Incontro con Paola Del Casale, vignaiola impegnata nell’azienda di famiglia Sergio Del Casale (Vasto, CH)

di Francesca Motta

Sulla costa abruzzese sorge una piccola perla nascosta che si affaccia dall’alto sul mare Adriatico. Si chiama Vasto, l’antica città frentana nota come Histonium, la cui fondazione, stando alla leggenda, si attribuisce a Diomede, il re d’Etolia, dopo la distruzione di Troia.

Considerato uno dei luoghi più singolari della regione, a Vasto non manca la storia, che si respira semplicemente passeggiando per le strade di epoca romana. Non manca la natura, basti pensare alla Riserva Naturale di Punta Aderci e alle spiagge dalla sabbia fine e dorata e dal mare cristallino. Ma non manca neanche un’ampia tradizione gastronomica.

La cucina vastese, infatti, è segnata dalle tradizioni che hanno contribuito alla sua evoluzione e spazia dalla cucina di montagna, con piatti essenziali, ma gustosi, a quella marinara, assolutamente prelibata.

I vini che fungono da accompagnamento alle diverse preparazioni culinarie sono molti. Basti ricordare le IGT del Vastese o Histonium e Terre di Chieti, le DOC Abruzzo, Montepulciano d’Abruzzo, Trebbiano d’Abruzzo e Cerasuolo d’Abruzzo. Nel merito: vini contraddistinti da una discreta mineralità che richiama la vicinanza del mare.

Tra le aziende produttrici che lavorano nella zona, la cantina Sergio Del Casale affonda le proprie radici negli anni Ottanta dell’Ottocento, quando Antonio Del Casale, capostipite, è uno dei primi a coltivare la vite a Vasto.

L’azienda sopravvive ai disastri causati dalla fillossera e viene trasmessa di generazione in generazione, sino al 1992, anno in cui Sergio Del Casale fonda la cantina vera e propria e un anno dopo produce il suo primo vino assieme alla moglie Lucia.

A oggi sono le figlie Paola e Laura ad aiutare Sergio nella gestione dell’azienda. È stata proprio Paola Del Casale a raccontarmi come passione, storia, tradizione e famiglia si siano intrecciate per dare vita a vini che hanno l’obiettivo di raggiungere unicità e altissima qualità.

In quale zona di produzione ci troviamo?

Siamo in una piccola azienda a conduzione familiare. L’Abruzzo, avendo coste, colline e montagne, ha delle situazioni produttive che possono distinguersi l’una dall’altra, perché il microclima sulla costa non è quello che si trova sotto la Maiella.

Vasto, dove ci troviamo, è una cittadina costiera. I nostri vigneti sono tutti sulla parte interna di collina e, in linea d’aria, siamo a 4-5 km dal mare. Il clima, quindi, è molto condizionato e umidificato. Tra l’altro, considera che Vasto si trova su un golfo naturale e, dunque, è caratterizzata da una temperatura relativamente mite.

Per quanto riguarda le caratteristiche del terreno, abbiamo terreni variabili: dal sabbioso al calcareo all’argilloso. Queste strutture diverse sono ben visibili, però, di base, quello che abbiamo sempre ricercato, per i nostri otto/nove ettari di vigneto, è che fossero tutti quanti posti a sud, sud-est, in modo tale da avere la migliore esposizione solare possibile.

Raccontami la storia della vostra azienda

Siamo un’azienda storica che si intreccia con la storia della nostra famiglia. I Del Casale facevano vino già con il mio trisnonno. In realtà, noi ricolleghiamo la nascita del tutto al mio bisnonno, Francesco Paolo, soprannominato Verde, da cui deriva il soprannome di famiglia che ricordiamo con un’etichetta, il Vird’ Vird’, su cui puntiamo tanto e che, negli anni, ha ricevuto molti riconoscimenti. Verde Verde perché, nel nostro paese, la gente diceva che fosse un bravo viticoltore e la voce si diffuse.

Vasto era un paese che è diventato città negli anni Ottanta-Novanta del Novecento. Nel secolo scorso, non c’era la cantina come la intendiamo oggi, non c’era la Partita Iva, ma c’era quel contadino che produceva l’olio, la frutta e il vino per hobby e poco più e così anche la mia famiglia. Il vino veniva venduto al compaesano di Vasto, al montanaro che scendeva dai monti e via dicendo. La nostra è un’azienda che ha vissuto la guerra, ma lo sviluppo tale per cui si poté definire una cantina a tutti gli effetti è avvenuto molto dopo.

