Incontro con Rok Ota, il più giovane tra quei pochi e intrepidi vignaioli che tengono alta l’identità agricola di un piccolo territorio dalla grande vocazione enoica, sconosciuto ai più.

di Simonetta Lorigliola

Guarda all’est estremo d’Italia, dove nel 1954 una neonata frontiera ha tagliato in due terre e vigne, rendendo tangibile l’assurdità di ogni rigido confine, da qualsiasi parte lo si guardi. 

Trieste e la sua storia, insomma.

Ma ora entra in queste terre. Geografia e geologia saranno le tue ancelle in una passeggiata nuova e diversa.

Ti porto nell’inconosciuto Breg.

Una feconda terra di mezzo, tra il Carso e il mare. Una riviera dal microclima straordinario, un diamante incastonato tra le durezze del calcare carsico e l’effimero svolgersi delle onde dell’Adriatico mar. Una terra fertile, succosa di marne e arenarie. Una manciata di piccoli borghi di antica origine. Il paradiso naturalistico della Val Rosandra con il suo torrente dalle acque cristalline. I resti di un acquedotto romano. E soprattutto, per tornare alla Storia, il cuore antico delle produzioni enoiche di Trieste.

Strabuzzi gli occhi? Trieste, città del vino? Ebbene sì: il vino è stata la sua prima e fiorente economia dal Medioevo sino al Settecento. Il Breg, il suo cuore. Il Porto franco asburgico ne cambierà via via i destini e, più avanti, l’arrivo del sogno industriale ha rischiato di fare piazza pulita dell’anima agricola di queste terre.

Non è accaduto solo grazie alla testardaggine mischiata al viscerale amore do zlemje. L’amore per la terra.

Oggi un pugno di intrepidi vignaioli mette a segno la possibile rinascita del Breg in senso enoico, e non solo. Perché il vino – se si comprende che è un prodotto culturale – è chiave di volta per un intero territorio.

Ti oriento: sei a sud/ sud est di Trieste, sulla Riviera, principe il comune di Dolina, italianizzato malamente in San Dorligo della Valle. I passaporti sono tricolori ma l’idioma e il dna son illo tempore sloveni. Vitali terre di frontiera, mescolamenti in divenire. Per chi li vuol vedere e sentire.

In questa partita che porta a casa una salvifica identità “brežana” (del Breg), una delle punte in campo è il giovanissimo Rok Ota. Nome da artista o da rock star, piglio deciso, capelli biondi con taglio brutalist fashion, look gorpcore agricolo. Grinta e tenerezza unite in un sorriso tanto aperto da fargli strizzare gli occhi, azzurrissimi.

Mi conduce in vigna, Rok, nel pieno Breg, sul Monte Čelo. Non siamo in montagna, qua i rilievi sono smussati e dolci. Non arriviamo ai 100 metri s.l.m. ma la visibilità è ampia e fa ben comprendere i contorni geo ambientali.

In fondo al vigneto veglia una vecchia quercia. Bellissima e maestosa. Non la tagliare Rok, gli dico.

“Guai! Anzi, ci voglio mettere sotto una panchina, per mettermi un po’ all’ombra d’estate”.

E aggiunge:

“Io, quando vengo qui, mi sento bene e posso ascoltare meglio i miei pensieri. Sono in pace”. Pace, parola e pratica più che mai necessaria, in questi tempi bui. 

Intorno, tantissimi pastini abbandonati. Se ne  intravvedono le cicatrici, tra la boscaglia tornata padrona del versante. E poi ci sono i segni dolorosi dell’invasione industriale. Rok ce l’ha chiaro cosa è successo nella seconda metà del Novecento:

“Il Breg era disseminato di vigneti e uliveti ma dagli anni Sessanta del Novecento sono arrivati i depositi della SIOT, la Grandi Motori (poi Wartsila), la superstrada… hanno eroso centinaia di ettari di campagna, espropriati brutalmente. Ogni volta che devo piantare un filare mi tocca disboscare, il bosco si è mangiato i pastini. Penso sempre che, se non fosse successo, oggi tantissima gente potrebbe vivere bene di agricoltura. Anche se ci vuole la passione per fare questo lavoro ed è un peccato che i giovani spesso non l’abbiano”.

