di Simonetta Lorigliola

Salež/Sales è il luogo in cui ci troviamo. Piccolo paesino sull’altopiano carsico.

Il nome è doppio: prima in sloveno, idioma madre e principe di queste terre sull’altopiano, e poi in italiano, una delle lingue (e culture) che hanno scritto la storia di Trieste, insieme a quella slovena, appunto, e a quella tedesca. 

Ma tre culture e tre lingue non dicono tutto, in questa città sospesa tra Mediterraneo ed Europa continentale: sono tante, infatti, le comunità che l’hanno popolata nel corso dei secoli e che ne hanno costruito la vitalità e le forme. Serbi, greci, francesi, inglesi…

Lo testimoniano il tessuto urbano, le architetture e persino il dialetto triestino, tuttora diffusissimo e parlato da tutti, in ogni classe sociale, tanto da essere la prima lingua – non istituzionalizzata ma reale – anche negli uffici pubblici.

Questa è Trieste/Trst che abbraccia il suo altopiano, il Carso. Kras.

Montagne antiche, consumate dai millenni, abitate da popolazioni nomadi e poi stanziali dall’età del Bronzo in cui furono costruiti i suoi castellieri, la prima forma di architettura umana che ha segnato queste alture. Erano allevatori, pastori, raccoglitori ma poi anche coltivatori e allevatori gli antichi e primi carsolini.

Di resti archeologici ne sono rimasti pochi, tracce spesso inghiottite dalla vegetazione. Uno dei siti, un castelliere in abbandono, è proprio nei pressi dell’azienda agricola di Gregor Budin. Erano avamposti, vedette per monitorare le incursioni, intorno ai quali fioriva sicuramente una vita sociale e agricola di qualche specie. Possiamo solo immaginarla, e per farlo è necessario proprio raggiungere questi luoghi.

Una volta a Salež/Sales non sarà difficile rintracciare, sull’unica strada maestra, il monumento ai partigiani. Di questi omaggi alla memoria collettiva se ne trovano uno per ogni paesino carsico. Meritano una pausa e pensiero. Lo squarcio storico della dittatura fascista ha ferito profondamente questi luoghi, tentando di farli a brandelli. Ma no pasáron.

Proprio accanto al monumento che ricorda i caduti del paese nella lotta di Liberazione, c’è la stradina in salita che ci porta da Gregor Budin e Alice Spangaro

Il traguardo, a pochi decine di metri, è la loro casa, la loro azienda, la loro osmica: un luogo uno e trino.

Parentesi. L’osmica (lemma sloveno, si pronuncia: osmizza) fu istituita da un regolamento austroungarico, emanato nel 1785 da Giuseppe II d’Asburgo, per consentire ai contadini la vendita diretta al pubblico del loro vino con mescita autorizzata in azienda, per alcuni periodi dell’anno e solo per otto giorni, osem in sloveno, da cui il nome. Bastavano e avanzavano perché il vino era poco, un elemento sussidiario all’interno di un’economia contadina mista: stalla, orto, campielli e qualche filare di viti.

Gregor e Alice, giovane coppia con due bambini, hanno costruito qui li luogo del loro amore e del loro lavoro. Lo hanno fatto ex novo, pensandolo come prolungamento di se stessi. Non c’erano ruderi da ristrutturare, ma loro al Carso hanno voluto essere fedeli, rispettandolo nei materiali, nei colori, nelle forme scarne e pulite. Ne è venuta fuori una costruzione sobria, che con il paesaggio si integra, che quasi sfiora il vigneto accarezzandolo.

Accanto a loro, un altro esempio di amore per il Carso, diversamente coniugato: la casa con attiguo vigneto di Matej Skerlj, oggi presidente dell’Associazione Viticoltori del Carso. Una casa con richiamo diretto all’architettura carsica tradizionale con finestre non troppo grandi, per ripararsi dalla bora, mai esposte a nord-nord est, inserti di tetto in pietra, oggi manifattura in via di estinzione. Esempio di passione filologica per la storia locale, che si ritrova anche nel suo percorso di vignaiolo. Lo incontreremo in una prossima occasione.

L’invisibile e profonda cantina ipogea dei Budin mostra il pedigree geologico del Carso.

Questa microzona vede la compresenza di calcari e dolomie: un vero scrigno minerale. Le pareti di roccia pura virano dal grigio, al nero fumo, al giallo sulfureo. L’odore che queste pietre emanano è quasi di sale. A occhi chiusi diresti di trovarti accanto al mare. Sinestesie ribelli carsoline.

Che dire di Gregor e Alice? Che bisogna venire qui, e conoscerli.

Storico, dinamico e vitale è il loro stile. Forse perché Alice è una velista e Gregor un giocatore di basket, chissà. O forse perché lui, il vignaiolo cestista, è uno che, lo vedi, non ferma mai i pensieri, crea un continuo movimento tra il fare e il progettare, senza dimenticare che i piedi stanno sulla terra, centro delle sue riflessioni e pratiche.

