Wine Taster’s Complaint
di Marco Magnoli

VINO: “Più è cattivo, più è genuino”.
Gustave Flaubert – Dizionario dei luoghi comuni

«Il colore è carico di riflessi persino ambrati, attraversato da bagliori grigiastri, quasi plumbei, che ne ricordano le radici, l’humus dal quale proviene…

Il profumo è un fiorire di fiori sfatti, di estivi ricordi di acre sepolcreto, un memento mori dal piglio crepuscolare, a tratti decadente, ma mai minimalista, anzi vigoroso nelle sue piene zaffate di petalo marcescente, di buccia di mela dimenticata a lungo su un piatto a declamare il suo monologo, libera di disegnare improbabili eppur così reali correspondances con i più mediterranei mari d’Africa, con le assolate coste trapanesi, con il continuo lavorio dei tini del perpetuum

Il sorso, poi, è un lento assorbire e riassorbire gli umori del terreno, del territorio che si infiltra nella pianta e si ridisegna nella polpa e nelle bucce, per poi raccontarsi carico di emozioni nel calice e, finalmente, sul nostro palato.

Di nuovo i mari del sud con i loro caldi e volatili aromi, di nuovo la cotognata, la mela e la pera cotte che riscaldano i ricordi di bambino, la nonna col cucchiaino, il pungente sciroppo per curare qualche improbabile malanno…

Ecco cosa può darci l’uva abbandonata alla sua più naturale evoluzione.

E noi, riconoscenti, ci inchiniamo a chi ha lasciato che un tale vino prendesse vita, alla superba e suprema arte del laissez-faire, laissez-passer che dovrebbe ispirare l’opera di ogni vero vigneron, la cui solenne vocazione deve essere quella di far cantare il territorio con schietta sincerità, disvelandolo nella sua purezza. Per sottrazione.»

Questo testo leggero e benevolmente canzonatorio circolava in maniera semiclandestina tra un ristretto gruppo di appassionati all’epoca in cui quei vini, che avrebbero ottenuto fama e celebrità sotto l’etichetta forse un poco imprecisa e sviante di “vini naturali”, cominciavano a trasformarsi da nicchia di prodotti un poco naïfs, frutto di convinzioni decisamente alternative sul fare e comprendere il vino, in veri e propri feticci alla moda.

In quel periodo uno dei leitmotiv più diffusi in alcuni ambienti enoici era l’idea che l’uomo dovesse quasi farsi da parte ed impegnarsi solo nel rendere il vino essenziale, nell’asciugarlo da qualsivoglia orpello, tecnico, stilistico o interpretativo, che valesse ad inficiare il più genuino ed autentico trasfondersi del territorio e del vitigno nel calice. Produrre vino “per sottrazione”, appunto.

Il problema era che tali orientamenti si traducevano diffusamente in vini che, lungi dal raccontare senza filtri le loro origini, uniche e irripetibili, si appiattivano su caratteristiche organolettiche tutt’altro che distintive, bensì segnate da comuni imperfezioni (o difetti) riconducibili a macerazioni non proprio pulite, a fermentazioni spontanee ma devianti, ad ossidazioni spinte e via così di male in peggio.

Sentori che, peraltro, qualsiasi neofita iscritto a un corso di degustazione di base, ma dotato di un minimo di naso, palato e obiettività, avrebbe immediatamente percepito e biasimato.

Il lezioso testo da cui abbiamo preso le mosse intendeva di fatto stigmatizzare l’effetto pratico che il più delle volte scaturiva dalle varie filosofie “naturiste”, spesso foriere di profonde ispirazioni ideologiche, ma insieme anche di esiziali miasmi.

Eravamo convinti che il tempo, di solito galantuomo, avrebbe provveduto, se non proprio a far piazza pulita, almeno a stemperare e moderare le posizioni più estreme, incoronando i progetti più seri e curati e facendo giustizia delle avventure più sventate o meramente opportunistiche e con esse dei tanti vini pessimi che ne derivavano.

In realtà l’evoluzione per molti versi è stata un’altra, spinta forse dalla voglia di trovare sempre e comunque qualcosa di nuovo in un mondo – quello enoico – dove ormai la qualità, la perizia tecnica e la coerenza stilistica hanno raggiunto livelli davvero elevati e consolidati, con il risultato che fare la differenza diventa sempre più complicato.

In questi mesi dedicati alle degustazioni per la nuova edizione della Guida Veronelli, è purtroppo capitato di  imbattersi ancora in diversi vini – non moltissimi, in realtà, ma pur sempre troppi – segnati da difetti e imprecisioni, non particolarmente nitidi o puliti, nati da scelte temerarie votate al più radicale “non interventismo” o, per contro, talvolta anche al più sguaiato e accanito “interventismo”.

Scelte sovente rivolte solo a tentare strade inesplorate, impervie e in definitiva sciagurate alla ricerca di una facile trovata eclatante o del colpo di teatro (e quasi mai di genio).

Più passano gli anni, tuttavia, e più ci convinciamo che la ricerca della novità o di nuove espressività non debba mai derogare alle più essenziali virtù di un vino d’eccellenza: la personalità distintiva, il fascino, l’eleganza e, fondamentale, la piacevolezza.

Solo così il territorio e le sue tradizioni – dunque, in definitiva, sempre l’uomo con le sue storie – saranno in grado di svelarsi in modo nitido, realmente genuino, vitale e illuminante, raccolti in un calice di delizioso, gustoso e profumatissimo vino.

Come possiamo, per concludere, sintetizzare in poche parole questo lungo e un poco tedioso “lamento” di un degustatore stremato dal caldo e dai tanti assaggi?

Avrete senz’altro letto il luogo comune che abbiamo posto in epigrafe. Ebbene, Flaubert era giustamente convinto che nei luoghi comuni si celasse una delle più diffuse e radicate caratteristiche dell’umanità: la bêtise.

CREDITI IMMAGINI PITTORICHE: Mariam Galstyan – Tecnica mista su carta – 2014 – CC BY-SA 4.0.


MARCO MAGNOLI

Deve alla tradizione familiare la passione per i vini di qualità e a Luigi Veronelli, incontrato nel 2001, l’incoraggiamento a occuparsi di critica enologica. Dal 2003 è collaboratore del Seminario Permanente Luigi Veronelli. È tra i curatori della Guida Oro I Vini di Veronelli.