LATTE CAGLIO SALE, rubrica di Irene Foresti
Basta consultare un atlante caseario o fare una veloce ricerca sul web per rendersi conto di quanti formaggi si possono rintracciare sul territorio italiano o, tutt’al più, in zone geografiche la cui estensione sfiora frequentemente la micro-località.
Tanti di questi prodotti, purtroppo, sono spesso penalizzati dall’assenza di un’identità onomastica ben definita.
Sto parlando dei tanti formaggio «di monte», formaggella, stracchino, formaggino, casatina o, più semplicemente, formaggio «e basta» che si perdono in un inconsapevole anonimato, pur restando produzioni di ottima qualità ed assolutamente notabili sotto il profilo sensoriale e dal punto di vista storico-culturale. Per questo, non potevo non dedicare l’ultima uscita di questa rubrica ad una chicca casearia, una di quelle che si possono scoprire quasi solo per caso.
La mia scelta è ricaduta sul Recudì, formaggio a pasta semicotta che può giungere fino ad un anno di stagionatura.
Poiché amo molto assaggiare i formaggi, confesso che la scelta non è stata facile. Avrei potuto parlare di una delle tante tipologie di stracchino (ma ci ho già scritto un libro), dei vari parenti prossimi dei formaggi «Grana», delle innumerevoli paste filate, degli erborinati o dei formaggi a crosta fiorita (solo per citarne alcuni), ma di nessuno di questi avrei potuto descrivere poco più che il profilo sensoriale il quale, non essendo un’assaggiatrice qualificata, ricadrebbe nella sola sfera del mio gusto personale.
Ciò che è importante notare per questi prodotti non è tanto (e non solo) la loro indiscutibile palatabilità, bensì il contesto in cui si originano: dietro ogni cagliata c’è una realtà produttiva unica e particolare. È questo che distingue un formaggio semi-industriale da quello che si può tranquillamente definire artigianale.
I formaggi artigianali sono dei veri e propri pezzi unici: nessuno è uguale agli altri, nonostante siano accomunati dallo stesso nome e dalle stesse tecniche. Cambiano la mano del casaro, l’influenza degli elementi climatici (dunque il contenuto di ciò che mangiano gli animali) e le condizioni di stagionatura, una mancanza di omologazione che deve essere considerata un valore, non un problema!
Anche da questo punto di vista le possibili scelte erano tante, dunque perché proprio Recudì?
Perché di questo formaggio ho conosciuto di persona la realtà in cui quasi ogni giorno lo stesso si origina: gli animali che forniscono il latte (come e dove vivono), il casaro che ci mette le mani, l’ambiente rurale e la storia tutta particolare che si cela dietro questo prodotto.
Recudì è solo uno dei tanti illustri sconosciuti ma, almeno, un nome ce l’ha. Lo ha preso dall’omonima località sita a S. Omobono Terme, in Valle Imagna, provincia di Bergamo. Siamo nel pieno della patria conclamata della produzione casearia: le valli orobiche.
È qui che Francesco Carminati, classe 1989, ha scelto di intraprendere la professione di casaro, riqualificando i terreni di famiglia, prossimi direttamente ai pascoli ai quali gli animali (soprattutto le pecore) possono accedere direttamente in tutte le stagioni, con stalla e caseificio.
Una scelta non scontata per un ragazzo così giovane, frutto certamente di una passione tutta personale, che traspare chiaramente quando parla del suo lavoro. Ma è soprattutto una scelta importante nel quadro di una valle che oggi punta molto sulla riqualificazione agricola e sul turismo gastronomico.
Con il suo lavoro, Francesco ha riportato alla luce frammenti di storia e tradizione della Valle Imagna, in primis l’abitudine di produrre formaggi da latte (anche misto) vaccino e pecorino, un tempo destinati quasi solo all’autoconsumo familiare.
A Recudino si allevano vacche di razza Grigio Alpina e pecore massesi (ma sono presenti anche alcune capre) e Francesco, dopo aver esordito con quattro vacche e tre agnelli, punta ad aumentare il numero dei capi ovini, così da ottimizzare i costi necessari per l’alimentazione degli animali ed accorciare i tempi di rimonta (importanti per avere una produzione lattifera, dunque casearia, omogenea nel corso dell’anno). Una scelta che, peraltro, contribuisce in qualche modo a colmare l’assenza di formaggi pecorini di un certo rilievo nel comparto caseario del nord Italia.
La presenza della pecora non deve stupire in una provincia famosa per la Pecora Gigante Bergamasca (anche se prevalentemente ad attitudine carnea). Certo, la massese è di origine toscana, ma grazie alla sua robustezza si adatta molto bene al territorio imagnino e può rappresentare uno dei pilastri fondamentali per le aziende agricole di nuova concezione.