Mio padre, Sergio, che aveva studiato e lavorato in tutt’altro settore come ragioniere, si è trovato davanti tanti vigneti, a cui teneva molto, e li acquisì per aprire la cantina. L’idea iniziale era quella di suddividersi tra entrambi i lavori, poi, però, papà lasciò prevalere la passione e da lì a poco la viticoltura divenne la sua prima attività. Nel 1992 avvenne l’apertura dell’azienda Sergio Del Casale e da qui nacque la cantina vera e propria.

La prima vendemmia risale al 1993, quando io e mia sorella Laura eravamo bambine. Da lì a pochi anni, iniziammo a stare sempre in campagna con papà: siamo cresciute in questo contesto, ci piaceva e col passare del tempo anche i nostri genitori cominciarono a pensare: «Se crescete e decidete di rimanere, magari cerchiamo di fare qualche investimento diverso».

Io e mia sorella abbiamo scelto entrambe di studiare all’Istituto tecnico agrario. Abbiamo appreso delle nozioni anche un po’ diverse, e se papà si era accresciuto puramente con la tradizione, noi abbiamo iniziato ad apportare delle innovazioni grazie ai nostri studi, insistendo e facendo leva sul suo enologo di fiducia.

Abbiamo venduto qualche terreno per comprare delle attrezzature più moderne. Già il nostro vino era buono, ma, acquistando qualcos’altro, la qualità non poteva che migliorare: ad esempio la cisterna coibentata per fare una fermentazione a temperatura controllata, una stupidaggine, ma cose così facilitano molto il lavoro.

Siamo quindi arrivate al 2006, quando la Gran Medaglia d’Oro del Concorso Enologico Internazionale del Vinitaly fu assegnata al nostro rosato e lì io e mia sorella abbiamo capito che i nostri sforzi erano stati ripagati. E pensare che papà diceva «Ma il rosato… quello dura un anno, se non lo vendo non ci faccio niente».

Abbiamo puntato a migliorarci sempre più, ovviamente un passo alla volta, senza mai accedere ad alcuna agevolazione o fondo, perché Sergio, in questo, è sempre stato molto di vecchio stampo e sosteneva «Se hai modo, allora fai il passo, anche se è rischioso, se non ce l’hai, statte ferma».

E, quindi, abbiamo intrapreso in maniera crescente la strada della qualità.

Quali sono i valori che contraddistinguono la vostra filosofia produttiva?

La vera produzione di vino, ovvero l’utilizzo delle tecnologie, è fondamentale per migliorare la qualità e per esaltare le caratteristiche che già la natura ti dona. Noi sfruttiamo la tecnologia per cercare di non apportare troppi trattamenti, per non distruggere il suolo, per non rovinare con residui chimici il vino.

In sostanza noi, con una bottiglia del nostro vino, abbiamo un prodotto che viene al 100% dall’uva. Ma se tu facessi una chiacchierata solo con gli enologi, enologi che non hanno niente da perdere e che ti parlano in maniera spassionata, ti diranno di non impegnarti a fare il vino solo con l’uva per intraprendere la strada più semplice.

Questo per noi non è concepibile, perché veniamo da una storia e da una tradizione in cui il mio bisnonno ha insegnato a papà a non andare in vigna direttamente col trattore, ma ad andarci la mattina presto, facendosi una bella passeggiata per osservare tutti i vigneti e capire cosa fare e cosa non fare.

Tanto per dirtene una, se sai che fra due giorni arriva la pioggia, quel giorno lavorerai di più e farai una doppia vendemmia e non, come si usa oggi, che ti limiti a un trattamento preventivo con l’antimuffa e poi raccogli al termine della pioggia, perché, anche se l’antimuffa ha un tempo di decadenza breve, starà ancora lì. E non è l’ideale, perché stai facendo un trattamento in più sul terreno. E questo te lo dico anche se noi non pratichiamo una viticoltura biologica.

Fondamentalmente, dunque, per noi la qualità del prodotto, la qualità delle terre, quindi del lavoro che andiamo a fare coincidono. Questo si traduce anche nel rispetto del cliente perché ci metto la faccia.

Io ti dico «Guarda, questo vino l’ho fatto io, con le mie mani, questo è». Non ti posso dire se quel vino ti piacerà o non ti piacerà, ti posso dire, però, che è fatto con una certa qualità, con il rispetto di tutte le regole, anche di quelle non scritte, e che ci fa dormire serenamente.

