Sull’equivoco secolare fra il Razzese delle Cinque Terre e il Rossese di Dolceacqua.

Negli ultimi dieci anni sono stati condotti importanti studi storici sul Rossese di Dolceacqua, a partire dai libri pionieristici di Alessandro Carassale per approdare, oggi, al volume collettaneo sulla viticoltura ligure dal medioevo all’età contemporanea “In terra vineata.”

Vi è, però, una questione di non poco conto: diversi testi (molti dei quali sulla rete), repliche di repliche di errori, riportano, in maniera non chiara né distintiva, consistenti riferimenti al vitigno Razzese di Levante, a bacca bianca, confondendo la sua storia, attraverso un gioco di sinonimie, con quella del Rossese di Dolceacqua, a bacca nera, il Rossese di Campochiesa (nell’albenganese), a bacca rossa, e, in ultimo, con il Rossese bianco di Ponente.

Vedremo come, in epoca medievale, vi siano scarsissimi rimandi ai vitigni così come ai vini, spesso designati con nomi afferenti ai luoghi di produzione. Per quanto riguarda, poi, l’area di Ventimiglia, mancano non soltanto i riferimenti alle uve ed ai vini, ma anche ai loro caratteri descrittivi, tra cui il colore. Nomi con assonanze toniche con altri nomi, lettere dal suono dolce che prendono il posto di altre lettere e, infine, permanenze di errori storiografici (politici) che poggiano il loro essere nell’acquisizione di un improbabile passato blasonato, come se questi fosse premessa e garanzia di un presente luminoso e di un futuro brillante, hanno contribuito alla creazione dell’equivoco. La storia si è fermata: tutto, indistintamente, è stato chiamato Rossese, a Levante come a Ponente.

ALL’ESTREMO LEVANTE LIGURE.

Mare e vigneti alle Cinque Terre

I due autori più rilevanti, che hanno disquisito sui vini delle Cinque Terre, sono Giacomo Bracelli, cancelliere della Repubblica di Genova e suo storiografo, morto intorno al 1466, e Flavio Biondo da Fori, contemporaneo del Bracelli, con il quale egli è in corrispondenza nel 1448. Nel 1418 il Bracelli accenna alle Cinque Terre nella sua prima descrizione della Liguria, chiarendo che ivi si producono i vina vernacia noncupata, rocesi et amabilia: «Riomazorium quidem post Portumveneris situm est iuxta mare, cingitur muro; solum adeo creatum quod vina, vernacia noncupata, rocesi et amabilia, gignit».

Un secolo più avanti, Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III, pontefice romano (1534 – 1559), che ci ha lasciato gli appunti in cui descrive i 53 vini “giudicati da Papa Paolo III e dal suo bottigliere Sante Lancerio”, tratteggia in maniera chiara ed inequivocabile il vino levantino delle Cinque Terre: «Vino Razzese: Viene dalla Riviera di Genova et il meglio è di una terra detta Monterosso, et è vino assai buono. Et è stimato assai in Roma fra li Genovesi, come fra li Venetiani la Malvagìa. Ne vengono in Roma piccioli caratelli.

A volere conoscere la sua perfetta bontà, bisogna che sia fumoso e di grande odore, di colore dorato, amabile e non dolce. Tali vini non sono da bere a tutto pasto, perché sono troppo fumosi e sottili. Di tale vino S. S. (il cardinale Ascanio Sforza cui la lettera è dedicata) non bevevo, ma alcuna volta alle gran tramontane faceva la zuppa, ovvero alla stagione del fico buono, mangiatolo mondo et inzuccherato, gli bevevo sopra di tale vino, massime del dolce et amabile e diceva essere gran nodrimento alli vecchi. In questo luogo dove fa tale vino, usano farlo dolce sopra la vite, quando l’uva è matura, col pigiare il racemolo e poi lo lasciano attaccano alla vite per otto giorni, e còltolo fanno vino buono e perfetto.»

