Una lettera a Francesca Vajra
Cara Francesca, mi scuseranno i tuoi fratelli Giuseppe e Isidoro se mi rivolgo direttamente a te, ma con te ho parlato un po’ di più, ci siamo scambiati più opinioni e condiviso alcuni momenti di riflessione culturale. In sostanza mi pare di avere un po’ più di confidenza con te e quindi mi sento meno imbarazzato a scriverti questa lettera aperta.
Per prima cosa volevo complimentarmi con voi tutti per la scelta coraggiosa che hanno fatto i vostri genitori nello scommettere su di voi, nel darvi fiducia per gestire i rapporti con Luigi Baudana, e per l’ardire che avete avuto voi raccogliendo questa sfida fino a farla diventare un manifesto emblema della vostra crescita, culturale prima che professionale.
Il Barolo Luigi Baudana 2009 che mi hai inviato, purtroppo, non è giunto in tempo per essere inserito nella nuova edizione della Guida Oro I Vini di Veronelli 2014, per cui compariranno i simboli e i dati relativi al vino del 2008 assaggiato lo scorso anno. Ma proprio questo inconveniente mi ha spinto ad un piccolissimo azzardo, ad una variazione delle regole e degli usi che adottiamo nel redarre questa rubrica quotidiana, e ho pensato di chiedere ad Andrea Bonini di commentare pure lui questo stesso vino.
Debbo confessare che stavolta non si è trattato di un canonico assaggio, perché questa bottiglia me la sono bevuta a tavola in compagnia di mia moglie; anche se non avevamo un cibo particolarmente ricercato, scambiandoci le solite quattro chiacchiere che si fanno a tavola, la bottiglia è presto finita. Così, senza accorgercene; senza sforzi e senza impegno.
Tangibili, invece, la soddisfazione, il piacere, la gioia che questa bottiglia ci ha dato. Perché ci ha catturati non con la forza o con la potenza o con la concentrazione di alcuni vini che regolarmente ci beviamo, ma proprio per quel suo carattere spontaneo, immediato, sussurrato, riservato. In una parola per la sua LEGGEREZZA.
Qui, però, per spiegarmi meglio e non indurre alcuno in errore, ho bisogno di un aiuto. Devo riuscire a farti capire, e con te ai nostri lettori, il valore di questo concetto apparentemente riduttivo, erroneamente semplicistico. Devo prendere in prestito le Lezioni Americane di Italo Calvino, che egli definì “Sei proposte per il prossimo millennio”. La morte lo colse prima che potesse terminare le sei lezioni e che potesse esporle agli studenti di Letteratura all’Università di Harvard nel corso dell’anno accademico 1985-1986. Ebbene, il primo tema scelto da Calvino fu La Leggerezza.
Inizia così:
«Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire.
Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva del mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio.
In questa conferenza cercherò di spiegare – a me stesso e a voi – perché sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto; quali sono gli esempi tra le opere del passato in cui riconosco il mio ideale di leggerezza; come situo questo valore nel presente e come lo proietto nel futuro.»
Ma c’è una frase a metà del testo che credo possa illuminare meglio questi concetti per poi legarli alla viticoltura, che ritengo essere una sintesi tra letteratura, nel senso della sua capacità di racconto, e scienza, intesa come base tecnica per la sua realizzazione. Dice Calvino: «Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo… Ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta…»
Ciao Francesca, che la leggerezza ti sia sempre compagna.
Gigi Brozzoni
Non havvi genio sine ibridatione
Qualcosa di simile deve aver provato Vitangelo Moscarda, personaggio di Pirandello, quando, guardandosi allo specchio, si accorse per la prima volta che il suo naso, il naso che aveva visto migliaia di volte facendosi la barba e che, da sempre, aveva creduto essere perfettamente normale, era in realtà leggermente storto.
Credo di aver percorso la strada che da Monforte d’Alba va a Serralunga d’Alba certo non migliaia ma decine di volte, in ogni stagione, arrestando spesso l’auto per risalire, mappe alla mano, ai nomi delle vigne dintorno e imprimerli nella memoria.
Eppure sabato scorso quei luoghi mi hanno sorpreso, hanno saputo emozionarmi ancora, forse per la luce irreale che hanno le sere di fine estate, la luminosità tiepida e limpida che staccava i filari di Falletto, Ornato e Vigna Rionda dal terreno bianco come fossero marmi di un immenso altorilievo. Un’emozione della stessa intensità ricordo d’averla provata quindici anni fa, precorrendo da solo, per la prima volta quella strada, sommando all’incertezza del neopatentato la mia continua, rapita distrazione.
Di nuovo fermo sul ciglio della strada, vedere quei luoghi con occhi diversi, anni e bottiglie dopo, mi ha dato, però, una sorpresa maggiore, proprio perché credevo ormai di conoscerli bene. È stato come capire meglio qualcosa che si ritiene di sapere già, trovare di colpo un ordine a quanto letto, visto, assaggiato e sparpagliato nei ricordi.
Mi sono divenute chiare le ragioni della segreta preferenza dei conoscitori per i cru di Serralunga, gli astratti “fattori della qualità” – la composizione, la giacitura, l’esposizione dei terreni, la validità biologica del vitigno, la gestione del suolo e della pianta… – erano, lì, una realtà concreta, da toccare, i riti del bollito e della carne cruda, l’aura sacrale del grande bue bianco, lavoratore potente e regolare di quelle pendenze estreme, hanno trovato improvvisamente il loro posto come parti di un mondo coerente.
Mi decido a riprendere il viaggio quando ormai fa buio, oltrepasso l’abitato di Serralunga e raggiungo località Baudana. La luna, metà esatta, non consente alcuna distinzione nella parete di tralci, grappoli e foglie, il rilievo netto si fa disegno, incisione: riparto avendo però dato a Baudana, la vigna, una collocazione precisa nella mia mente.
Qualche ora (e qualche centinaio di chilometri) dopo, col famoso favore delle tenebre, apro il Barolo Luigi Baudana 2009 dell’azienda Vajra & Baudana, con qualche fetta di pane e una toma di pecora che ho acquistato da Mario Gala in Borgata Bruni a Murazzano. I Vaira di Barolo fanno vino a Serralunga d’Alba, Mario Gala, originario di Avellino, produce il miglior formaggio di pecora dell’Alta Langa, le vigne di mezzo Piemonte sono affidate – in alcuni casi, purtroppo, alle criminali condizioni del caporalato – alla cura di operai Macedoni: mi sembra del tutto normale che un bergamasco continui a sentirsi a casa in Langa. “Non havvi genio sine ibridatione”, lo diceva il Guicciardini e lo ricordava Gianni Brera ne “La Pacciada” opera scritta a quattro mani con Luigi Veronelli.
Dovremmo ricordarlo tutti più spesso: una giornata in Langa può essere d’aiuto.
Andrea Bonini