Negli ultimi tempi, forse un poco preso dalla nostalgia, mi riscopro spesso a ricercare nei vini qualche suggestione veronelliana. Tra le sue tante enoiche malìe, Luigi Veronelli amava suggerire come gli echi della storia continuino a risuonare a lungo nella terra che ne fu teatro, in un modo quasi fisico e tangibile, al punto da influenzare persino il carattere dei vini che vi vengono prodotti.

Così scrisse di Monforte d’Alba: “Sai bene, anche la storia condiziona i vini ed il loro divenire. Nei cru – superbi – di Monforte v’è fuor di dubbio la memoria, dell’eccidio, 1028, dei catari”.
E ancora, questa volta di Canelli: “1613. Assedio di Canelli. Il duca di Nevers […] e le sue truppe ne vogliono la distruzione. […] Eccidi su eccidi. […] V’è sceso – o si è innalzato? – il sangue e reso le terre più vocate alle vigne”.

Questi gli effetti della storia, ma che ne è – mi domando – della morfologia dei luoghi? Quella stessa morfologia che sovente ne ha ispirato il toponimo, “condiziona” anch’essa “i vini ed il loro divenire”? Non parlo tanto della geologia, delle esposizioni, delle pendenze: di queste sappiamo quanto profondamente pesino sul carattere di un vino; ma – vorrei piuttosto dire – l’estetica che da tali caratteristiche risulta, i richiami simbolici, in definitiva il “senso” di un luogo ispirano in qualche modo l’espressività di quello stesso vino?

A Soave c’è un autentico cru chiamato Calvarino. È un vigneto dal suolo vulcanico di origine eocenica, ricco di argilla e di tufi basaltici, un “piccolo Calvario” che deve il suo nome alla difficoltà di lavorazione del terreno e al percorso tortuoso che occorre affrontare per raggiungere il fondo; ed è infatti l’idea del sacrificio, della sofferenza e del dolore a rappresentare per la religione cristiana il significato più profondo del Calvario, un martirio che prelude, tuttavia, alla speranza di redenzione e di rinascita, ad un messaggio salvifico e liberatorio.

Ecco allora che ci pare di ritrovare un’indefinita e squisitamente pagana metafora di questo mistero assaggiando il Soave Classico Calvarino 2008 dell’azienda Pieropan di Soave, in provincia di Verona; una versione puntuta e diretta già nel profumo, che entra schietto nelle narici con impressioni di roccia nuda, di pietra focaia, su cui poggiano sensazioni di ananas acidulo, uva spina, roscida pesca bianca, completamente avvolte da sbuffi di menta, salvia e dal continuo riproporsi delle scintille di selce e pirite che sembrano intrise della diafana luce del Calvario.

Il sorso apre secco, persino scabro, ma subito l’acidità si fa succosa, agrumata e sapida, spazza il palato che, finalmente mondato, è pronto ad accogliere un frutto ora più dolce e pieno, eppure sempre sferzato dalla freschezza tagliente, ferma ed austera di certi grandi vini tedeschi, quasi a rammentarci quanto gaudio e letizia, per essere meglio assaporate, necessitino un contraltare di durezza e di acre stimolo, condensati in un amarognolo retrogusto di scorza di pompelmo.

Questa lettura di un vino e dei suoi topoi, trascendente se non spirituale, vuole naturalmente essere solo un divertissement, una sorta di gioco metafisico in qualche misura anche grottesco e pretenzioso. Ci piacerebbe, però, se riuscisse almeno in minima parte a svelare quanto reali e concretamente fondate possano risultare le suggestioni zampillanti dall’allegoria culturale che esigiamo il vino sia. E dunque, alla fine, è.

Marco Magnoli