Così pure Andrea Bacci, nominato nel 1587 archiatra (medico personale) di papa Sisto V, ricorda il vino ligure di Levante, le squisite vernacce e il razzese delle Cinque Terre, un bianco liquoroso che, sotto il calore del sole matura sin dai primi giorni di luglio. Allo stesso tempo e modo, il Bacci cerca di fornire un etimo al nome “Razzese” operando una conversione fonetica nascosta, da doppia “zz” a doppia “ss”, e lo associa al Monte Roseo da cui avrebbe tratto un colore “rosato” in tarda maturazione:

«Razzese et a Monte Roseo in Liguria. Hoc vulgari nomine verisimilis mihi coniectura sit id vini genus Roseum primo a solo patrio et rosae seu a vernis illis colonis cognominatum, vel, si cultus rationem sequamur, quasi racemosum videntur iidem incolae id ipsum vinttm ac ipsorum pariter vites significasse, quibus praecipue vineta sub praedicto Monte Roseo ac aliis Quinque Terris abundant»

Un altro noto agronomo fiorentino del Cinquecento, Giovan Vittorio Soderini, nel suo “Trattato della coltivazione delle viti e del frutto che se ne può cavare”, racconta i metodi in uso al suo tempo per produrre l’amabile e il razzese: «Quegli, che nella riviera della Spezia fanno il razzese e l’amabile, fanno l’uno e l’altro vitigno medesimo, percioché, volendo fare l’amabile, quando l’uva è matura storcono il picciuolo là dove egli sta attaccato alle viti a tutti i grappoli, havendoli spampanati bene che il sole vi batta sopra, lasciandoli così per quindici giorni; dippoi li coggono a far l’amabile. E volendo fare il razzese, quando è pur matura, la spiccano dalle viti senz’altro, e così si può fare a chiunque tu vogli vitigno per fare il vin dolce, senz’altra manifattura».

La Pomona di Gallesio.

Agricoltore, magistrato, deputato, pubblico funzionario, diplomatico, Giorgio Gallesio (Finale Ligure, 1772 – Firenze, 1839) si dedica, dopo avere lasciato il lavoro a quarantacinque anni, ad una impresa editoriale imponente: la compilazione e la pubblicazione di un’opera pomologica volta a descrivere e a raffigurare ‘le varietà più squisite degli alberi da frutto coltivati in Italia’. Nelle quarantuno dispense che compongono la Pomona Italiana si susseguono centocinquantasei articoli pomologici, a loro volta formati da una tavola incisa su rame ‘a mezzo tinto’ e colorata a mano e da una dettagliata descrizione della corrispondente varietà, stilata dallo stesso Gallesio sulla base di ripetute ed originali osservazioni tassonomiche. Leggiamo ora cosa dice Gallesio a proposito del Rossese:

«Il Rossese è la vite classica della Liguria orientale: è un vitigno vigoroso che produce bene in qualunque modo si tenga: Ha i tralci di color di marrone, divisi in nodi spessi e rilevati, le foglie picciole, leggiermente laciniate in tutto il loro giro, bianchiccie al di sotto ma senza lanugine, e tinte al di sopra di un verde così chiaro che le fa distinguere a colpo d’occhio da quelle di tutte le altre varietà. I grappoli sono piccioli, lunghi, spargoli, a racemoli eguali e regolari. Gli acini sono minuti, tondi, di grossezza ineguale, spesso falliti, e la loro buccia, che è bianca, si tinge nella maturità di un rosso sfumato che ha dato il nome al vitigno. Il vino è bianco, sottile, secco, spiritoso e di serbo, e se la vite è in luogo aprico, somiglia ai vini del Reno. Quando se ne limita la fermentazione prende un pizzico che piace a molti, e quando è concentrato acquista uno spirito che lo avvicina al vino di Madera. È impossibile il rimontare al di là di tre o quattro secoli per mettere insieme la storia dei nostri vitigni. Si deve credere che quelli che si coltivano al presente nella Lunigiana e nella porzione di Liguria che vi confina, vi esistessero già dai tempi di Plinio; e si può supporre che il Rossese entrasse fra le uve che producevano in quei tempi i vini celebrati di Luni e della Liguria.»