Qualcuno dice che oltre a perseguire un serrato programma di industrializzazione le istituzioni di allora, con Trieste appena assegnata all’Italia, puntavano a una politica di smembramento dell’identità slovena: la distruzione dei campi, l’anima della comunità, mirava a raggiungere il dissolvimento identitario. I contadini abbandonavano il mestiere della terra per la paga fissa. Fortunamente, la comunità resistette, anche se oggi regna l’abbandono agricolo. 

Per fortuna il riscatto è cominciato. Anche con Rok, nuovissima generazione.

Lui, classe 2001, mostra un attaccamento per la vigna, il luogo, la storia che son profondi e traboccanti.

Ha due vigneti in cura, l’intrepido Rok.

Camminiamo il primo, dedicato alla malvasia. La Bora batte sulle nostre schiene e sui filari spogli. Si fa sentire. Registro la nostra conversazione e, a casa, l’audio mi restituisce le nostre voci, lontanissime mente è imperante il fischio del vento che copre ogni altro suono. Registrazione inutilizzabile. Breve disappunto, poi sorrido e dico a me stessa: questa è Trieste, bellezza. Andrò a memoria. Perchè quel giorno me ne ha lasciata, e bene impressa.

Il giovane vignaiolo ha battezzato il vino che nasce in questo luogo con il nome perfetto, Burja (Bora, in sloveno).

L’appezzamento è di suo cugino, su un cartello di legno Rok ci ha scritto il nome della vigna, Uejce e sotto Pr Mižte che vuol dire che appartiene alla sua famiglia il cui soprannome storico è mižta, piccolo.“Forse avevamo degli antenati piccoli di statura” commenta. Anche nella scelta dei nomi, è ostinato e sincero il suo desiderio di conservare la voce del luogo.

Le piante sono gagliarde e portano splendidamente l’età della ragione enoica: le più giovani sono state piantate negli anni Novanta, ma la media d’età è molto più alta.

“La vigna vecchia è un patrimonio” dice Rok .“Vive in una specie di equilibrio e si regola da sola nel dare una produzione misurata, senza eccessi. Fa vincere la qualità”.

E aggiunge “Per me la malvasia è il vitigno che su questo suolo del Breg vien meglio, nel senso che esprime un vino più completo, ampio, vigoroso”.

Guardo la vigna e noto che le potature sono corte e le cimature non hanno cittadinanza.

Rok mi conferma. “Perchè cimare? I tralci lunghi sono per la vite come per noi i capelli: riaprano dal sole d’estate”. Non fa una piega, tanto per restare in territorio di parrucchieri.

Evitare la cimatura consente alla vite di vegetare nel suo equilibrio, non in quello imposto da tagli che generano in lei gran fatica nel riprodurre quel tralcio, sottraendo energia al processo di buona maturazione del grappolo. 

La pianta va ascoltata, e accompagnata.

Lo insegna bene Lorenzo Mocchiutti, vignaiolo planetario in Friuli e primo teorico della “chioma integrale” in vigna che ho raccontato in “Vino paesaggio” (DeriveApprodi, 2017).

La Malvasia di Rok nasce dalle uve di entrambe le sue vigne. Dopo un primo tentativo di vinificazione separata, le prove del blend lo hanno convinto e ha deciso per quello. 

“Una vigna è esposta a nord, l’altra guarda al mare, tutta rivolta a sud. Prese singolarmente le due Malvasie, a ognuna mancava un pezzo, mentre insieme davano un vino completo e, per me, perfetto”.

La Burja, Malvasia, annata 2022, ti porta nel pieno sole con il suo giallo oro splendente. Appena ci metti sopra il naso comincia il godimento. Potente, arriva subito lo iodio, sentinella della sapidità nata tra marne e arenarie del Breg. Arrivano poi le note vegetali di fieno odoroso e ancora gli agrumi, come un limone dalla buccia spessa, quando la grattugi per fare una torta, proprio così! Al sorso, mineralità amplificata, torna la nota sgrumata, arriva al finale la mandorla amara. 

I vigneti sono molto vicini eppure, nel giro di quei soli 40 metri in linea d’aria, nascono due vini diversi. Che generano, a loro volta, un blend singolare e irripetibile. Questi sono i miracoli del Breg che ospita tessere di microclimi. Vigne benedette. Pezzi unici. A saperle curare e farle esprimere, il vignaiolo cesella vini sartoriali e di grande interesse. Premessa necessaria per provarci è rispettare il suolo e la fisiologia delle piante. Perchè, come sai, la vigna non è tutto.