Ci tengo, inoltre, ad aggiungere che noi abbiamo una piccola produzione del cosiddetto vino da tavola, che è di gran lunga migliore di tanti vini imbottigliati, e lo vendiamo sfuso perché ci teniamo a soddisfare ancora quella clientela di vecchietti appassionati a cui diamo le damigiane.

Una delle nostre più grandi soddisfazioni è che persino su quel vino, che sta alla base della piramide della qualità della nostra produzione, abbiamo ricevuto pareri molto positivi da persone che avevano smesso di bere vini bianchi e rosati per problemi allo stomaco, ma che riescono a bere il nostro senza alcuna conseguenza. E questo è un chiaro indice di come lavoriamo e del fatto che lo facciamo con il cuore.

Quando ti torna il cliente e ti dice «Ah guarda, il tuo vino lo posso bere che non mi fa male» o quando mandiamo la bottiglia a un concorso, non in Italia, ma anche in Germania, in Svizzera, in Cina, quando, quindi, lo facciamo assaggiare a persone diverse in contesti diversi, e i premi e i riconoscimenti arrivano, questo è tutto per noi, perché significa che stiamo andando bene.

Ciò non coincide con un aumento nella produzione di bottiglie o nella mostra dei premi ottenuti, ma è un’attestazione della qualità, della passione, dell’attenzione che cerchiamo di mettere nel lavoro.

A Vinitaly 2023 abbiamo nuovamente vinto il premio con il rosato Vird’ Vird’, eppure, in cantina, il prezzo che aveva ieri è il prezzo che avrà domani. E i miei clienti lo sanno.

Per le persone non è un discorso semplice da comprendere, ma noi non ricerchiamo quel cliente che mi ordina il container, bensì quello che apprezza il prodotto che abbiamo. Mi spiego meglio: se io ho il ristorante che mi ha acquista 10 casse in un anno, magari più tipi di vino, per me non significa niente. Ma avere un ristorante che comprende il nostro tipo di prodotto e che, se arriva la persona giusta, glielo sa riproporre e dice «Questa è un’azienda familiare che lavora così e che fa questo vino» per noi è il massimo dei traguardi. È un’estensione della nostra mentalità del modo di lavorare.

Avete una gamma di vini abbastanza ampia. Me ne vuoi parlare?

Partiamo dal presupposto che la nostra produzione è autoctona nel vero senso della parola, perché la gran parte si fonda sul Montepulciano d’Abruzzo e sui rosati, sia nella versione Cerasuolo d’Abruzzo sia nella versione ancora più selettiva del Rosato IGT, legata esclusivamente all’area del Vastese e che riporta l’antico nome romano Histonium. A me piace inserire in etichetta la parola Histonium perché rimanda proprio alle origini del paese che fu un insediamento romano. Per non parlare della cococciola, un vitigno bianco che esiste esclusivamente in Abruzzo, più nello specifico nella provincia di Chieti, quindi parliamo proprio di quelle chicche locali di cui si diffondono poche decine di migliaia di bottiglie in tutto il mondo.

Inizialmente, avevamo una produzione un po’ più estesa anche di Trebbiano, un vitigno che non dà troppe soddisfazioni a meno che tu non sia Valentini che è diventato megagalattico con il Trebbiano, lavorandoci con la vinificazione in barrique. Col tempo, dunque, abbiamo provato a dire a papà: «Togliamo un po’ di trebbiano, togliamo un po’ di chardonnay, che lo producono da Israele a ovunque, e proviamo a fare qualcos’altro» .

E quindi è venuto fuori il pecorino, che è il nostro bianco di punta e anch’esso è fondamentalmente un prodotto esclusivo di Marche e Abruzzo. E a quel punto, ci siamo detti: «Ok l’autoctono locale abruzzese, ma noi abbiamo anche un’altra cosa importante: il Centro Italia». Perché questa localizzazione ci differenzia dal Sud e dal Nord per via delle caratteristiche socio-economiche e culturali che sono a sé stanti.

Allora ci è venuta l’idea di fare un reimpianto con i vitigni delle regioni che ci circondano e da lì abbiamo iniziato a impiantare il primitivo dalla Puglia, perché abbiamo la possibilità di vinificarlo come IGT Terre di Chieti, l’aglianico dalla Campania, che è la sua terra di origine, ma viene benissimo anche qua.

