A Lipari sbarchiamo il 29 luglio, in un caldo torrido. Siamo nell’isola maggiore dell’arcipelago eoliano. Arrivando dalla quieta Stromboli, auto-free, ci appaiono innaturali il frastuono dei motori, i gas di scarico, i rumori molesti che invadono la zona del porto.
Come sarà stato qui nel 1927, mi chiedo.

Era novembre, quando Emilio Lussu ci sbarcò, condannato al confino per avere ammazzato uno squadrista che con altri fascisti tentava l’assalto alla sua casa. “Lipari a vederla da lontano, è un incantesimo” scrisse l’azionista libertario sardo ne La catena in cui racconta della straordinaria fuga dall’isola con Carlo Rosselli e Fausto Nitti, a nuoto verso il largo dove li recuperarono compagni antifascisti su una barca. Era in questi stessi giorni dell’anno 1929, il 29 luglio. Un altro mondo. I clacson mi riportano ad oggi.

Immergendoci nell’area pedonale le cose non migliorano: negozi accalcati uno dietro l’altro offrono ai turisti ogni genere di merce, locale o globale, come irrimediabilmente accade in ogni località balneare. Il caldo soffocante aumenta e nemmeno una granita al caffè ci aiuta. Non era nemmeno molto buona. Ghiaccio troppo granuloso. Cominciamo male, mi dico.

Noleggiamo uno scooter e ci diamo alla fuga. Via. Verso l’altopiano. Il rumore si affievolisce e poco dopo l’aria pesante si dirada. In dieci minuti siamo in un’altra isola, a Quattropani. Il toponimo indica quattro piani, un altopiano (circa 300 metri sul livello del mare) in cui da sempre ha fiorito l’agricoltura. Ad un tratto un’abbondanza di cartelli insolita ci indica un’azienda vitivinicola.

Seguiamo le indicazioni, arriviamo ai vigneti, rigorosamente muniti di cartello d’identità anche loro. Gente di fuori, ci dice un signore che sta camminando sulla stradina sterrata in cui ci siamo infilati, ha comprato questa terra. È tanta roba, quasi 20 ettari in tutto, dice. Cavolo, mi dico, è la tenuta più grande di tutto l’arcipelago. Forse nessuno qui ha mai avuto 20 ettari raggruppati insieme.

Il ritorno del latifondo? Restiamo sorpresi nel vedere viti giovani impiantate ad alberello, fitte fitte, un alberello alto, con un palo anch’esso alto nel mezzo. Ricerca della tradizione a tutti i costi? O cosa? Sono biologici i vini, aggiunge il nostro locale interlocutore. Guardo la terra. Il suolo è pelato, senza un filo d‘erba, nemmeno secca. Mah.

Procediamo sulla strada che si inerpica e incontriamo i lavori in corso per una cantina di grande investimento, collocata con i suoi – a occhio- 1800 metri cubi di cemento, con spiazzo e parcheggio annesso. Tutto proprio in cima a Quattropani. In posizione di dominio. Qualcuno che gira intorno al cantiere ci dice che stanno portando le attrezzature per la vinificazione che fino ad oggi si faceva in Sicilia. Dicono che i vini hanno già avuto numerosi premi e riconoscimenti. Che vengono venduti in Giappone, Australia, Stati Uniti. Ci ricordiamo. A questo accenno internazionale, ora ricordiamo.

Li abbiamo assaggiati, quei vini, l’anno scorso. In un ristorante – non il migliore- di Stromboli. Due vini enologicamente perfetti, studiati per un gusto internazionale, senza dubbio. Guardo e penso soltanto “Santo marketing e santi enologi che ogni cosa possono e trasformano in profitto. Ma tutto questo che c’azecca con la terra?”. No. No. No. Tre volte no.

Penso a Gino Veronelli. Al vino che ha senso solo se espressione di un contesto. Un vino che sia strumento per far vivere la terra e la cultura, oltreché fonte di reddito. Un vino che racconti esistenze, contraddizioni e navighi verso il futuro. Noi cerchiamo quello. Raro e prezioso. E allora giriamo la testa dall’altro lato, mentre proseguiamo verso le vecchie cave di caolino, dal cui costone si gode di una vista mozzafiato sul mare blu cobalto. L’Etna, accennato, si staglia in lontananza nel cielo appesantito dal grande caldo. Pausa. Ridiscendiamo.

