Parlar del tempo significa sempre più spesso parlar di nulla, recitare considerazioni banali su questa o quella presunta anomalia metereologica. La pioggia continua insopportabile, intermittente e snervante, tragicamente scarsa; il sole bramato come un padre assente, maledetto per l’arsura torrida, deriso per il suo frequente, timido scomparire oltre le nubi; la temperatura troppo alta, troppo bassa o, se nella norma, senz’altro presagio d’imminenti, intollerabili sbalzi.

Questo maggio lombardo – il maggio più freddo e piovoso da dodici mesi a questa parte – che suggerisce a sportivi e agricoltori le più colorite imprecazioni, ha almeno accontentato chi, sotto l’ombrello, ama fermarsi a osservare i prati, i boschi, persino le aiuole urbane, i giardini condominiali e le fioriere. Ogni essere vegetale dà il meglio del suo verdeggiare, cresce le foglie e i germogli con l’orgoglio d’esporli alla pioggia pesante, agli squarci di sole.

Più delle specie arboree – sempre civili anche nella più affollata delle foreste, salde nel proprio spazio, come in processione ordinata – sorprende la multiforme e caotica famiglia delle erbe impettite, invadenti, come ragazzini che sgomitano e fanno a gara a mettersi in mostra: lui perché un poco più alto, lei per il suo nuovo cappello viola, l’altro perché più spallato, l’altro ancora perché spinto in avanti. Anche sui tetti, tra i coppi degli spioventi a nord, è tutto un muschio, un’erbetta, persino qualche piccolo arbusto.

Nei terricci minimi delle città è comparsa all’unisono una moltitudine d’esseri freschi, una popolazione di steli, gemme, virgulti, d’infiorescenze a ombrello o a grappolo, bianche, rosa, azzurrine. I piccoli paesi di campagna si sono ritrovati all’improvviso sotto assedio, circondati da soldati – sino a ieri esili e rinsecchiti – che di colpo han riacquistato le forze e ora scalpitano, allegri e smaniosi, nelle loro armature verdi. Agitando vessilli odorosi e multicolore sono pronti a calare, a riprendersi le strade e le piazze a dispetto di ogni potatura, di ogni compagno estirpato.

In un rosso, generalmente, quando la nota vegetale eccede all’olfatto, quando una venatura verde va, in bocca, sopra le righe, il vino respinge, infastidisce, delude: uve immature, rese eccessive, terreni troppo profondi e fertili, legni aggressivi o utilizzati male. Spesso un vino con tali caratteristiche viene definito crudo, nel senso più antropologico del termine: crudo è per Lévi-Strauss il “naturale” non ancora trasformato in alimento attraverso la manipolazione meravigliosa della cucina. Dal punto di vista simbolico, non è necessario un fuoco: spesso questa “cucina dell’appropriazione” è fatta soltanto di tagli, selezioni, condimenti e tanto basta a fare della cosa un cibo, a trasformare un frammento di natura in un piatto.

L’azienda agricola Ronchi di Cialla di Prepotto (Udine) ha fatto in un vino un prodigio simile: restituire la vitalità gioiosa del vegetale, la croccantezza del frutto sodo, l’eccitante piccantezza delle spezie verdi, l’umida fertilità del sottobosco, la sapida impronta del mondo minerale in modo molto più che commestibile, elegante e memorabile. Questo, naturalmente, si può ottenere solo fermentando sapientemente uve portate a maturazione con la massima cura, da viti impiantate su terreni vocati, da una cultivar predisposta a questo tipo di magia balsamica come il refosco dal peduncolo rosso.

Se in Italia si accogliesse la primavera con un giorno di festa come accade altrove, il Colli Orientali del Friuli Sottozona Cialla Refosco dal Peduncolo Rosso 2005 sarebbe certo il vino più emozionante con cui brindare.

Andrea Bonini