie dà le ragioni e detta le leggi – non è soltanto “la connaissance raisonné de tout ce qui a rapport à l’homme, en tant qu’il se nourrit”, ma è soprattutto la rivendicazione positiva di quella “forma di vita” che è la gourmandise. Per nulla pantagruelico o vorace, carnascialesco o ghiottone, il gourmande è colui il quale sa approfittare delle delizie della natura per orientare l’inestetico bisogno d’alimentazione verso un’arte del mangiar bene, sa incanalare le virtualità inespresse della meccanica del gusto verso le gioie condivise della convivialità. (…)
Ma che cosa succede esattamente nella bocca?
Quali sono le modalità a partire da cui, con un’espansione a cerchi concentrici, dalla fame ancestrale si passa al benessere conviviale, dall’urgente soddisfacimento dei bisogni all’aristocratica ricerca di desideri ulteriori? La descrizione della sensazione del gusto fornita da Brillat-Savarin. Mette in scena un vero e proprio racconto, dove il gusto procede per gradi ben distinti tra loro che danno l’idea di un assaporamento dei cibi che ha da tempo dimenticato che cosa sian o la fame e il bisogno di sostentamento. (…)
La gastronomia dispiega una struttura narrativa in cui, sulla base di un codice narrativo condiviso al momento del contratto sociale, un soggetto operatore acquisisce competenze e opera performanze per far sì che un soggetto di stato possa essere congiunto ad un determinato oggetto di valore: l’Oggetto di gusto». (Gianfranco Marrone, cit.)
Nascita della cucina borghese
Tra il 1715 e il 1750 in Francia tramonta, lentamente, una civiltà gastronomica che resisteva da oltre tre secoli e ne sorge un’altra di contrario segno, la cucina borghese.
A una cucina incentrata sulla carne e votata – grazie alle interminabili frollature, alle cotture plurime, alle violente speziature e al dolce-salato – all’occultamento programmatico dei sapori naturali, si sostituisce una cucina che scopre gli alimenti freschi, i vegetali, le erbe aromatiche, gli accostamenti oculati, la sapiente alchimia delle nuove salse, dei fondi, delle glasse, dei legamenti. Di questa autentica rivoluzione culinaria i contemporanei sono perfettamente consapevoli.
Nel suo Cuisinier moderne (1733) Vincent La Chapelle constata che
«la tavola di un grande signore, se apparecchiata oggi come vent’anni fa, lascerebbe i commensali insoddisfatti»
Brunoy e Bougeant, nella prefazione a Les dons de Comus ou les délices de la table di François Marin (1739), contrappongono alla macchinosità della vecchia cucina «una cucina più semplice e forse anche più dotta» che persegue «un’armonia, per così dire, di tutti i gusti fusi insieme».
La definizione di «cucina moderna» (cuisine moderne) sottolinea ulteriormente la rottura col passato.
È nel 1745, con la pubblicazione della Cuisinière bourgeoise di Menon, che all’aggettivo moderno si accoppia, per l’appunto, l’aggettivo borghese.
Il termine, per la verità, non era ignoto al lessico gastronomico (si ricordi appena Le cuisinier royal et bourgeois di Massialot, del 1691), ma mentre in precedenza cuisine bourgeoise valeva all’incirca cucina di paese, regionale, ora si carica di un significato polemico nei confronti della declinante cucina della nobiltà.
Un verbo culinario europeo
Dalla Francia il nuovo verbo culinario dilaga in breve tempo in tutta Europa.
Altri testi di cucina, oltre a quelli citati, testimoniano la progressione dei cambiamenti sociali in seno alla società francese: nel 1739 Les dons de Comus ou les délices de la table di Marin, nel 1739 il Nouveau traité de la cuisine di Menon, nel 1740 Le cuisinier gascon, nel 1742 La Nouvelle Cuisine di Menon, nel 1749 La science du Maître d’hôtel cuisinier di Menon, nel 1750 Dictionnaire des aliments, vins et liqueurs (attribuito a François-Alexandre Aubert de La Chesnaye Des Bois, o a Briand), nel 1750 La science du Maître d’Hôtel-confiseur di Menon, nel 1751 Le Cannameliste français, nel 1755 Les soupers de la Cour di Menon, nel 1758 Traité historique et pratique de la cuisine di Menon, nel 1759 Le Manuel des officiers de bouche (attribuito a Menon), nel 1767 Dictionnaire portatif de Cuisine d’Office et de Distillation, F. A. Aubert de la Chesnaye des Bois.
La Bastiglia e il fatidico 14 luglio 1789
La Bastiglia diviene prigione di Stato, dove vengono rinchiusi le vittime delle lettres de cachet, lettere firmate dal re di Francia, controfirmate da uno dei suoi ministri e chiuse con il sigillo reale. Le più note lettres de cachet erano penali sotto Richelieu.
