I bevitori con il vizio di leggere corrono spesso il rischio di forzare le interpretazioni, di fraintendere i testi per piegarli alla loro necessità d’esplorare le troppe zone d’ombra tra piatti e bicchieri. Qualcuno, ad esempio, lo fa perché stanco di doversi dirigere, in una comune libreria, verso lo scaffale “tempo libero” per trovare pubblicazioni su vino e cucina, settori cardine dell’economia e componenti imprescindibili del patrimonio culturale italiano.
Cercando, con qualche imbarazzo, tra manuali di yoga, libri di giardinaggio e video-corsi di pilates, si ha la netta sensazione che la gastronomia, nonostante tutto, rimanga un intruso nei luoghi dedicati alla cultura. Uno dei limiti che distinguono i manufatti gastronomici dagli altri prodotti della creatività risiede, secondo alcuni, nella connotazione sempre e comunque “euforica” delle bevande e dei cibi.
Questa osservazione sarebbe sufficiente a negare che le opere percepibili attraverso il gusto e l’olfatto possano essere lette, pensate, interpretate impiegando tecniche e strumenti simili a quelli adottati per le opere percepite con la vista e l’udito. La fruizione delle opere appartenenti alla prima tipologia, infatti, sarebbe inevitabilmente condizionata dalla funzione alimentare, dalla forza nutritiva e simbolica dei cibi e delle bevande, così come dal benessere fisiologico che ne deriva.
Ma è poi vero che un prodotto gastronomico di qualità non è in grado di veicolare “disforia” (angoscia, timore, ansia, termine contrario di euforia) e, di conseguenza, non può ambire a un proprio, onorevole scaffale nelle librerie di provincia? Vino e cibo hanno davvero uno status inferiore rispetto ai manufatti artistici per il fatto di essere sempre e comunque portatori d’una forza vitale sottotraccia, di un investimento inevitabilmente euforico?
È chiaro che da un assaggio possono derivare sensazioni piacevoli o spiacevoli, ma non è questo il punto: il disgusto non dimostra nulla delle reali possibilità di un linguaggio. Possiamo poi rattristarci per un piatto che non amiamo, per un vino legato a un brutto ricordo, ma restano comunque valutazioni personali. Il potente film di Marco Ferreri “La grande abbuffata” compie un’operazione più radicale: il totale ribaltamento di ogni connotazione euforica.
La preparazione e il consumo di cibi e vini di qualità si caricano, per scelta deliberata dei protagonisti, di una forza mortifera che utilizzano arbitrariamente per mettere in atto il loro collettivo suicidio. Fuori dalla finzione cinematografica, nella realtà quotidiana esistono vini e cibi capaci di farsi portatori di valori disforici?
Un’esperienza nelle regioni della disforia si può forse provare assaggiando un grande vino conservato a lungo e decisamente evoluto. Il vino rimane grande, anzi, talvolta mostra la sua grandezza in modo più che mai limpido, tuttavia il suo discorso si fa struggente e drammatico, come se testimoniasse lucidamente una verità tragica, naturale e definitiva.
Apro, a verifica di questa balzana teoria, un vino in qualche modo storico: il Chianti Classico Riserva Ducale Oro 2003 di Ruffino in Pontassieve (Firenze), 91 punti sulla Guida Oro I Vini di Veronelli 2008. Alla vista è rubino caldo, con qualche sfumatura granata, ma è al naso che l’evoluzione appare evidente. La componente fruttata ha ceduto il ruolo di protagonista agli aromi terziari, allo stesso tempo intriganti e severi: fiori appassiti, cuoio, mandorla, legna arsa e cacao. In bocca ha abbandonato parte della giovanile polpa succosa per mostrare la sua salda ossatura: tannino deciso e maturo, grande sapidità, caratteristica acidità… e persistenza “palesemente” disforica.
Strano: ho come la sensazione di non avervi convinto…
Andrea Bonini