Repete. Il terroir è fatto di tre elementi: il suolo, il microclima e la mano del vignaiolo. La triade deve essere un circolo virtuoso in cui comandano l’armonia e l’amore. Allora, e solo così, funziona. Ne nascono insolite eccellenze. Emblemi del vino paesaggio.

Nel Breg non mancano. Mitja Zahar e Rado Kocjančič, ad esempio. Che su quella triade da anni, pur diversamente, compongono, sperimentano e si misurano in vini territoriali, per la gioia dei nostri nasi e dei nostri animi.

Rok è un’altra generazione, e questo fa ben sperare per il futuro del Breg.

Lui, l’hai capito, ama la Malvasia: è la sua figlia prediletta e non lo nasconde. La sente territorialissima.

Senza aprire la complessa discussione sull’utilizzo del termine autoctono (cosa e da quando può dirsi autoctono e perchè) che ci porterebbe troppo lontano, diciamo che nella viticoltura storica del Breg – ovvero, triestina storica- malvasia e vitovska sono due vitigni presenti e accreditati.

“La Vitovska qui la chiamavano Urganka”.

Con questa antica apposizione che la Vitovska del Breg si porta dentro (Vrganka, Urganka, Garaganja…), Rok ha battezzato la sua interpretazione di questo vitigno.

“Ci tengo che i nomi siano legati al luogo, io ci tengo proprio tanto”.

La Urganka, Vitovska 2022, all’assaggio offre un colore giallo paglierino brillante, al naso note fresche di erbe mediterranee come il timo limone, la maggiorana. Poi arriva la pera william che ritroviamo in bocca dove seguono un primo sorso fresco e squillante. Acidità bilanciatissima, spina dorsale ineccepibile. Note minerali calde e suadenti.

La sua passione, lui, non la nasconde. È tra i tifosi più appassionati sugli spalti delle partite di basket in cui gioca il “suo” Breg. Il basket, l’altro suo pallino. 

Ai due bianchi si aggiunge il suo rosso. Il primo anno era un refosco vinificato in purezza, dal secondo lo ha arrotondato con un 20% di merlot. Per addomesticare questa varietà irruenta e rebelde. La stessa che in Carso origina il Terrano. 

In totale tre vini: “Bastano e avanzano perchè avere tante tipologie svalorizza il lavoro che fai. E poi queste sono le uve di questi luoghi”.

Quindi nessun altro vino in programma? “A volte penso allo spumante…ma, se sarà, nascerà anche lui dalle uve bianche che ho in vigna”.

Sperimentare gli piace, misurarsi. Per questo pensa allo spumante. La sua mente macina, ma procede a passi distesi e misurati. Con ordine. Non è un irruento e fanfarone. La sua sicurezza cammina al passo con la sua modestia. Pratica l’equidistanza e il rispetto. Doti rare e preziose.

La cantina si trova a Dolina, dove c’era un laboratorio dei genitori che tuttora gestiscono il panificio del paese. La sua famiglia qui rappresenta il pek (fornaio) da otto generazioni. Rok dal pane, si è spostato al vino. Sempre di essenzialità parliamo.

In cantina brilla la pulizia e l’ordine, elementi essenziali nell’intenzione di produrre in qualità.

Le attrezzature ci sono tutte, senza esagerare: dalla pressa alle botti in acciaio, al controllo della temperatura, sempre più necessario in queste estati da climate chance, soprattutto se non si possiede una cantina interrata.

Quale la scelta nella vinificazione? Anche qui, le idee sono chiare e ben distese. I suoi sono tra i pochissimi vini, tra Breg e Carso, vinificati in bianco. Gliene chiedo conto.“È vero che la macerazione è molto diffusa” mi dice “ ma me piacciono di più i vini vinificati in bianco e quindi faccio quelli”.

Rok è convinto che il vignaiolo debba esprimere quello in cui crede, quello che sente e allora il vino sarà autentico e si venderà.

“Lo compreranno quelli a cui piace, altri cercheranno altrove”.

Rok parte da se stesso ma non sta fermo a guardare la punta dei suoi piedi:

“Bisogna assaggiare i vini del territorio, tutti. Bisogna confrontarsi, avere un parere dagli altri, che sia favorevole o contrario. Tutto serve a capire e per migliorarsi. E bisogna assaggiare da chi imbottiglia e anche da chi magari si fa il vino per casa. Tutti possono dare qualcosa da imparare.”.