Poi, a questo punto, Gallesio cambia prospettiva.

Il nome e l’equivoco.

Dopo aver lungamente trattato del Rossese di Levante, ovvero del Razzese bianco delle Cinque Terre, Gallesio introduce nel discorso, probabilmente, il vitigno “Rossese bianco” del Ponente, varietà ancora oggi presente sia nella zona del savonese che dell’imperiese, senza descriverne le caratteristiche ampelografiche. Gallesio, in questo modo, concede spazio ad una possibile confusione sinonimica tra il Razzese (rossese) bianco delle Cinque Terre, il Rossese Nero e il Rossese Bianco entrambi della zona di Ventimiglia. Il problema di fondo è che i testi storici non specificano, se non in forma blanda, il tipo di vitigno di provenienza e, ancora più spesso, neppure il colore del vino di riferimento. Ma, allo stesso tempo, molti scritti parlano di vino Rossese riferendosi, appunto a tipologie di vini molto differenti. Questo errore di fondo, reiterato nei secolo porta, ancora oggi, a fraintendere, anche volutamente, i riferimenti a vitigni e vini dissimili.

Ma torniamo al Gallesio: «Nè la coltura del Rossese si limitava alle sole Cinque Terre. Era estesa da tempi remotissimi a tutta la Liguria, e specialmente alle belle colline di Savona, conosciute anche al presente per i loro vini bianchi, che riuniscono al secco dei vini francesi la fragranza dei vini di Spagna e una leggierezza che gli rende proprj a pasteggiare. L’Avv. Giuseppe Nervi, distinto cultore delle Lettere in Savona e degno genero dell’illustre antiquario Belloro, mi ha fatto vedere diversi articoli nei libri di amministrazione di quella città del XV. secolo dai quali si conosce che il vino di Rossese, che si faceva in quel territorio, era in allora in gran pregio anche fuori della Liguria. In essi si legge che in data del 1416 la città fece regalo di una mezzarola di Vino di Rossese a Spinetta Fregoso, Signore di Savona, e ne è notato l’importo in L. 2. 10. di Gen. Un secondo regalo di questo vino si trova registrato sotto l’anno 1436 nella quantità di due mezzarole, che costarono L. 11. e che furono mandate a Gio. Batt. Fregoso, Capitano delle Galee Genovesi. Un terzo fu fatto nel 1487 a Giano Fregoso, personaggio appartenente alla frazione che governava in quei tempi la Repubblica di Genova, e un quarto, di quattro mezzarole fu mandato nel 1468 ai M. Sforza e Pasterola inviati del Duca di Milano.

Tutti questi regali, fatti da una città in allora potente a personaggi di tanto riguardo, provano che il vino di Rossese era tenuto in gran pregio anche dai forestieri, e che era considerato come un vino di lusso. Nè le sue qualità hanno cangiato col variar dei secoli: esso è ancora al presente un vino squisito; e potrebbe stare al confronto dei migliori vini di Europa, se i nostri agricoltori, più solleciti della qualità che della quantità, coltivassero la vite con più riserva, e dessero alla fattura del vino le cure e le diligenze che vi impiegano gli oltramontani. Le belle colline di Albisola, e quelle di Legino, così care al Chiabrera, sono sempre le stesse, e l’uva Rossese dei nostri giorni contiene come quella del XV. secolo, i principj di un liquore delizioso.» Soltanto in un altro paragrafo, nella descrizione dell’uva Vermentino, Gallesio stabilisce un nesso più preciso sulla natura provenzale del vino Rossese di Dolceacqua: «Il primo paese ove si trovi come uva classica è il territorio di Ventimiglia. A dir vero essa non abbonda moltissimo in quel paese, perché vi regnano le uve nere, e fra queste il Rossese di Dolciacqua, uva particolare da cui si cava un vino da pasteggiare asciutto che ha dell’analogia col vino di Nizza.» Il riferimento alla natura provenzale del vitigno trova oggi dei riscontri più che certi e allontana definitivamente Il Rossese di Dolceacacqua da possibili e improbabili congetture di somiglianza con il Razzese di Levante.