Lo stesso vale per la tintillia che però è un pizzico più complicata perché è una DOC esclusiva del Molise. Il Molise, infatti, è piccolo e devono giustamente tutelare le proprie denominazioni. Noi, però, abbiamo il vecchio vigneto di nonno Antonio a Montenero di Bisaccio a Marina: praticamente, tempo 10 minuti e siamo in Molise. A livello legislativo, chiaramente, non possiamo comunque lavorare qua la tintilia, ma abbiamo un sodalizio con un’azienda molisana per cui loro prendono la mia uva sui terreni che io lavoro, la trasformano, e io la imbottiglio.

Questa è una cosa che, a differenza di tanti altri che la fanno, ma non te la dicono, per noi è fondamentale inserirla in etichetta, con il nome di questa azienda molisana e la dicitura Per Sergio Del Casale. È fondamentale perché è un giro assurdo dovuto esclusivamente alla burocrazia, ma noi ci ostiniamo a produrre quelle 1300-1500 bottiglie l’anno di Tintilia, perché era il desiderio di nonno che aveva piantato quel vigneto. Ci viene a costare il doppio, ma continuiamo a farlo per amore della tradizione: tant’è che l’etichetta, Antò, è dedicata proprio a lui.

L’Aglianico Gennarì, invece, è stato dedicato al nonno materno Gennarino che non ci azzeccava niente con l’azienda perché nasce falegname, ha girato il mondo, è andato in Australia ed è tornato: ha sempre lavorato come un pazzo. Da quando noi abbiamo aperto l’azienda nel 1992, però, nonno è stato una colonna portante per la nostra famiglia, perché ha voluto bene a papà come un figlio e papà forse ha pianto più per nonno Gennarino che per il suo, quando è venuto a mancare. Il nonno era una persona solare che si era guadagnato l’appellativo di cantiniere. Infatti era sempre con noi in cantina e il cliente, quando arrivava, cercava lui.

Quindi, vuoi o non vuoi, anche i vini di secondaria importanza sono tutti legati in qualche modo al territorio, e, in ultima analisi, alla nostra famiglia.

L’etichetta un po’ più blasonata, che è il Radices, il nostro prodotto di maggior pregio per quella che è la sua storia e il lavoro, è un vino che viene commercializzato non prima di nove anni, attualmente abbiamo addirittura un 2010. Un vino di cui non esisteranno tutte le annate, ad esempio non ci sarà il 2011, perché quell’anno, ottimo per il Diomedeo in bottiglia, non era così buono per un Radices: è una produzione che deve avere degli standard molto più elevati, perlomeno per noi.

L’etichetta che a suo tempo abbiamo disegnato per questo vino è rappresentata da una mano che spunta fuori dalle radici di un vecchio albero di una vecchia vite, perché per noi è importante questo tipo di discorso: radici nella famiglia, radici nel concetto naturale: il vino lo devi far partire dall’uva.

È difficile dirti qual è il prodotto di punta, ti ho parlato di questi a cui siamo affezionatissimi, ma non ti posso non nominare il Vird’ Vird’, il rosato, perché ci ha dato tante di quelle soddisfazioni. In etichetta ci abbiamo inserito la foto e il nome del bisnonno Paolo.

E ancora, il Pecorino e la Cococciola a cui non abbiamo messo nomi di fantasia perché volevamo che andasse avanti il vitigno, perché sono prodotti tipici per cui si è lottato tanto per riportarli in vita, si è investito tanto, a livello di selezione clonale, per far conoscere alla gente questa realtà e per sottolineare che l’Italia non è fatta soltanto di Nebbiolo e Sangiovese.

E poi c’è il nostro Pinot grigio. Noi godiamo una maturazione della parte sotto-corticale delle bucce diversa che ci permette di dare seguito a una leggera permanenza delle bucce sul mosto la quale apporta quella colorazione senza andare a macerarle. Così nasce un Pinot grigio ramato, quasi abbronzato. È un prodotto molto particolare, qua non parliamo del fatto che piaccia o non piaccia, ma è un prodotto che non è ossidato, non è vecchio, non è rovinato, nasce proprio così ed è fatto così. È un nostro punto di forza.

Idee per nuove produzioni?

Ti dico, è più uno spunto in standby in questo momento, ma ci sarebbe l’idea di fare un uvaggio atipico a partire sempre da vitigni abruzzesi a bacca rossa. Con il montepulciano stiamo studiando un blend: vorremmo fare qualcosa di particolare, magari inserendo il Primitivo, ci stiamo ancora lavorando.