Con queste lettere un soggetto veniva condannato, senza processo e senza l’opportunità di difendersi, all’imprigionamento in un carcere di Stato o ordinario, al confino in un convento o un ospedale, alla deportazione nelle colonie, o all’espulsione in un’altra parte del reame).
Nella Bastiglia vengono rinchiusi anche celebri personaggi: tra gli altri, Maschera di ferro, presunto fratello gemello di Luigi XIV, Voltaire nel 1717, il Marchese de Sade, Cagliostro, Fouquet, Mirabeau, Marmontel…
Prigionieri diversi
Pare che in quella prigione il trattamento degli aristocratici, al contrario di quello disumano perpetrato nei confronti della gente comune e dei prigionieri politici in particolare, sia di tutto riguardo:
«Il libellista Marmontel raccontò nelle sue Memorie del 1750: accolto in prigione (soltanto per 11 giorni) in compagnia del cameriere, la prima sera si vide presentare un purè di fave al burro e del merluzzo insaporito con una punta d’aglio. Non aveva nemmeno finito di gustarli che le guardie rientrarono con una piramide di piatti di porcellana colmi di potages, capponi e carciofi fritti accompagnati da una bottiglia di Borgogna d’annata; una pera fresca e un eccellente caffè concludevano la cena: Marmontel aveva mangiato quella del suo valletto. Il marchese De Sade… faceva impazzire i carcerieri pretendendo una un ristorante esterno salsicce tartufate, rognoni di vitello e ali di pernice; guai se mancavano le creme alla vaniglia e al cioccolato». (Maria Luisa Minarelli, A tavola con la storia)
La presa della Bastiglia, i suoi sette prigionieri e una cantina personale
Quel 14 luglio ci sono soltanto sette prigionieri. Quattro falsari: Jean La Corrège, Jean Béchade, Bernard Laroche de Beausablon e Jean-Antoine Pujade.
Un libertino: Charles-Joseph-Paulin-Hubert de Carmaux, conte de Solages.
Due malati di mente: il maggiore Jacques-François-Xavier de Whyte, conte de Malleville, inglese o irlandese, che credeva di essere Giulio Cesare, San Luigi o Dio, e Claude-Auguste Tavernier, complice nell’attentato del 1757 di Damiens contro Luigi XV.
«Il conte di Solanges vestì volentieri i panni del martire portato in trionfo, ma era stato arrestato per reati contro la morale; gli altri due erano poveri dementi che finirono nello squallido manicomio di Charenton. Uno di essi, Auguste Tavernier, conservò a lungo il ricordo di 62 bottiglie di vino, 31 di birra, 4 di acquavite che gli erano state recapitate nel maggio precedente, come un documento della Bastiglia ancora testimonia». (Maria Luisa Minarelli, cit.)
Insomma, vi era più di una ragione per tirarla giù.
Bibliografia minima
Francesca Sgorbati Bosi, A tavola coi re. La cucina ai tempi di Luigi XIV e Luigi XV, Sellerio editorie, Palermo 2017;
Bibliographie instructive, ou Traité de la connoissance des livres rares et singuliers … / par Guillaume-François De Bure, le jeune, … Tome 1. ó-7.]. – A Paris : chez Guillaume-Francois De Bure le jeune, Libraire, quai des Augustins, 1763-1768. – 7 v.;
François Pierre detto La Varenne, Il cuciniere francioso, a cura di Jean-Claude Carron, Guido Tommasi editore, Milano 2012;
Gianfranco Marrone, La narrazione del gusto in Brillat-Savarin, Nouveaux Actes sémiotiques, n. 55-56, Pulim Universitè de Limoge 1998 reperibile sul sito personale dell’autore http://digilander.libero.it/marrone/html/testi.html;
Stefano Torselli, La cucina del settecento, il rococò in tavola, in Baroque http://www.baroque.it/cucina-barocca/cucina-barocca.php?link=2;
Alberto Capatti e Massimo Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Editori Laterza, Roma – Bari 2009, in particolare capitolo III, La formazione del gusto, pp. 99 – 144;
Maria Luisa Minarelli, Bastiglia a tre stelle in A tavola con la storia, Sansoni, Firenze 1993.
PIETRO STARA
Pietro Stara dimora e lavora a Genova. Ha collaborato lungamente con il blog Intravino e ne ha uno proprio: vinoestoria. Ha scritto un libro di storia del vino, Il discorso del vino: origine, identità e qualità come problemi storico-sociali per i tipi della Zero in Condotta di Milano e ha collaborato con alcune riviste cartacee: «SpiritodiVino», «Millevigne», «Pietre Colorate».
Insegna Antropologia nel Master di Wine Culture e Communication presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (Bra).