Si tratta di quella che un tempo sarebbe stata chiamata economia chiusa, un concetto oggi scevro da significati legati all’autarchia domestica e trasferito nel più ampio novero della sempre più importante sostenibilità ambientale.
Da questo punto di vista la massese, alla faccia della «pecora nera», è un animale dalla spiccata vocazione lattifera (anzi, è una delle razze maggiormente utilizzate e selezionate per migliorare la produzione di latte dei suoi consimili) e dalla discreta vocazione carnea, le quali compensano il poco apprezzamento nei confronti della lana (che non si presta bene alla filatura e, in quanto scura, non può essere tinta).
È un bell’esempio di sfruttamento di tutte le così dette attitudini degli animali, che generalmente ricomprendono appunto quella lattifera, carnea e laniera.
Ma dando uno sguardo alla produzione complessiva dell’Azienda Recudino, ci si rende conto di come la «vecchia» economia chiusa, oggi riattualizzata nel concetto di sostenibilità, non sia rappresentata solo dallo sfruttamento produttivo delle razze, ma anche dall’adozione di accorgimenti che un tempo erano la norma e che oggi non sono più così scontati nella produzione casearia semi-industriale.
Il siero residuo dalla cagliata viene usato per lavorare la ricotta o destinato all’alimentazione dei maiali (floridissima materia prima per la produzione di carne, cotechini, salami e quant’altro), mentre i bovini e le pecore a «fine carriera» vengono macellati (soprattutto in considerazione del grande rilievo che il mercato degli agnelli da latte assume durante il periodo pasquale).
Ovviamente, oltre alla pura produzione alimentare, il concetto di circolarità in una azienda agricola passa necessariamente anche attraverso lo sfruttamento di tutte le risorse alimentari disponibili per gli animali (pascolo e bosco), il riutilizzo del letame per la concimazione, la produzione di fieno dai prati (importante foraggio per la stagione invernale) e la valorizzazione dei frutti degli alberi presenti (prevalentemente noci e castagne).
Presso l’Azienda Recudino, peraltro, si conserva un manufatto rurale (recentemente restaurato) che testimonia quello che era il know-how caseario prima dell’avvento delle tecnologie alimentari e prima che la normativa di settore diventasse talmente stringente da costringere i casari ad abbandonare certe abitudini.
Si tratta di un «casello del latte», una struttura in muratura costruita a ridosso del pendio erboso ed in prossimità di una sorgente d’acqua, convogliata al suo interno in apposite vasche.
La sua funzione era quella di conservare il latte in attesa di caseificarlo o per tenerlo «in sosta» per il necessario affioramento della panna, utile alla produzione del burro. Era, insomma, una sorta di frigorifero ante litteram il quale (se oggi la normativa ne consentisse l’utilizzo) si inserirebbe benissimo nel concetto di economia circolare poiché l’acqua eccedente rispetto alle necessità per il suo funzionamento (il «troppo pieno») non veniva sprecata, bensì riutilizzata per l’abbeveraggio degli animali al pascolo.
Ecco, questo è tutto ciò che si nasconde dietro ad un formaggio come Recudì che, seppur dotato di «nome proprio», entra nel novero degli illustri sconosciuti. Quelle produzioni che si scoprono per caso, ma che meritano certamente attenzione non solo per la loro qualità intrinseca, bensì anche (e soprattutto) perché, con il loro retroterra di storia, saperi e tradizioni sono dei veri e propri beni culturali, da tutelare e valorizzare.
Del resto, come dicevo in apertura, parlare adeguatamente di un formaggio significa soprattutto legarlo a temi che per il vino ricadrebbero sotto il concetto di terroir, in tal caso non solo ambientale ma anche storico e culturale.
Ovviamente, Francesco non produce solo questo formaggio. Anzi: è uno dei produttori dello Stracchino all’Antica delle Valli Orobiche (Presidio Slow Food, ma ben prima uno dei pilastri dell’economia e dell’alimentazione della Valle Imagna) e dal latte dei suoi animali ottiene anche l’erborinato Cornèl, formaggelle di varie pezzature, primo sale e ricotta, tutti di pecora o vacca a seconda della variabilità periodica della produzione lattifera.
Questa rubrica giunge dunque al termine, con la speranza di aver generato, attraverso i vari approfondimenti trattati, un importante e fondamentale spunto di riflessione: dietro un formaggio, soprattutto se poco conosciuto, non ci sono mai solo «latte, caglio e sale».
Irene Foresti
Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Si è occupata professionalmente di grande distribuzione food, educazione alimentare, marketing e comunicazione. È Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva. Appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche e ha pubblicato Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020). La sua ultima pubblicazione è Casoncelli. Storia e identità della pasta ripiena più amata da bergamaschi e bresciani (Centro Studi Valle Imagna, 2021).