Intervista a Pietro Stara in occasione dell’uscita del suo libro “Il vino e la storia. Articoli e saggi di oltre un decennio” appena uscito per le edizioni Sabatelli.

a cura della Redazione

In un mondo, quello del vino, in cui tutti si sentono liberi di dire tutto e le parole affollano il palcoscenico, come si colloca questa rassegna di riflessioni colte e documentate? Detto in altro modo: cosa ti ha spinto a sfidare una certa superficialità dilagante nel contesto enoico e ti ha motivato a portare alla ribalta, per la seconda volta, la profondità di approccio?

Potrei risponderti in modo ovvio, ma non banale: tutti gli altri posti erano occupati! Mi spiego meglio. Il mondo del vino, e della scrittura del vino, è variegato come le persone che lo compongono: non diversamente da tutti gli altri mondi contigui e paralleli si trovano persone preparatissime, preparate, superficiali, talvolta grottesche. Io mi sono ritagliato, per così dire, uno spazio sulla ricerca storica e su tematiche affini. La ragione, appunto, è che provengo proprio da quegli studi e da quella formazione. Lascio, molto volentieri, ad altre e ad altri questioni e temi sul vino su cui la mia preparazione è solo parziale, non completa e meno sicura.  

Il vino è un intercessore di mondi, questo sembra di intuire seguendo il filo del tuo libro. Ci sono “mondi”, ovvero luoghi e/o epoche storiche, tra quelli in cui hai ambientato le tue riflessioni, che sono a tuo parere più significativi?

“Intercessore di mondi” mi piace molto. È sempre stato così e lo è stato, in modo differente, per ogni epoca affrontata. Il vino è stato un tramite di relazioni sociali, politiche, religiose e affettive, un simbolo, un alimento, un elemento distintivo, un elemento di accomunamento politico e sociale (le riunioni operaie dell’Ottocento si tenevano nelle osterie), un elemento edonico… Quello che ho cercato di far comprendere è proprio questo: il vino è un tramite, un mezzo, un elemento relazionale che parlando si sé, comunica di molto altro.    

Questo libro rappresenta un po’ una summa del tuo impegno da studioso del mondo del vino. Avresti potuto scriverlo se fossi stato astemio?

Bella domanda. Sicuramente no. Ogni scrittura parte da un coinvolgimento personale. Ogni storia, anche la più remota, è una storia del presente.

Puoi elencare, per i lettori veronelliani, tre buone ragioni per leggere il tuo libro?

Perché non cito Veronelli. Perché lo spirito di Veronelli aleggia in tutti gli scritti. Perché sono lettori curiosi e la storia è, di per sé, cosa curiosa e arricchente.

Dal punto di vista di uno storico, cosa ha rappresentato Luigi Veronelli per il mondo del vino e cosa rappresenta oggi, a oltre 20 anni dalla sua scomparsa, una visione veronelliana?

Veronelli assume su di sé il rischio di dire e scrivere cose che, pur essendo pienamente inserite nei decenni in cui ha vissuto, li superano ampiamente. Costruisce, in altro modo, alcuni postulati e se ne prende interamente il carico politico ed etico. E questo è ancora più importante non solo e non tanto per quello che di buono e giusto ha detto o scritto, ma per ciò che era parzialmente vero o inesatto.

Faccio un esempio: Veronelli era un sostenitore del modello francese:  i “cru” furono per lui un modello teorico indiscusso e indiscutibile. Trasferito in Italia, quel modello poteva trovare credito in alcune aree, mentre in altre molto meno. Nella zona del Barolo, ad esempio, per la sua costruzione storica, ebbe ed ha un senso molto relativo. Ma lui si fece carico interamente di ciò che sosteneva. Lo portava avanti con caparbietà, testardaggine e volontà. 

Questo gli rende un grandissimo merito, indipendentemente dal fatto che fosse più o meno corretto. Se vuoi essere un precursore devi rischiare. E lui rischiò sempre e se ne assunse sempre la piena responsabilità. Questo vale, naturalmente, anche per la parte politica, che mi avvicina a lui.