Ora ci sono case ed una campagna varia, a tratti abbandonata, a tratti viva. Un cartello ci indica un altro produttore di vino. Lo seguiamo. Caldo, cicale, silenzio pieno di profumi. Non c’è citofono o campanello ed il portone è amichevolmente aperto. Chiamiamo. Più volte. Un vecchio noce ci scruta immobile sulla sinistra. Passiamo sotto un pino marittimo ultracentenario. Fa capolino nel cortile una signora dai modi riservati e gentili. Ci accoglie con un sorriso. Scambiamo due parole.

Questa è l’azienda della sua famiglia e siamo proprio di fronte alla cantina, che ci mostra. La signora Anna si gira e con il braccio indica l’orizzonte, verso il mare. “Vi presento Alicudi e Filicudi”.I due piccoli vulcani sono davanti a noi, sospesi tra cielo e mare. Quando si dice il paradiso. Questo è un posto giusto, penso d’istinto.

Una vecchia casa ben tenuta e curata, di tipica struttura eoliana coi muri bianchi e la scala esterna, circondata da un piccolo agrumeto, fichi ed olivi, una pergola d’uva, qualche fiore, agavi e aloe gigantesche. Rosmarino, salvia, lavanda e, dietro, dopo l’orto, e completamente integrate nel paesaggio, le viti, a spalliera bassa, come da più di cent’anni si usa da queste parti. Un vigneto fatto di piccoli appezzamenti posti in sequenza irregolare, discreto e tranquillo, come se qui avesse sempre alloggiato Non arriva a due ettari in tutto.

La storia di Creisa Vecchia cammina indietro moltissimi decenni e coincide con la storia della famiglia Costa, liparota da generazioni immemori. Ma chiariamo subito una cosa. Guardare al passato non garantisce nulla. Non paragoniamo questo podere a quello di un tempo, trovandolo pressoché intatto, per apologia identitaria, elogio delle radici e diffidenza verso il nuovo. Attaccarsi alle radici è sempre un limite, come dimostra ogni processo di balcanizzazione.

Qui a Creisa Vecchia tira un’altra aria. Perfino quando si parla del passato, lo si fa in un modo leggero, come regalando qualcosa. Si mantiene una traccia e si rinnova. Questo podere è vivo e vegeto. Integrato perfettamente con l’ambiente. Produce e progetta. Senza piani marketing ma con la solidità di chi cammina la terra e la ama.

Oggi sono Anna e Lorelisa Costa a vigilare sulla casa e sulla campagna. Ma va detto che Enrico, compagno di vita e di ideali di Lorelisa, ci ha messo molto. Idee, passione, impegno. “Perché lui si è innamorato di mio padre e di questo posto, mica di me” scherza Lorelisa. Enrico ti comunica la sua passione con una parlantina asciutta e veloce, da rigoroso ingegnere quale è. Sì, ingegnere. “Ma per noi le vigne”, dice Lorelisa, “non sono un hobby. Sono una storia che continua”.

È vero che loro tre hanno avuto ed hanno altre professioni. Lorelisa è linguista ed insegna a Tor Vergata. Anna è stata maestra per molto tempo. Enrico è un ingegnere, già nel Centro Sudi della Fiom, è da sempre impegnato anche in ambito socio-politico. È vero che loro vengono qui a periodi e a periodi vivono a Napoli e Roma. Ma cosa conta?

Che questa sia casa loro è evidente quando ti siedi nel patio a chiacchierare in questa giornata calda e ti viene offerta una brocca di acqua gelata, con limone del giardino, menta e verbena appena raccolte. Alzi la testa e vedi penzolare i grappoli ancora verdi della racina, come dice Lorelisa in siciliano facendoci notare il bellissimo prestito linguistico dal francese (racine). È casa loro ed è la loro campagna. Vissuta , preservata ma soprattutto mandata avanti.

Enrico ci ha pensato bene in questi quindici anni. Ha sistemato il vigneto che era stato di suo suocero, ha selezionato le varietà autoctone che meglio vi si adattavano. E poi ha voluto, testardamente, impiantare la Malvasia: che a Lipari non c’era. Le sorelle Costa non ricordano di averne mai visto viti.

Oggi la malvasia passita viene prodotta prevalentemente a Salina. La malvasia delle Lipari a Lipari non si fa. Meglio, non si faceva più. È stato Enrico Cecotti a (ri)portarcela, con un’operazione ampelografia ineccepibile, andando a chiedere gli innesti per le barbatelle a Malfa, nel cuore di Salina, “alla signora Anna De Maria che la malvasia la faceva da sempre “E noi la prendevamo da lei”.