Non ci serve un rosso tanto per. Il sogno è di avere un vino unico, trovando la ricetta giusta. Tuttavia, non avendo gli ingredienti come quando si è in cucina, ma avendo una finestra di tempo limitata e una produzione limitata, dobbiamo valutare bene.

Anche l’idea di lavorare con le uve montepulciano un po’ stramature ci ispira parecchio, ma questo significa spostarsi a ottobre inoltrato. Ci abbiamo provato l’anno scorso, ma siamo andati incontro alla stagione piovosa. Però sai quanto potrebbe essere sfizioso un blend con un montepulciano ammorbidito in maniera naturale? Ma anche lì ti scontri con quella che è la legislazione farlocca che abbiamo in Italia.

Stiamo sperimentando e qualcosa di particolare, fra qualche anno, arriverà.

Qual è stata la prima produzione condotta da te e tua sorella?

La linea dei vini di Casale San Biase che erano proprio i primissimi Chardonnay, Trebbiano, Cerasuolo e Montepulciano. Ce ne siamo usciti con una sola etichetta uguale per tutti e cambiava solo il nome. Poi abbiamo attuato un restyling passando dal grigio a etichette più colorate, sempre mantenendo il marchio Casale San Biase.

Nel contempo una cosa su cui abbiamo insistito io e mia sorella con Sergio è stato l’acquisto di barrique. Inizialmente lavoravamo solo con le cisterne e, nelle botti grosse, ci passavamo al massimo un poco di Montepulciano. Lui era inizialmente terrorizzato dal costo, ma quando abbiamo iniziato ad affinarci il Diomedeo ed è venuto fuori un prodotto buono, ci ha dato tanta soddisfazione. Vedere che a tanto corrisponde tanto, in termini di qualità, e che la gente cominciava ad assaggiarlo e poi veniva da noi ed esclamava «Sergio, è buono eh!», rappresentava davvero una grande fonte di gioia.

È difficile, per due giovani donne come voi, interfacciarsi con il settore vitivinicolo?

Noi siamo entrate in questo mondo da ragazzine, seguendo a ruota papà, quindi ci siamo entrate in maniera soft e spensierata, con Sergio che ci ha aperto la via. Che poi, prendendo un po’ del suo carattere, abbiamo sempre avuto la capacità di confrontarci con tutti, grandi e piccoli. Perché partiamo dal presupposto che esistiamo tutti, come papà ama raccontare, e che il sole la mattina sorge ugualmente per tutti quanti: è abbastanza stupido farsi prendere dalle antipatie, dalle situazioni e quant’altro.

Situazioni che, invece, si verificano spesso in questo mondo. Noi abbiamo sempre salutato tutti, abbiamo sempre avuto la volontà, la curiosità di conoscere le altre realtà, per quello che sono, un’altra realtà con cui potersi confrontare, un’altra famiglia, tante volte, o anche situazioni più grandi, come quelle di aziende più strutturate, che però ti servono comunque per un confronto.

E il confronto porta soltanto a crescere, quindi alla fine non ci facciamo troppi problemi. Ovviamente, il fatto dell’essere donna può essere ancora un problema sul lato prettamente commerciale. Lì sarebbe stupido farti un manifesto femminista, perché a conti fatti, cercano sempre “il” titolare, al maschile. C’è poco da fare.

Qualche grande donna c’è, io ti direi, in Abruzzo: abbiamo la signora Pepe che è una forza della natura. Lei, me la ricordo già donna quando io e mia sorella eravamo ragazzine scemarelle. Lei prendeva, faceva, andava in giro per il mondo. Ha un carattere forte, si è imposta e va: è, non ti dico la mosca bianca, ma sicuramente una delle poche.


Francesca Motta

Nata e cresciuta a Milano, dopo la maturità classica, si trasferisce a Oxford dove lavora nella ristorazione e consegue un Diploma di perfezionamento in Scienze Politiche. Successivamente, si dedica al volontariato in Ghana, dove tiene corsi sui diritti umani nelle scuole di Accra. Dopo aver conseguito la laurea in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano, decide di trasformare la sua passione per il vino in un lavoro. Completa il Corso per sommelier con AIS Milano e ottiene il Master in Wine Culture and Communication presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Dal 2021 collabora con il Seminario Permanente Luigi Veronelli e lavora nel settore dell’export del vino. Dal 2022 è parte dell’Associazione Nazionale Le Donne del Vino.