Cà du Ferrà riscopre il Ruzzese: un vino che, in punta di piedi sull’assunto veronelliano dolce non dolce, dal passato si libra verso il futuro

di Marco Magnoli

Vigneti in località Bonassola

Devil that I know è un brano che riflette la fugacità dell’esistenza e, quindi, dell’amore, svelando l’amaro contrappasso da scontare per vivere una vita piena. Jacob Banks, tuttavia, è artista dalla sensibilità sottile e pare suggerirci come la finitudine non privi le cose, i sentimenti e i turbamenti della loro meraviglia.

Perché ciò che abbiamo è solo il viaggio e la magia sta tutta lì.

«We came forward / Running backwards»

Così canta Banks ed è curioso pensare che, in fondo, a Cà du Ferrà, con il sorprendente diciassettemaggio Liguria di Levante Passito 2020, Davide Zoppi e Giuseppe Aieta abbiano fatto proprio questo: correre indietro a ripescare il ruzzese, antico vitigno del quale si erano perse le tracce per quasi un secolo, e dal passato trarre un vino che si getta a capofitto nella modernità del presente per slanciarsi dritto nel futuro.

Inutile, però, raccontare ormai di un vino e di un vecchio vitigno la cui storia è puntualmente riferita dai tanti articoli già scritti e pubblicati in rete o sulla carta stampata.

Del resto “diciassettemaggio” non è semplicemente vino, ma anche una storia di vita, passioni e stupori, narrata con rara intensità nell’insolito carattere di un passito che delle più abituali note dei passiti non ha poi molto.

Diciassettemaggio Liguria di Levante Passito 2020

Un calice dalle dorate sfumature d’ambra e topazio che non sprigiona albicocche essiccate, né uvetta passa, né fichi secchi, né miele d’acacia o di castagno; è, piuttosto, un dischiudersi di incantate spezie orientali, pasta di mandorla e babà, di insuete, lievissime allusioni di torba appena accennate, erica, setosi petali vagamente sfioriti e dolcezza; una grande dolcezza che pure così dolce non è, rinverdita da una continua frescura agrumata che fiancheggia e tiene a bada la grassa pienezza del sorso.

In realtà “diciassettemaggio” non merita di essere anatomizzato, alla ricerca di meticolose corrispondenze che ne farebbero svaporare la singolarità.

La sua anima dimora in quell’esatto colore, in quel profumo, in quel gusto, identità unica e non replicabile sbocciata da una terra di delicata bellezza e struggente malinconia qual è il golfo di Bonassola, raccolto in un anfiteatro di colline da cui lo sguardo spazia sempre più vasto man mano che si risalgono la macchia, i boschi, i pini marittimi, gli ulivi e i vigneti aggrappati alle balze terrazzate; su fino ai Piani di Cà du Ferrà, dove il ruzzese alligna con fiero portamento.

«No one man’s a island», canta ancora Banks ed è quasi un sunto di umanità. Davide e Giuseppe si sono trovati per farsi compagni di vita, vivere se stessi in un cammino che dovrebbe apparire scontato ma che in tanti continuano a osteggiare. Eppure «Somehow we made it / Although jaded», nonostante buona parte del nostro dissennato mondo ancora oggi neghi a molti la libertà di essere e, dopo essere stati, di andarsene con dignità: «What a way to die / Standing eye to eye / Pretending we’re alive / As we grow colder».

E ancora una volta l’uomo si appella al vino. Una stilla dopo l’altra, provo ad assaporare di nuovo l’essenza di questo Ruzzese, consapevole di come, anche per il vino, essa non sia una scelta, bensì pura espressione di individualità: «But we’re still chasing / For that feeling».

Lascio, dunque, la Liguria più ricco delle emozioni intense, a tratti inattese, ma sempre sincere di cui, pur in pochi giorni, mi hanno fatto dono Bonassola, il ruzzese e due persone autentiche: talvolta i viaggi, i più lunghi come i più brevi, alla fine si raccolgono in un attimo, un gesto, un’espressione; oppure in un calice di passito che confonde insieme profonda umanità e terroir, una sintesi perfetta così come lo è, nella sua incosciente consapevolezza, ogni storia d’amore.

«Could it be more?»


MARCO MAGNOLI

Deve alla tradizione familiare la passione per i vini di qualità e a Luigi Veronelli, incontrato nel 2001, l’incoraggiamento ad occuparsi di critica enologica. Dal 2003 è collaboratore del Seminario Permanente Luigi Veronelli. È tra i curatori della Guida Oro I Vini di Veronelli.