Tutte le volte che leggo o sento parlare di prodotti a kilometro zero, mi riappare un documentario visto in tivù nel quale una donna di uno sperduto villaggio dell’estremo oriente (scusate l’imprecisione, ma è un ricordo lontano) si reca al mercato per vendere due bei polli; ma al mercato vicino al suo villaggio i polli vengono pagati poco e allora quella donna parte per un lungo viaggio con uno scassatissimo autobus, che dopo una giornata intera la porta in un mercato dove i suoi due polli vengono ben pagati. Contenta e soddisfatta affronta il difficile e faticoso viaggio di ritorno, sempre sullo sgangherato autobus perché in tasca ha qualche moneta in più.

E quanto più la questione del kilometro zero si fa insistente, sempre più vivo è il ricordo di quella donna e dei suoi polli. A queste arcaiche civiltà contadine la questione del kilometro zero non importa nulla; per loro è vitale riuscire a realizzare un buon guadagno, così da poter provvedere alla propria famiglia. E se quei due polli in quel mercato vengono pagati di più, vuol dire che lì c’è gente che sa apprezzare meglio la loro bontà e , quindi, il loro valore.

Fermo restando che non alimento quell’inutile via vai di autoarticolati che trasportano acqua in luoghi dove l’acqua non manca, perché ormai da alcuni anni bevo solo la buonissima acqua di Chateau du Roubinette, non riesco a convincermi della bontà di questa moda un po’ oscurantista e dogmatica. In un mercato contadino di La Morra ho acquistato il peggior aglio che abbia mai provato; in un mercatino vicino a casa ho acquistato un pessimo formaggio di pecora, che neppure ghiri ricci e cornacchie hanno apprezzato.

Continuerò a usare l’aglio rosa di Lautrec e lo Strachitunt della val Taleggio; mangerò il Radicchio Rosa di Gorizia e la scarola o il radicchietto del Franchino, il mio ortolano di fiducia; andrò sempre alla ricerca dei carciofi di Sardegna e degli asparagi di Albenga, della carne del Limousin o del fassone piemontese e persino del manzo texano, dei pomodori di San Marzano e dei ciliegini di Pachino (magari quelli prodotti dai Planeta, dolcissimi come caramelle); le vongole di Goro e gli scampi di Mazara, le alici di Cetara e i capperi di Pantelleria o Favignana. Non parliamo poi del vino, che amo da qualsiasi angolo d’Italia provenga.

Non voglio tediarvi oltre, ma credo sia chiaro che la qualità val bene un viaggio, e ben lo sapeva la caparbia contadina d’oriente. C’è molto da discutere, invece, sul come viaggiare e come far viaggiare le merci. Ma questa è un’altra storia.

G.B.

I commenti a Kilometri… Zero:

Finalmente qualcuno che la pensa come me su sto piffero di chilometrozero. Sará questione di etá…

Carlo Merolli

Mi associo in pieno a quanto esposto nell’articolo KM 0. Come produttore di vini e olio e come consumatore di tutto il resto, secondo me vale sempre la possibilità e la volontà di scelta giacchè ognuno è artefice del proprio destino, quindi lasciamo liberi sia il consumatore che vuole appendere l’abito all’attaccapanni che preferisce, sia il produttore che se non riesce ad attirare il consumatore a lui vicino perché produce meglio ed a miglior prezzo. Certo, ragionando per estremi, meglio sarebbe se la produzione potesse esprimersi al meglio in ogni zona e per ogni prodotto, ma il radicchio trevigiano viene da lassù, il teroldego lo fanno in Trentino, il limousine dovrebbe essere roba piemontese , e allora si entra nelle canne. Né al giorno d’oggi si può chiedere di appiattire il gusto, limitare le scelte, altrimenti si andrebbe a finire come nel mondo degli Hamish, rispettabilissimo per carità, sotto certi aspetti anche invidiabile, ma certamente un po’ lontano dalla realtà. Ma qui si sta per entrare in un mondo ed in discorsi troppo complicati e pericolosi, per cui è meglio passare oltre.

Riccardo Arrigoni

Considerazioni sacrosante, che nessuno di buon senso e al contempo amante delle cose buone, credo, penserebbe di contestarle. La reazione che ha generato l’idea del Km zero, ritengo sia nata dall’enorme dismisura di alcune prassi e strategie commerciali, che hanno rivoluzionato in maniera, credo sì, inaccettabile, opportunità di coltivazione e di commercializzazione. L’esempio portato da Petrini dei garofani di Alba e dei peperoni d’Olanda credo sia eloquente. L’uomo spesso non ama il creato e il buon senso, e neppure le buone cose.

Andrea Kihlgren

Caro Gigi, lo dice a noi produttori di vino? I concetti da lei espressi sono chiarissimi e spero condivisi da tutti.

Lorenzo Zonin

Anch’io sono combattuta e il dibattito sul Km zero, in un’economia globale, diventa problematico. Certo mi rifiuto di comprare le ciliegie a Natale, ma vendo i vini per l’80% all’estero, se i nostri consumatori abbracciassero integralmetne la filosofia del Km zero, potrei vendere un migliaio scarse di bottiglie nel circondario del Chianti, anche con fatica, perchè dalle mie parti tutti si fa vino. Poi, proprio adesso sto stilando la lista della spesa per il brunch che sto organizzando domenica per gli amici, per festeggiare i premi avuti dalla nuova annata dei nostri vini, anche le tre Super Stelle della Guida Oro di Veronelli. Ho promesso ai miei ospiti un pranzo ecosostenibile, nel senso che le verdure sono del mio orto, i formaggi li comprerò dal mio dirimpettaio, le cui pecore a volte mi pascolano nel campo, i salumi sono di un’azienda vicina. Nel menù però ci sarà anche il cous cous ai frutti di mare, amato da molti amici, e la mia mitica caponata siciliana. E allora? I capperi li compro quando sono a casa in Sicilia, il cous cous ritengo di averlo nel mio DNA, basterà tutto ciò a fare ammenda o mi devo sentire in colpa…. ?

Antonella D’Isanto

Mi trovo in buona parte d’accordo con Lei sull’argomento ” Km 0”, per quei prodotti di qualità, che hanno una loro storia e portano con sé anni ed anni di esperienza dei produttori, ma …. Come ben sappiamo anche i nostri ristoratori spesso vanno a caccia del prezzo basso, di conseguenza ci fanno mangiare i pomodori Olandesi, il pesce dell’Atlantico o dell’Oceano Indiano, non certo per darci la miglior qualità!! Ecco che a questo punto una maggiore sensibilità sui prodotti locali, può giovare alle risorse della zona e anche alla salute dei consumatori. Questa iniziativa, nata per sensibilizzare, rischia effettivamente di diventare solo uno slogan e come tale tutti ne parlano ma pochi lo utilizzano, anche per quei prodotti che sono a portata di mano e qualitativamente validi per freschezza e per caratteristiche, ma aimè hanno il difetto di costare qualche centesimo in più dell’importato dall’altro capo del mondo ……. Un caro saluto.

Annalisa Terradonna