Razzese quindi, non come sinonimo di Rossese, ad indicare un improbabile riferimento al colore delle uve, ma come rimando ad una freschezza e leggerezza spiritose: «Era il Gallesio a paragonare il razzese coi vini del Reno e potrebbe aver enunciato tale opinione perché sentiva la freschezza e la leggerezza spiritosa tipica dei vini del settentrione invece della pesantezza dei soliti vini grossolani dei sud di una volta. Ecco perché la parola razzese al mio parere risale a it. razzare ? gerrm razzjan come sostengono le numerose attestazioni di (vino) razzente o di razzare dei vino. In fondo tutte le forme riportate sono tipiche per l’Italia settentrionale se non ligure. Il passaggio da ra- al ro- velarizzato secondo Rohlfs è un tratto caratteristico che si trova in Piemonte sud-occidentale (prov. Cuneo) e certe parti della Liguria.. Anche il risultato di zz/z (= tts / ts) è un esito che si è mantenuto nei dialetti montani della Liguria, ma del resto nei dialetti montani z (ts) è passato per lo più a s. La forma palatale rocese si
potrebbe essere sviluppata in analogia alla -k- intervocalica davanti a vocale palatale come in Liguria e in alcune zone del Piemonte. Del resto anche il Rohlfs sostiene che nei testi antichi dell’Italia settentrionale non c’è una rappresentazione grafica unitaria, per cui talvolta viene scritto s, talaltra z oppure x. La forma moderna rossese forse è un derivato da it. ‘rosso’ visto che oggi viene coltivato soprattutto il Rossese Nero.
»

ALL’ESTREMO PONENTE LIGURE.

