«Oci de bissa, de basilissa, / testa de fogo ch ‘l giasso inpissa, / nu te preghemo: sbrega sù fora, / nu te inploremo, tuto te inplora; / móstrite sora, vien sù, vien sù, / tiremo tuti insieme, ti e nu / aàh Venessia aàh Venissa aàh Venùsia.
Occhi di biscia, di regina, / testa di fuoco che accende il ghiaccio, / noi ti preghiamo: erompi su, fuori, / noi t’imploriamo, tutto t’implora; / mostrati sopra, sali, sali, / tiriamo tutti insieme, tu e noi / aàh Venezia aàh Venissa aàh Venùsia».

È di Andrea Zanzotto questo Filò. Per il Casanova di Fellini. A Zanzotto, memore delle tradizioni contadine, che tramandano come nelle stalle delle barchesse si usasse “far filò”, ovvero chiacchierare e raccontare ai bambini storie e fiabe intorno al fuoco le sere d’inverno, Fellini affidò la narrazione in antico dialetto veneziano del suo film su Giacomo Casanova. Ed è proprio nelle carnevalesche scene iniziali che una folla eccitata invoca la taumaturgica emersione dalle acque del Canal Grande della terrificante testa infuocata.

Questo rito scellerato e sacrilego è stato trasposto in versione dionisiaca sull’isola di Mazzorbo, nella parte nord della laguna, dove nacquero i primi insediamenti lagunari dell’uomo. Su questa minuscola isola quasi appoggiata a Burano e Torcello (la Venezia Nativa), i fratelli Desiderio e Gianluca Bisol hanno fatto riemergere, più che dall’acqua che pure c’è ed è problematica, dall’oblio l’antica viticoltura di queste umide terre.

Assieme a Roberto Cipresso, conosciutissimo enologo veneto, è stato selezionato un vitigno localmente detto Dorona, lontano parente della Garganega, che su questa isola si era conservato in pochi esemplari. Il progetto prese progressivamente forma e si iniziò a moltiplicare la Dorona una volta ripulita dalle virosi del tempo; fu la volta di piantare il vigneto all’interno di un antico clos, cinto da mura in rossi mattoni e sorvegliato e protetto da un campanile del tutto simile, anche se più ridotto, a quello di San Marco. Dopo lunghe e minuziose osservazioni, riflessioni e studi si scelse di vinificare in rosso queste uve dorate, per estrarre dagli acini non solo i più fragranti afrori della polpa, ma anche le più recondite strutture gustative della buccia.

I mastri vetrai di Murano forgiarono una spessa e severa bottiglia di vetro scuro sul cui fianco posero “a fuoco” le rare sfoglie di oro zecchino che la famiglia Berta Battiloro ancora realizza a mano. Del 2010, primo millesimo di Venissa, sono state prodotte poco più di 4000 bottiglie da 0.50 l, mentre di Venissa 2011 sono nate 3911 bottiglie da 0.50 l, 188 magnum, 88 jeroboam e 36 imperiali, tutte con numerazioni incise con bulino sulle bottiglie.

Dell’annata 2010 scrisse a suo tempo Andrea Bonini. Io, invece, voglio descrivere il prezioso aspetto di Venissa 2011, Igt Veneto, di colore giallo oro con leggeri riflessi ambrati e bagliori di topazio; il suo profumo si fa concreto con la mela cotogna ed un pizzico di tamarindo ed un nulla di agrumi canditi; ma poi prende a veleggiare lieve verso l’alto con impressioni vegetali e balsamiche di menta e rosmarino per poi curvarsi e ricadere placido su cuscini di spezie con cardamomo e coriandolo tra fiori essiccati e fieno. Al gusto mostra con voluttà le sue più intime sfaccettature che ripercorrono i flutti dell’olfatto sorretti da una freschissima ed agrumata acidità ed un fittissimo tessuto tannico di morbida fattura; ancora prolunga la sua persistenza con vaga liquerizia, scorza di cedro e un pizzico di pepe.

Ma questo è un vino che vive fuori dal suo tempo e dal suo spazio, troppo breve il primo troppo angusto il secondo, e sembra essere destinato a precipitare nei caveau dei collezionisti. Noi cercheremo di opporci invocando: “tiremo tuti insieme, ti e nu / aàh Venessia aàh Venissa aàh Venùsia”.

Gigi Brozzoni