LATTE CAGLIO SALE, rubrica di Irene Foresti
Il latte è un po’ come il maiale: non se ne butta via nemmeno una goccia.
Entrambi rappresentano due delle principali risorse dell’economia rurale di un tempo, quando quasi tutto era di autoproduzione e destinato all’autoconsumo. Pochi prodotti alimentari si acquistavano in bottega o si ottenevano mediante baratto.
Si tratta di modelli di organizzazione delle risorse e produzione di alimenti che oggi verrebbero detti (a ragione) economie chiuse, ossia senza scambi o comunque con poche interazioni con l’esterno.
Il latte era per la maggior parte trasformato in formaggio, ma il lavoro dei casari doveva necessariamente concentrarsi anche sullo sfruttamento o riutilizzo di quelli che potrebbero definirsi scarti di lavorazione, anche se scarti proprio non sono. Si tratta del siero rimasto dopo l’estrazione della cagliata e della panna residua dalla scrematura (totale o parziale) del latte stesso.
Dal siero, ricotte bianche, lavorate e stagionate
Il primo, a seconda delle necessità e dei periodi, poteva essere destinato ad arricchire il pastone dei maiali oppure veniva trasformato in ricotta. Non si trattava, tuttavia, della ricotta bianca e dal sapore delicato cui siamo abituati oggi, bensì di una vasta gamma di prodotti dal profilo sensoriale più marcato e deciso poiché sottoposti a diversi trattamenti conservativi.
Solo in alcuni casi ed in alcune zone si producevano ricotte fresche da consumare nell’immediato. In Romagna, per esempio, la ricotta di produzione casalinga era utilizzata fresca come ingrediente per il ripieno dei cappelletti o per farcire la piada. Diversamente, per fare in modo che la ricotta durasse più a lungo si usava affumicarla al focolare o su graticci, ma c’era anche chi usava peparla, salarla, farla fermentare, aggiungere altri ingredienti (peperoncino, grappa ecc.) o combinare vari metodi. La conservazione avveniva poi in locali con buona aerazione, a temperatura adeguata ed al riparo dalle intemperie, spesso avendo l’accortezza di avvolgere il prodotto in foglie ricavate da varie specie vegetali, per fare in modo che restasse più fresco.
Più che di conservazione, tuttavia, sarebbe corretto parlare di stagionatura, visto che questa fase aveva il precipuo obiettivo di consolidare il prodotto, al pari di quanto avveniva per il formaggio. A seconda del latte di origine e del tipo di lavorazione, infatti, la ricotta poteva coprirsi di muffe di vario colore (marrone, blu ecc.) o persino «fare» i vermi (come nel caso del serè valdostano). Si tratta di prodotti che potevano ricevere i nomi più disparati, a seconda delle tradizioni locali, come per esempio mascherpa, puina, zincarlin o zigher (Lombardia), seirass (Piemonte), serè, brossa e salignon (Val d’Aosta) e scueta sécia (Friuli).
Si trattava di produzioni importanti non solo per non sprecare il siero che, ricordiamoci, nonostante residui dalla lavorazione del formaggio ha un profilo nutrizionale proteico piuttosto rilevante. Le ricotte rappresentavano un’importante produzione collaterale, un’ulteriore entrata economica in quanto erano prevalentemente destinate alla vendita o occasionalmente utilizzate come pagamento in natura dei lavoranti di cascina o alpeggio. La mascherpa, in particolare, era un prodotto di pregio poiché spesso ottenuta da siero addizionato di latte, tant’è che Pantaleone da Confienza (il medico quattrocentesco autore del famoso Summa lacticiniorum) asserisce chiaramente che la qualità della mascherpa stessa è superiore a quella della semplice ricotta.
Questi prodotti sono oggi di nicchia (a causa del mutamento dei gusti dei consumatori e dell’evoluzione del comparto) o di difficile reperimento (hanno delle caratteristiche che non le rendono a norma per la sicurezza alimentare, un po’ come il casu marzu sardo). Per fortuna, con un po’ di pazienza e qualche aggancio, si possono ancora trovare presso alcuni irriducibili (ed ammirevoli) produttori.
Il liquido residuo dalla produzione della ricotta, in genere detto scotta, poteva essere ulteriormente reimpiegato per l’alimentazione dei maiali o come coadiuvante in cucina (per esempio in Romagna ed in Toscana sostituiva l’acqua usata per ammollare il pane raffermo), ma anche come integratore alla dieta di persone fragili (bambini, anziani ecc.).
Il burro, un’antica “merce-moneta”
La panna (o crema che dir si voglia), invece, era avviata alla produzione del burro come accade ancora oggi, un’abitudine che, tuttavia, non è sempiterna. Infatti, sebbene la presenza di una frazione grassa all’interno del latte sia sempre stata conosciuta (come testimoniano le annotazioni di autori quali Aristotele e Alberto Magno), la produzione del burro ha cominciato ad assumere caratteristiche di particolare diffusione solo tra il XV ed il XVI secolo.