Nell’Archivio di stato di Genova si conservano due cartolari notarili, i quali contengono quasi un migliaio di atti, per la massima parte rogati a Ventimiglia, dal notaio Giovanni di Amandolesio, fra il 1256 e il 1264. Notevole è sin da quell’epoca la produzione di vino attestata anche se, al contrario di quanto si verifica nella documentazione più tarda, soprattutto a partire dal secolo XV, di questi vini non si dà mai non soltanto la specificazione tipologica particolare, ma neppure quella generica: bianco, rosso, rosato… Tutt’al più si indica, anche se di rado, l’area vinicola di provenienza: «I vigneti si estendevano nella valle Roia, in Vallecrosia, nella valle Nervia, spingendosi da un lato fino a Mentone, dall’altro verso Taggia e l’odierna Imperia. Alla metà del Duecento si è in pieno fervore di espansione delle culture, soprattutto di quella viticola, attraverso il disboscamento ed il sistema di concessione delle terre ad plantandum e ad medium plantum. Normalmente la coltivazione della vite era associata a quella del fico ed anche di altri alberi da frutta. Il vino a Ventimiglia era tenuto in particolare considerazione, tanto da assumere, talvolta, la funzione sostitutiva della moneta. Botti di diverse dimensioni e diverso valore venale facevano parte della normale suppellettie delle case di Ventimiglia e del suo territorio, se appena le persone erano di condizione non infima. Erano botti di doghe di legno (castagno o rovere), ad indicare le quali si trova negli atti ora la voce veges ora la voce hatis, che talora appaiono ben distinte nel significato e talora sono invece usate come sinonimi.» L’unico riferimento al vino ventimigliese non rivela le uve di cui è composto, ma soltanto la terra vienata che le dimora, detta Mototium, gestita da Dionigi Fiore, “pro metretis (38,84 litri) quatuordicim vini et una moscatelli”. Ventimiglia è l’epicentro della contrattazione per la compravendita del vino nuovo, che solitamente avviene nei mesi di settembre e di ottobre, destinato sia al consumo locale che all’esportazione via mare nella direzione di Savona, di Arenzano, di Voltri, di Genova, di Sestri Levante e di Chiavari: «Il traffico del vino costituiva comunque uno dei principali commerci di esportazione, se non addirittura il principale. Era un traffico che si effettuava quasi esclusivamente via mare, su imbarcazioni appositamente attrezzate e che in molti documenti genovesi del secolo XIII erano specificamente definite come “barche da vino”. Il commercio più intenso si svolgeva in direzione di Genova: il 14 settembre 1259, ad esempio, Fulcone Ganzerra, Nicola di Taggia e Jacopo Saonese presero a nolo un legno per il trasporto di 100 mezzarole di vino (circa 9.000 litri) da Ventimiglia a Genova in un unico viaggio, con l’impegno da parte dei proprietari dell’imbarcazione di fornirei contenitori. Non manca qualche caso di acquisto di vino ventimigliese da parte di uomini della Rivera diLevante —ad esempio Sestri —, per probabile esportazione in quel territorio: il che appare abbastanza singolare, dal momento che una ricca produzione vinaria non difettava sia a Chiavari sia nelle Cinque Terre. Qui si può davvero pensare ad una ricerca qualitativa oppure anche ad annate difficili per il luogo d’importazione.» Sui vini del Ponente, se non per ragioni commerciali sopracitate, non si hanno riferimenti storici precisi sino al non lusinghiero giudizio a proposito di un Rossese di località imprecisata, ma molto probabilmente dell’albenganese (Rossese di Campo Chiesa), servito dal vescovo di Savona ad ufficiale esattoriale genovese: «Andrea de Franchi Bulgaro, medico e umanista inviato nel 1425 dall’arcivescovo di Genova a riscuotere certe decime dal vescovo di Savona, fu blandito dall’inadempiente prelato con un ottimo pranzo e abbondanti libagioni. Quando Andrea ebbe portato a termine la missione ne diede relazione in versi genovesi all’arcivescovo, sottolineando la correttezza e la buona accoglienza del pastore rivierasco, ma anche la qualità non eccelsa di quanto gli era stato offerto delle sue cantine: “De’ ghe dea in firmamento / megio vin che no è roceise” (Dio gli offra in cielo un vino migliore del suo rossese).» Un altro riferimento al consumo dei vini del Ponente ligure è la caratata del 1531, in cui si rammenta che la podesteria di Triora produceva vini solo per uso interno. Occorrerà aspettare, alcuni secoli dopo, l’autorevole opinione di Gallesio che, tra il 1829 e il 1830, compie alcuni viaggi nella Liguria di Ponente diretti a visitare, partendo da Finale Ligure, tutta la costa occidentale fino a Nizza e oltre.

Il 30 di agosto Gallesio, nel volgere verso la cittadina di Mentone, passa per la zona di Ventimiglia, annotando l’intero parco delle uve che annovera alcune varietà tuttora esistenti e altre di cui si è perduta traccia. Del Rossese così narra: «colore rosso-carico, primaticcio; grappoli mediocri, informi, con acini preferibilmente uniti e mediocri, produce vino rossiccio-carico, dolce o brusco secondo che si vuole e preferibilmente spiritoso.»

Infine, nel 1964, Dalmasso e Mariano, in uno studio commissionato dal Ministero dell’Agricoltura sui principali vitigni presenti in Italia, indicano la presenza di un diverso Rossese a frutto colorato (che però non descrivono) in provincia di Savona, che troverebbe conferma nella distinzione del Rossese di Ventimiglia da quello di Campochiesa congiuntamente coltivati negli anni ‘60 su circa il 20% della superficie vitata del versante tirrenico della provincia di Savona.

