di Alessandra Piubello

Il Vino non è un prodotto che muore un poco ogni giorno, ma è una creatura che vive tutte le fasi dell’esistenza, dall’infanzia alla giovinezza, dalla maturità alla vecchiaia, in continua trasformazione. Il Vino è vivo, pulsa di vita propria e può dimostrare la fugacità del tempo umano capace com’è, in certi casi, di sfidare i decenni e di avvicinarsi agli dei immortali.

La sua personalità manifesta caratteristiche diverse man mano che gli anni passano, dimostrando tutto il suo fascino ammaliatore che cattura inesorabilmente le nostre emozioni più profonde. Il Vino ti strega davvero quando i sentori si fondono, si sovrappongono, si alternano al naso e sul palato in una complessità intrigante, cangiante ed evocativa. La longevità dovrebbe essere la più nobile ambizione che un vignaiolo possa nutrire per i suoi vini.

La lunga vita è un elemento fondante di un grande vino. La sua capacità di migliorarsi negli anni e non solo di “reggere” nel tempo, dipende da numerosi fattori. Per esempio dalla netta simbiosi terroir vocato-vitigno, dalla lungimiranza del progetto vitivinicolo, dalla conoscenza approfondita delle peculiarità del vitigno in quel terroir specifico, dall’approccio mirato in vigna, da una visione enologica assistenziale e non invasiva, da un’attenzione particolare alla conservazione della bottiglia. Esistono anche alcune caratteristiche che contribuiscono alla longevità. I vitigni a bacca rossa che hanno un grande corredo polifenolico, per esempio, sono agevolati. Poi è fondamentale il pH: un valore basso corrisponde a un importante effetto antiossidante. Per le uve a bacca bianca, la dotazione polifenolica non è un fattore critico, ma resta importante il pH basso.

La longevità è stata da sempre un valore distintivo.
Eppure sembra, particolarmente in Italia, che questa dimensione essenziale sia passata in secondo piano rispetto alla freschezza, all’immediata approcciabilità, al carpe diem enoico. La nota critica Monica Larner ha affermato che al vino italiano manca il “culto della longevità”. Una dichiarazione che, in linea generale, mi sento di condividere, purtroppo.

Eppure, nel nostro Dna di Paese produttore di vino, tutti quando volevano festeggiare o desideravano fare o farsi un regalo di piacere, o semplicemente quando decidevano di bere “bene”, sceglievano un vino che poteva esprimersi al meglio con una certa quantità di anni alle spalle. La longevità era la misura stessa della nobiltà di un vino: più era capace di sfidare le ingiurie del tempo, più era pregiato

Probabilmente da quando l’Italia ha cominciato a lavorare in modo generalizzato sulla qualità del vino, ha anche puntato a una maggior prontezza. Oggi effettivamente molti rossi del Bel Paese hanno tannini setosi fin da quando vengono posti in vendita, ma questa già raggiunta armoniosità ha avuto un effetto imprevisto: ha tolto nell’italiano (ci riferiamo al consumatore in senso generale, non al vero appassionato) che li beve, l’interesse per la loro successiva evoluzione, che nel passato invece sollecitava l’attenzione e il piacere. Molti produttori, da una parte perché il mercato richiede vini pronti, dall’altra anche perché esiste la necessità di far cassa senza attendere anni, hanno cavalcato quest’onda.

Aver trascurato questo valore potrebbe aver ridimensionato l’immagine, la reputazione e quindi anche il posizionamento dei vini italici, sia bianchi sia rossi, dotati della capacità di essere longevi.

Per chi beve vino fuori dai confini italici, chiedere di assaggiare annate “vecchie” è la norma, è un parametro per comprendere fino in fondo, oltre alle caratteristiche del vitigno in una determinata area, anche le capacità professionali. Spesso molti dei nostri produttori non hanno neppure una biblioteca dei loro vini, aspetto che dovrebbe essere essenziale anche per loro stessi, per capire come evolvono nel tempo i propri vini e non solo per le vendite all’estero (dove i consumatori in generale apprezzano più di noi la longevità, basti pensare ai francesi o agli inglesi).

In Italia non mancano certo esempi di grandi vini rossi da invecchiamento, sparsi un po’ in tutta la penisola (con maggior concentrazione nelle zone di Barolo, Barbaresco, Montalcino, e in genere in Toscana) celebri e rinomati. Che finiscono spesso nelle case d’aste o nei fine wines internazionali. Ma quanti italiani sono disposti a “investirci”, anche come riferimento progettuale enologico?

Non parliamo poi dei vini bianchi, che nell’immaginario comune devono essere tutti bevuti nell’arco dell’anno. Molti purtroppo pensano che i bianchi siano meno portati dei rossi a migliorare invecchiando. Invece l’Italia degli autoctoni bianchi si presterebbe molto a essere culla di vini di affinamento. Abbiamo un grande patrimonio genetico di vitigni capaci di mantenere freschezza e acidità nel tempo. Qualche esempio? Verdicchio, Soave, Lugana, Vermentino, Fiano, Greco, Carricante, Trebbiano d’Abruzzo, Gewurztraminer, Gavi, Grechetto e la lista potrebbe continuare. Alcuni produttori ne sono consapevoli e ci stanno lavorando, aiutati da consorzi che danno voce a questo importante aspetto.

La percezione del consumatore (oseremmo dire il pregiudizio) può essere cambiata solo con l’esperienza diretta dell’assaggio, che può spalancargli un mondo nuovo, finora sconosciuto. Vivere l’esperienza della longevità nella degustazione da una parte, puntare con un progetto enoico al miglioramento in bottiglia negli anni dall’altra, ci aiuterebbe tutti ad alzare il capo, guardando verso orizzonti più ampi.


ALESSANDRA PIUBELLO

Giornalista e scrittrice veronese, degustatrice professionista, è Direttore di numerosi periodici e autrice di libri e reportage di turismo gastronomico. Vanta collaborazioni con testate di rilievo nazionale e internazionale ed è presenza costante nelle commissioni dei più rinomati concorsi enologici al mondo.