A tal proposito, è più corretto parlare di produzione che di consumo, in quanto questo grasso alimentare era prevalentemente utilizzato come merce-moneta. Lo si vendeva o lo si impiegava come metodo di pagamento di varie pendenze economiche non diversamente saldabili (tasse, affitti ecc.) oppure come pegno o garanzia. In particolare, i panetti di burro destinati alla vendita erano decorati con motivi geometrici o floreali mediante l’ausilio di appositi attrezzi come palette, stampi, battiburro, tavolette, rulli o assicelle. Questa sorta di etichettatura pubblicitaria ante litteram era piuttosto diffusa lungo tutto l’arco alpino, dove il più antico oggetto marcaburro ad oggi conosciuto risale all’inizio del XVII secolo.
Va comunque precisato che le tecniche di lavorazione della panna per ottenere il burro non sono «nate» dal nulla e non sono mai state omogenee lungo la Penisola (si pensi anche solo alla sua diversa diffusione nelle cucine tradizionali del centro, del sud e del nord). Si tratta, infatti, di produzioni latenti (in epoca romana, per esempio, il burro aveva solo un uso medicinale) che hanno potuto prendere piede ed espandersi quando ci sono state determinate condizioni: dapprima il suo cambio di statuto da alimento nobile a condimento popolare ed in seguito (nel XIX secolo) i primi timidi accenni tecnologici, i quali hanno reso possibile l’ottenimento di maggiori volumi produttivi (come le centrifughe meccaniche, più performanti delle vecchie zangole). Tuttavia, la sua connotazione nobile non era legata solo al consumo da parte di conti, duchi e quant’altro, bensì anche da parte del clero che (un tempo) era in genere di rango nobile.
Ed è stato proprio il clero a dichiarare il burro quale cibo di magro mediante apposite dispense papali (sic!).
La concorrenza dei grassi vegetali e la produzione casalinga
Solo negli ultimi decenni, l’epopea del burro ha cominciato a tramontare in favore dell’olio d’oliva o di grassi alimentari alternativi (come la margarina), sia per le campagne volte a promuovere una sana alimentazione, sia per la sua perdita di valore come merce-moneta (generata soprattutto dall’aumento del potere di spesa del consumatore e dallo sviluppo delle produzioni industriali).
Le alterne vicende storiche del burro hanno determinato evoluzioni periodiche dell’intero mercato caseario. Infatti, se in un primo momento la diffusione del consumo del burro stesso ha favorito la zootecnia volta all’allevamento di animali lattiferi e l’uso di produrre formaggi magri, questi ultimi sono tornati ad essere grassi quando l’impiego del burro è andato scemando.
Il burro, comunque, è stato sempre oggetto di una discreta produzione casalinga, visto che molte famiglie disponevano di pochi capi di bestiame e costruire una zangola di legno non era così difficile. Si potevano utilizzare tronchi cavi dotati di un rudimentale stantuffo (o pistone) ma anche vasi di vetro, i quali potevano essere sbattuti a forza di braccia o mediante manovelle metalliche che a loro volta azionavano delle pale rotanti. Quando il burro casalingo veniva prodotto in quantità maggiori rispetto alle reali necessità o alle probabilità di vendita, si adottavano diversi stratagemmi per evitare che irrancidisse. Se ne riduceva la frazione acquosa (per fusione al calore o salatura) ed in seguito lo si conservava in vasi di terracotta o materiali refrattari. Ma si usava anche conservarne i panetti nella ghiacciaia o in acqua mantenuta costantemente fredda, coprendo costantemente il prodotto del giorno prima con quello del giorno successivo.
Come accadeva per la scotta residua dalla lavorazione della ricotta, anche il latticello derivante dalla zangolatura del burro veniva sempre riutilizzato. Il così detto lac’ dè penègia, infatti, era molto appetibile in quanto dolce e pannoso e dunque veniva bevuto tale e quale, ma anche utilizzato per intingervi la polenta a colazione, come ingrediente di varie preparazioni o, più raramente, come cibo per maiali e vitelli o materia prima per un’ulteriore caseificazione di formaggi (per così dire) minori o «deboli» (come lo Squacquerone).
Non chiamiamoli formaggi
Ricotta e burro, sebbene intimamente legati al formaggio, non possono essere chiamati allo stesso modo, pena una denuncia per frode in commercio, azione che è tutt’oggi considerata un reato penale. Non si tratta di un comportamento dei giorni nostri, tant’è che in un Regio Decreto del 1925, dal titolo (appunto) «Repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio di sostanze di uso agrario e di prodotti agrari», si trova scritto chiaramente come il nome formaggio debba essere:
«riservato al prodotto che si ricava dal latte […] in seguito a coagulazione acida o presamica».
Va da sé, dunque, che prodotti ottenuti da liquidi diversi dal latte non possano essere chiamati formaggio. Ciò non toglie che burro e ricotta siano prodotti di tutto rispetto, di alto profilo storico-culturale e di rilievo nella tradizione gastronomica e culinaria del Bel Paese, i quali con il tempo si sono costruiti un comparto produttivo-commerciale del tutto autonomo, arrivando oggi a coprire ampi segmenti del mercato lattiero-caseario.
Irene Foresti
Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Si è occupata professionalmente di grande distribuzione food, educazione alimentare, marketing e comunicazione. È Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva. Appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche e ha pubblicato Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020). La sua ultima pubblicazione è Casoncelli. Storia e identità della pasta ripiena più amata da bergamaschi e bresciani (Centro Studi Valle Imagna, 2021).