Il Rossese viene descritto attraverso interessanti valutazioni di tipo qualitativo che distinguono le diverse varietà dei vitigni: «Il “Rossese” è uno dei vitigni che ha una sinonimia fra le più ingarbugliate, anche se non molto ricca di termini. E’, del resto, il caso comune a molti vitigni che prendono il nome dal colore dell’uva. Come per le “Bianchette”, per le “Verdee” per le “Negrare” (con tutti i nomi affini di “Negretti, Negrettini, Neirani”, ecc.), così per i vitigni il cui nome allude al colore dell’uva più o meno rossastra, se ne potrebbero citare numerosi, che nulla han di comune fra loro. Nel prezioso Saggio del Di Rovasenda oltre tre colonne sono dedicate ad un elenco di tali vitigni: e non si può dire che esso sia completo. Ma nel caso del “Rossese” di cui qui soltanto ci occupiamo, v’è qualcosa di più singolare: e cioè che sotto questo nome, sia da parte di alcuni dei più accreditati autori di opere ampelografiche, come anche nell’uso comune dei tecnici viti-vinicoli del secolo scorso, il none veniva generalmente
adottato per un vitigno (o per vitigni) a frutto bianco! […] Ripetiamo che qui noi ci occuperemo solo del “Rossese nero”. Ma resta ancora da chiarire un punto. Di Rossese a frutto colorato debbono esisterne almeno due: quello che si potrebbe dire di Albenga (Savona) e quello di Dolceacqua o di Ventimiglia (Imperia). Quale dei due deve considerarsi il vero Rossese? Noi riteniamo il secondo. E ciò per un motivo importante. Il vino Rossese ha ormai una sua fama consolidata, anche se l’entità della sua produzione è per ora molto limitata. Quello però che è ricercato come vino d’indiscutibile pregio è quello di Dolceacqua: pittoresco paese nei pressi di Ventimiglia, già ben noto anche per le sue colture d’uva da tavola tardive e da serbo (“Servant”). Anche il vino del “Rossese di Albenga” (Campochiesa), prodotto tra Finale ed Alassio, ha i suoi amatori: è vino robusto, alcoolico, ma non ha la finezza di quello di Dolceacqua. Comunque, trattasi di un vitigno differente, sia nelle foglie che nei grappoli (i quali
presentano colori molto variabili: da quasi neri, a rosso violacei a rossi, tipo Barbarossa, ma in terreni freschi essi rimangono quasi verdastri e solo con sfumature rosa).» Necessita qui evidenziare almeno due punti: il primo riguarda la piena cognizione dell’eleganza del Rossese di Dolceaqua, da cui la meritata fama. E la seconda, in riferimento all’uso del nome Rosssese, a indicare vitigni, al plurale, a bacca rossa e bianca, che dimostrano la non risolta e complicata sinonima d’uso in relazione ad uve e vini differenti.

OGGI.
Il Rossese (nero) di Dolceacqua, il Rossese bianco e il Razzese o Ruzzese che dir si voglia.

L’uva rossese di Dolceacqua

Oramai è stata appurata l’identificazione del ‘Rossese di Dolceacqua’ con il Francese ‘Tibouren’: anche se è difficile stabilire se la cultivar sia giunta dalla Liguria alla Provenza o viceversa. D’altronde esistono numerosi vitigni che coprono un areale mediterraneo piuttosto vasto, i quali prendono nomi diversi a seconda dei luoghi in cui hanno trovato dimora e che producono, a seconda dei terroir e delle pratiche viticole ed enologiche utilizzate, vini differenti, e, talvolta, molto differenti: ad esempio il “Cinsaut” franco-provenzale che corrisponde al ligure “Sinsòn” o “Uva Spina”; il Grenache che divine granaccia in Liguria, ma anche Alicante Nero, Tocai Rosso, Guarnaccia, Garnacha Tinta, Gamay, Cannonau, Cannonao (Lista internazionale delle varietà di vite e loro sinonimi 2013, OIV); Il Brusgiapagià (Bruciapagliaio) è risultato essere uguale al Rollo, vitigno iscritto nel Registro nazionale e diffuso in provincia di Genova e Savona, a sua volta sinonimo di Livornese bianca, cultivar toscana iscritta nel Registro come varietà diversa, e al Pagadebiti Corso.