Alice incarna perfettamente un gioioso ossimoro nel suo essere precisa e solare. Se da Gregor nascono sfumature cristalline, da lei hanno origine onde energetiche assestate sull’infrarosso. Insomma, sono una coppia ad alto bilanciamento e il progetto enoico riflette positivamente queste note diversificate e armoniche. Il vino è un potente traduttore e rabdomizza tutto quello che gli accade intorno.

Come detto, il Carso non è il luogo storico dell’economia vitivinicola triestina. Lo fu la Riviera, il Breg. Il vino lo si faceva e lo si beveva a casa o, al massimo, lo si vendeva in osmica. La viticoltura specializzata, fino al secondo dopoguerra, è sopravvissuta sulla costa, suolo di marne e arenarie, confacente alla crescita della vite. 

Ma questo non significa che il suolo carsico non sia vocato. Anzi. Il problema è la permeabilità: l’acqua si porta via la terra. Restano i polje (risicatissimi campicelli) vicini ai paesi e poco altro. Fino a tempi relativamente recenti, per impiantare la vite con il piccone si incideva una canaletta nella roccia in cui raccogliere un po’ terra (riportata dai polje o dal fondo di qualche dolina) per piantare uno o due filari. Erano piccole cicatrici, incarnate nel corpo carsico.

E allora chiedo a Gregor come si fa, oggi, a essere vignaioli in Carso senza essere invasivi, rispettando luoghi, pietra ed ecosistemi. 

Lo chiedo a lui, che ha scelto una viticoltura sana e trasparente: inerbimenti, concimazioni con sovesci e raro letame, trattamenti ridotti all’osso, rame e zolfo. In cantina mano leggera e accompagnamento soft del vino. Zero chimica di sintesi. Modestia e determinazione. È lo stile Budin.

Gregor non vuole vendermi ricette generaliste perché non gli interessa, però mi parla volentieri di quello che fa: recupero dei piccoli vigneti storici, salvezza dall’abbandono, utilizzo di appezzamenti che sono ancora o che erano stati vitati un tempo. La keyword, insomma, è cura, parola benedetta in questo mondo infine. Adattarsi all’ecosistema Carso. Farsi viticoltori peripatetici, in pellegrinaggio da un piccolo appezzamento a un altro. Fatica, tempo, pazienza. Solo così vive e vegeta il vino paesaggio. Questo è il vino del futuro che diventa strumento di tutela, sacro in tempi di emergenza ambientale e climatica. Sarà poco quel vino, ma solo così sarà davvero di valore.

Tutti i vini di questo giovane vignaiolo sono interessanti, diamantini e geometrici. Gli somigliano profondamente.

Il Terrano, domato dalle sue asperità con la sapienza di legno e tempo; la Malvasia, massimamente sapida e canonica; il Loza, un cru nato da un vigneto centenario (vitovska e malvasia) a Slivno che Gregor, filologo ammirevole, vinifica a sé. È l’unico suo vino macerato, in perfetto equilibrio tra ossidazione e pulizia, caldo e carezzevole. Ultimo nato, a fine 2022, outsider, uno Chardonnay, da un piccolo vigneto storico. A volte mi piacciono gli outsider, in fondo: vivificano il terroir. Gregor deve ancora lavorarci su, è lui a dirlo, sta sperimentando e troverà la strada per rendere questo internazionale, già molto promettente oggi, un nuovo cittadino enoico di questo pezzo di Carso.

E poi c’è madama Vitovska.

Vitovska altamente territoriale, godibile nell’oggi ma, se sapientemente vinificata, perfetta per percorrere la strada della longevità che la porterà a essere fine e matura.

Il nostro giro in Carso continua…Prossima tappa, Praprot/Prepotto, l’incontro con Sandi Škerk.


Simonetta Lorigliola

Simonetta Lorigliola, giornalista e autrice, si occupa di  cultura materiale. È nata e cresciuta in Friuli. Ha frequentato l’Università degli studi di Trieste, laureandosi in Filosofia. È stata Responsabile Comunicazione di Altromercato, la principale organizzazione di Commercio equo e solidale in Italia. Ha collaborato con Luigi Veronelli, nella sua rivista EV Vini, cibi, intelligenze e nel progetto Terra e libertà/critical wine. Ha vissuto in Messico, ad Acapulco, insegnando Lingua e cultura italiana. Ha diretto Konrad. Mensile di informazione critica del Friuli Venezia Giulia. Da molti anni collabora con il Seminario Veronelli per il quale è oggi Caporedattrice e Responsabile delle Attività culturali. Le sue ultime pubblicazioni sono È un vino paesaggio (2018) e Eolie enoiche (2021) entrambi editi da Deriveapprodi.
Foto di Jacopo Venier