LATTE CAGLIO SALE
di Irene Foresti

Trasformare il latte in formaggio è davvero così semplice come suggerisce l’elenco dei suoi stessi ingredienti, latte, caglio, sale?

Così su due piedi verrebbe da dire di sì, anche in considerazione del fatto che l’uomo ha imparato a produrre formaggio almeno 12.000 anni fa e che fino al secolo scorso erano in molti, soprattutto le donne, che si destreggiavano con la caseificazione casalinga per ottenere prodotti destinati all’autoconsumo familiare.

Quello del casaro, tuttavia, non è un semplice lavoro tecnico-manuale, poiché presuppone una grande esperienza e una profonda conoscenza delle peculiarità chimico-fisiche e microbiologiche del latte, del formaggio e del quadro normativo di riferimento, oggi piuttosto vasto e ingarbugliato.

Certamente, fino a tempi piuttosto recenti, i casari erano analfabeti o, comunque, privi di una vera e propria formazione scolastica, e quindi non possedevano nemmeno i rudimenti della chimica e della microbiologia. Tuttavia, grazie alla continua sperimentazione sul campo e al tramandarsi delle esperienze, hanno contribuito al progressivo sviluppo delle odierne tecniche casearie.

Come si «faceva», dunque, il formaggio prima del progresso tecnico attuale e della scolarizzazione degli addetti ai lavori? Quali erano gli strumenti utilizzati dai casari e le nozioni empiriche che mettevano in campo?

Tutto cominciava (ieri come oggi) con la mungitura dell’animale.

In questa fase si poneva molta attenzione ad adottare tutti gli accorgimenti necessari per evitare di compromettere la salubrità del latte.

Mungendo manualmente, in stalla o direttamente sul pascolo (luoghi certamente non puliti né tantomeno sanificati), il rischio principale era che nel latte stesso finissero deiezioni, peli dell’animale e sporcizia varia.

Per questo, prima di accingersi a mungere si pulivano preventivamente le mammelle con latte o acqua, si legava la coda dell’animale a una zampa (evitando così che si immergesse nel liquido) e si filtrava il latte appena munto attraverso colini di legno foderati di tela o substrati filtranti vegetali come rami, foglie ecc.

Quando gli animali non erano stallati, nel periodo estivo, si mungeva quasi sempre direttamente sul pascolo, seduti su uno sgabello a una sola gamba e tenendo il secchio stretto fra le ginocchia.

A seguito della mungitura, il latte poteva essere destinato direttamente alla caseificazione oppure conservato nei «caselli del latte».

Questi «caselli» erano manufatti rurali costruiti nei pressi di sorgenti spontanee a ridosso dei pendii erbosi, cosicché l’acqua potesse penetrare al loro interno al fine di mantenere una temperatura del latte fresca e costante in ogni stagione. Una sorta di archeo-frigorifero.

Quando era il momento di avviare la produzione del formaggio, il latte veniva versato nella caldaia (simile al paiolo della polenta) e addizionato di caglio per avviarlo alla coagulzione.

A seconda del tipo di formaggio che si voleva ottenere, il latte poteva essere scaldato (oggi diremmo pastorizzato) oppure no e addirittura c’erano formaggi, come ad esempio gli stracchini, che erano caseificati a «munta calda», ossia a temperatura di mungitura.

Oggi si utilizza prevalentemente caglio di vitello, ma la storia del formaggio ha visto l’avvicendarsi di diversi tipi di caglio, fenomeno che non deve stupire se si pensa che sicuramente le prime cagliate avvennero accidentalmente e che, finché l’uomo non trovò il modo di ottenere il caglio dallo stomaco dei giovani bovini, dovette ricorrere a vari espedienti per far coagulare il latte.

A tale scopo, in passato si sono utilizzati aceto, zafferano e vari cagli di origine vegetale, fra cui cardo, cavolo, aglio, limone e soprattutto il caglio di fico, del cui uso hanno scritto numerosi autori greci e latini (Euripide, Aristotele, Plinio ecc.).

Tornando agli aspetti produttivi, per capire quando la cagliata era pronta per essere «rotta», in assenza di strumenti di precisione (termometri, densimetri ecc.) i casari erano soliti immergere il braccio nella massa caseosa per valutarne la temperatura e saggiarne la consistenza con metodi come l’ascolto del rumore prodotto dalla percussione della caldaia, il saggio con le mani ecc.

La successiva rottura del coagulo (utile per separare la massa solida dal siero) avveniva poi con tecniche diverse: per i formaggi a pasta dura e secca era necessario che la rottura producesse grani di piccole dimensioni, mentre per formaggi più morbidi i grani dovevano avere di dimensioni maggiori, in modo che restassero più idratati.

In questa fase si impiegavano degli strumenti che sono gli antenati delle attuali attrezzature a lama: la «basla» (nome bergamasco di un attrezzo simile ad una grossa fondina), lo spino, la lira, la «palèta» ecc.