In consonanza con quanto espresso da Ganzin, il vitigno ‘Tibouren’ viene introdotto nella regione Var (Francia del sud) nel tardo XVIII secolo. Oggi Il Tibouren copre circa 417 ha e viene utilizzato soprattutto per produrre una certa tipologia di vini rosati. Nonostante vi siano diversi omonimi del ‘Rossese’ soltanto quello di Dolceacqua è stato ufficialmente incluso nel database del catalogo nazionale dei vitigni. Gli autori di uno studio approfondito sull’identificazione delle cultivars Liguri rammentano inoltre che «un Rossese bianco (with white grapes) è stato identificato con il vitigno Grillo (turned out to correspond to ‘Grillo’), a speciality of Sicily, e quindi (si tratta) di un esempio di evidente attribuzione nominale erronea (and therefore an example of evident misnaming)». E continuano sostenendo che «The only white ‘Rossese’ (Rossese bianco) currently included in the Italian Catalogue is from Roddino (Piedmont); application for official registration of the white grape ‘Ruzzese’, another cultivar grown around Arcola (near Tuscany) is now under examination.»

Insomma, il Rossese di Dolceacqua è un grande vitigno del presente, che dà ampie potenzialità, in parte già concretizzate da alcuni produttori, di realizzare vini, come ebbe a dire qualcuno, «profumati, ariosi, longilinei».

L’uva rossese bianco della Tenuta Anfosso

La regione Piemonte, a proposito del Rossese bianco, afferma che « varietà ad uva bianca denominate Rossese erano ampiamente diffuse nel passato in Liguria (celebre era il vino prodotto nelle Cinque Terre) e in Piemonte nei dintorni di Alba e Mondovì. Attualmente la coltura del Rossese bianco qui descritto è limitata ai comuni di Sinio e Roddino in Alta Langa. Se ne è tuttavia trovato qualche vecchio ceppo con analoghi caratteri ampelografici in un vigneto delle Cinque Terre.» Si può supporre quindi che la varietà piemontese del Rossese bianco sia strettamente imparentata con la storia dell’antico e orami scomparso Razzese delle Cinque Terre. Sui vitigni in questione (Rossese bianco e Razzese o Ruzzese) sono state condotte accurate osservazioni ampelografiche, sia nei vigneti di origine nello Spezzino e ancor più nelle collezioni di Grinzane (CN) ed Albenga (SV). Ulteriori verifiche sono state condotte in vigneti collezione di Istituzioni pubbliche e private in Toscana e in Francia (INRA). Per
ciascun vitigno è stata condotta l’analisi del DNA, estratto da giovani foglioline, tramite l’analisi di marcatori microsatelliti (SSR). L’analisi è stata effettuata con un sequenziatore capillare ABI 3130 prendendo in considerazione 9 loci SSR di comune utilizzo internazionale. Al fine di investigare possibili sinonimie i profili genetici ottenuti sono stati confrontati con quelli disponibili nel database molecolare sviluppato dall’IVV-CNR e relativo ad oltre 500 distinti vitigni italiani e internazionali. (…)I vitigni Rossese bianco e Ruzzese posseggono ciascuno un proprio profilo allelico originale e vanno pertanto considerate cultivar distinte.»

Il Ruzzese, erede dell’antico, nobile, famoso e scomparso Razzese delle Cinque Terre, è stato iscritto nel 2009 nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite al fine di consentirne un utilizzo commerciale, nonché la sperimentazione colturale in ampie porzione del parco delle Cinque Terre: di buona vigoria, dotato di un pH energico grazie ad una superiore dotazione in acido tartarico ed una salificazione inferiore, ha fornito, negli anni sperimentali (2008-9) vini molto alcolici: «Ruzzese: Colore giallo paglierino con riflessi verdolini. Intensa percezione alcolica al naso, con intense note di agrumi, frutta dolce e salvia. In bocca il vino è tondo ed equilibrato, una buona vena acida regge bene l’elevato contenuto alcolico, morbido ed oleoso, sapido sul finale e persistente.»

La ricerca si cocnlude con un valutazione, che è anche uno sprone: «l’analisi sensoriale ha posto in evidenza le potenzialità del Ruzzese, l’ultimo iscritto nel Registro tra i vitigni liguri.»