Interrogarsi continuamente è per lui fondamentale.

Credo che sia proprio per questa profonda esigenza di indagare e crescere, che Rok tiene da parte bottiglie delle singole annate. Mi dice:

“Per me è fondamentale. Per capire come è cambiato il vino e anche come sono cambiato io. Per ricordare cosa ti ha insegnato quell’annata che magari ti può servire per un’annata simile”.

Ma questo ragazzo, perchè si è dedicato alla vigna, disertando i richiami che irretiscono la maggioranza?

Me l’ha raccontato.

Suo nonno faceva il vino, per casa, con dedizione. Poi invecchia e si ammala. Arriva il momento che non può più starci dietro. La piccola vigna di famiglia viene espiantata. Con la rabbia di Rok che, poco più che bambino, aveva dichiarato solennemente che se ne sarebbe occupato lui. Il nonno era l’unico che gli credeva, e ha procurato di conservare per lui i tini, il torchio e le botti. Rok poi non li ha usati, era tutta roba vecchia. Ma è venuto il momento in cui la sua idea si è tramutata in realtà. Nel mezzo ci ha messo una diploma da Perito meccanico.

“Mi sono fatto trascinare dal gruppo, andavano tutti là. Facevo pratica in qualche officina, in capannone, d’estate. Mi piaceva trafficare sui motori, ma il sole e il cielo restavano sempre fuori. Aprivo il portellone per vederli e mi dicevano: chiudi che entra caldo. Ho capito che non faceva per me”.

E dopo il diploma guarda alla terra. Comincia facendo il boscaiolo. Poi apre l’azienda agricola e si dedica agli ortaggi. Intanto va anche a lavorare in qualche azienda vitivinicola in Collio e Brda, per le vendemmie. Guarda, fa e impara, finché arriva l’occasione di prendere in cura il vigneto del cugino. E l’avventura comincia davvero.

La prima annata in bottiglia dei vini targati Rok Ota è il 2021.
Fa tutto da solo, in questi due ettari scarsi. Il progetto, nei prossimi anni, è di arrivare a circa 4 ettari, prendendo in custodia altre vigne o impiantandone di nuove, ove possibile. Oltre non si va. Rok pensa a una piccola azienda gestita dalla famiglia, senza deleghe.

Anche l’etichetta, l’ha creata lui stesso. Sono stupita quando me lo dice. È così azzeccata che sembrava frutto di qualche progetto grafico professionale.

“Il nome per l’azienda (Rok) me l’ha suggerito mia nonna che, povera, non ha neanche potuto assaggiare il mio primo vino. E il resto l’ho fatto io”.

Questa grafica grintosa ma informale e fresca, gli assomiglia davvero. Speriamo non la cambi drasticamente.

Ma più di tutto, gli assomigliano i suoi vini. Te li ho già raccontati, ma voglio aggiungere che sono coerenti nel loro essere freschi, puliti, rispettosi della varietà dell’uva.
Rifiutano però una perfezione piatta e inespressiva. 

Sono vini, per rubare le parole di Saba, che hanno, come Trieste, una loro “scontrosa grazia”: ti sorprenderanno con un tocco di ribelle eleganza. Ribelle all’omologazione. Vini che portano la chiara firma del suo giovane e determinato autore.


Simonetta Lorigliola

Simonetta Lorigliola, giornalista e autrice, si occupa di  cultura materiale. È nata e cresciuta in Friuli. Ha frequentato l’Università degli studi di Trieste, laureandosi in Filosofia. È stata Responsabile Comunicazione di Altromercato, la principale organizzazione di Commercio equo e solidale in Italia. Ha collaborato con Luigi Veronelli, nella sua rivista EV Vini, cibi, intelligenze e nel progetto Terra e libertà/critical wine. Ha vissuto in Messico, ad Acapulco, insegnando Lingua e cultura italiana. Ha diretto Konrad. Mensile di informazione critica del Friuli Venezia Giulia. Da molti anni collabora con il Seminario Veronelli per il quale è oggi Caporedattrice e Responsabile delle Attività culturali. Le sue ultime pubblicazioni sono È un vino paesaggio (2018) e Eolie enoiche (2021) entrambi editi da Deriveapprodi.
Foto di Jacopo Venier