Nelle loro forme evolute oggi sono rigorosamente in acciaio inox o teflon, ma fino all’avvento della normativa sulla sicurezza alimentare erano in legno, paglia, frasche (come nel caso dello spino) ecc.

Una volta rotta, la cagliata era estratta dal siero con l’ausilio di una tela e messa in forma, pressata e posta a riposare sugli spersoi, affinché potesse perdere il siero in eccesso, che la sola pressatura non avrebbe potuto eliminare. Questa fase era spesso agevolata dall’apposizione, fra la forma e il ripiano, di paglia o di foglie di vario genere (felce, fico, cavolo, come nell’uso romagnolo).

Le forme (o fascere) potevano essere rotonde o quadrate e di dimensioni diverse a seconda del formaggio da ottenere e avevano nomi diversi, sia in funzione delle loro caratteristiche precipue che delle varie declinazioni, italiane e dialettali, fra cui cascino, fiscella, «caròtole», «fassaröl», «cassetèra» ecc.

Le forme, nel corso della storia, sono state costruite con materiali diversi: la terracotta forata di epoca romana, i materiali vegetali intrecciati, la corteccia, il legno uno ad arrivare agli attuali(e obbligatori) MOCA (Materiali e Oggetti destinati al Contatto con gli Alimenti).

A questo punto, ogni formaggio veniva avviato alle fasi di rimozione dalla fascera, salatura (a secco o in salamoia), maturazione ed eventuali ulteriori lavorazioni (come ad esempio l’affumicatura) a seconda delle proprie caratteristiche specifiche.

Del latte e della sua lavorazione non si sprecava nulla, poiché oltre alle attività collaterali di produzione del burro (ottenuto dalla panna derivante dalla scrematura del latte) e della ricotta (ricavata dal siero) era uso destinare l’eventuale siero rimasto all’alimentazione dei maiali oppure si usava il latticello (residuo della lavorazione del burro) per condire la polenta.

La complessità di queste operazioni era condizionata dalla stagione e dal luogo di caseificazione ovvero dalle condizioni ambientali (temperatura, umidità ecc.) e microbiologiche di produzione e maturazione del formaggio.

Per quanto rudimentale, un caseificio ha sempre posto meno variabilità nel processo produttivo e del prodotto finito rispetto alla produzione di fortuna realizzata in alpeggio in strutture posticce, come ad esempio i «barek» della Valle Brembana (recinti di muretti a secco sormontati solo da un tendone), luoghi (e meno spesso locali).

Infine, per dovere di cronaca, va detto che alcuni casari, pur nel loro empirismo, avevano precorso i tempi mettendo a punto vari stratagemmi per «correggere» forme non proprio ben riuscite o per renderle più gradevoli agli occhi ed ai sensi consumatore finale.

Al formaggio si aggiungevano, per esempio, zafferano (per farlo apparire più giallo e grasso), minio (ossido di piombo), Terra di Vicenza o argilla bianca, solfato di bario e vari altre sostanze che, se non irreversibilmente tossiche, erano quantomeno non commestibili; c’era anche chi, in provincia di Brescia, «arricchiva» la cagliata con grasso animale di dubbia provenienza per fare apparire più grasso il formaggio.

Oggi tali astuzie sarebbero frodi, ma non sapendo se i casari abbiano agito con il dolo e non essendoci (ai tempi) leggi stringenti come quelle odierne, possiamo limitarci ad osservare, ancora una volta, come l’attività casearia abbia ruotato per millenni attorno a tecniche e tecnologie sperimentali.

Questo aspetto, unito al fatto che il formaggio ha goduto di una notevole produzione per autoconsumo fino al secolo scorso ha fatto sì che attorno al suo mondo siano fiorite varie forme di superstizione, credenze popolari e leggende.

Se in Calabria e Romagna si credeva che la cagliata non dovesse essere guardata per evitare il rischio che non coagulasse correttamente, altrove fiorivano interventi «tecnici» per evitare che il formaggio si gonfiasse (evento assolutamente da evitare poiché la forma non sarebbe stata commercializzabile) utilizzando foglie di fico, ortica, lumache (sic!)…

Si può dunque capire come, per quanto empirica e legata alla continua sperimentazione sul campo, la trasformazione del latte in formaggio ha sempre richiesto un certo tipo di professionalità.

Anzi, ci si potrebbe persino spingere ad affermare che quella del casaro è, accanto a quelle di cuochi e norcini, tra le prime professioni del settore alimentare che si sono delineate come ruoli per il cui esercizio non serve solo buona manualità e tecnica, ma anche e soprattutto una conoscenza, seppur derivante dall’osservazione di fenomeni naturali e dai vari tentativi andati a vuoto.


Irene Foresti

Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Si è occupata professionalmente di grande distribuzione food, educazione alimentare, marketing e comunicazione. È Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva. Appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche e ha pubblicato Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020). La sua ultima pubblicazione è Casoncelli. Storia e identità della pasta ripiena più amata da bergamaschi e bresciani  (Centro Studi Valle Imagna, 2021).