La malvasia di Creisa Vecchia è semplice e pulita. Cambia ogni anno e racconta la storia della stagione e del terreno. Quella 2012 ha profumi leggeri di aromi mediterranei, sentori di rosmarino e sapore lieve di noce e di albicocca appassita. Per Enrico è stato faticoso. Rimettere in moto la vigna, riavviare la cantina. Imparare. Ma ce l’aveva dentro. Ci racconta della sua infanzia nella campagna alle spalle di Piombino, suo luogo di origine. Ricorda ogni dettaglio della vendemmia. Qui i Costa hanno conservato il vecchio palmento in cui si pigiava l’uva con la pressa manuale tradizionale delle Eolie, lubrificata coi i fichi d’India.

Oggi a Creisa Vecchia funziona una piccola cantina in cui non manca nulla per fare un vino buono e stabile. Ci sono le botti di acciaio, c’è la pressa idraulica, c’è un sistema semplice di controllo della temperatura, ci sono le attrezzature per un imbottigliamento su scala ridotta, le ultime arrivate (i Costa sono i soli, ad oggi, a mettere in bottiglia il proprio vino sull’isola). Per la vinificazione si utilizzano dei lieviti in avvio di fermentazione e poi una quantità molto bassa di solfiti. A volte un po’ di acido tartarico. Filtri a cartone. In vigna? Trattamenti basici: rame e zolfo in prevalenza. Rare irrigazioni e solo in emergenza. Sovescio. Tutto qui.

La siccità in crescita nelle ultime estati (cambiamento climatico in vigneto!) fa patire molto le piante e si vede. Ma la vite è coraggiosa. Le sue radici scavano strade sotterranee alla ricerca anche di una sola goccia. La vite resiste, in qualche modo. E il vino si fa. Anche Creisa Vecchia resiste e progetta.. Oltre alla malvasia, ci sono altri due vini, uno rosso, da uve Nerello mescalese e Nero d’Avola, ed uno bianco, da Inzolia e Cataratto (nella varietà detta castellaro dal nome di una microzona di qui). Uve di queste terre, ben acclimatate. Vini diretti e senza fronzoli. Piacevoli.

Troviamo intrigante il rosso, dal colore tenue, profumato di gelsi, asciutto e fine. Ottimo, lievemente raffreddato, con il tonno fresco scottato con la cipolla. Il bianco 2012 ha colore giallo paglierino (senza essere stato sulle bucce), inizialmente scontroso, regala poi una bella acidità e sapori vegetali che bene sposano piatti di pesce e anche verdure cunzate possibilmente anche con i capperi locali, ormai quasi una rarità. Ogni anno i vini hanno sfumature diverse. Costano 4,50 euro a bottiglia. La malvasia passita costa 18 euro a bottiglia.

Sono tra quelli che Veronelli avrebbe chiamato vini contadini. Vini immediati, senza elaborazioni particolari, senza aggiustamenti enologici spinti, senza progettazioni teoriche alle spalle. Potrebbero essere migliori? Forse. Comunque sono autentici. Si, un enologo a Creisa lo sentono, ci parlano, ma alla fine è solo per avere un raffronto tecnico, che ci vuole. E non per decidere a tavolino il da farsi in vigna ed in cantina. Non che Enrico si lasci andare allo spontaneismo vitivinicolo. Un ingegnere potrebbe mai farlo? Lui segue e controlla, analizza, impara e, ci dice, a volte anche sbaglia. Ma va avanti. Con una benefica testardaggine.

A malincuore lasciamo Quattropani, cercando la vecchia chiesetta che dà il nome all’azienda.
Ci avviamo al porto ed incontriamo nuovamente i luoghi in cui sembra che queste terre siano decisamente troppo schiacciate sui guadagni di un turismo agostano. Lasciamo casa Costa con la netta sensazione che sia possibile anche a Lipari un’agricoltura integrata con il paesaggio, la cultura, la storia e rivolta la futuro. Una piccola (ma grande) vitivinicoltura coi piedi per terra. Che dà il suo piccolo contributo ambientale, sociale, antropologico. Per fare un vino magari poco trendy, ma buono. Buono di per sé, ma anche perché fatto coltivando la propria terra con lo sguardo rivolto alla Terra, il Bene comune.

Simonetta Lorigliola