La straordinaria vita di Gianluigi Morini si è conclusa ieri: ottantacinque anni i suoi, cinquanta esatti quelli del San Domenico, luogo per cui è forse più calzante la definizione di “patrimonio della cultura materiale” rispetto al generico titolo di ristorante.
Morini, Bergese, Marcattilii: grazie al loro pensiero e alle loro mani – seguiti e consigliati, passo passo, da Luigi Veronelli – la cucina e l’arte dell’accoglienza hanno toccato nuovi vertici, hanno dato alla parola “qualità” un significato nuovo.
Per il Seminario Veronelli è stato un onore avere tra i propri Soci quest’uomo geniale e ciascuno dei suoi ospiti a Imola conserverà – siamo certi – di ogni singola visita al San Domenico un ricordo emozionante e indelebile.
A Valentino e Natale Marcattilii, a Massimiliano Mascia e a tutti i collaboratori del San Domenico vogliamo esprimere la nostra vicinanza ripubblicando un breve testo del 2004 apparso sul numero 75 di Veronelli EV, bimestrale di vini, cibi e intelligenze, creato e diretto dal nostro fondatore.
Al San Domenico con Luigi Veronelli
Andrea Bonini, Veronelli EV, N.75, Febbraio-marzo 2004
Gianluigi Morini ci ha attesi sulla piazza a giardino, con il sorriso fermo dell’intelligenza esperta.
Non parla a voce alta, non si sbraccia, non ride sonoramente.
Il San Domenico è lo spazio dell’Ordine e della Misura. Così esatti, nelle campane discrete, sincrone a schiudersi, nei sottopiatti, nell’argenteria da portata, nei pani, nel tovagliato, nelle ceramiche stesse. Qui si racconta la storia delle parole, dei gesti, dei casi, qui si lavora la bellezza; l’aggrovigliato, continuo mutare delle cose giunge, si svolge e s’appiana al nostro tavolo, allo stesso modo cui v’arriva Valentino Marcattilii, chef.
Prima il suo Code di scampi del Quarnaro e caviale imperiale con tortino di patate all’olio di peperoni dolci e basilico, il crostaceo fatto dolce dalle acque croate.
Non è in carta, nasce per chi ne ha ricordo e desiderio, il Riso mantecato con burro, parmigiano e sugo d’arrosto Nino Bergese. Anche metrico nella cottura e nella consistenza del legame. Mantèca è il burro ancora in certi dialetti meridionali, per eredità spagnola. Crema, tiene la forma pentagonale d’un cuoco – ora so – geometrico, nervato da fondo ridotto sul colore solenne, da antico paramento ecclesiale.
Arriva, dicevo, Marcattilii, ritorna con il Guancialino di bue brasato al vino bianco. Sono convinto d’essere stato piacevolmente ingannato. Non era carne. Certo è stato inventato un impasto, un soufflé esoterico, con una buccia, un esocarpo di geniale gelée. Perché non mi è stato portato, a mangiarlo, il cucchiaio?
Ritorna Marcattilii con la Torta Fiorentina, un adagio di cacao lucente alla foglia d’oro che ha amato perdersi fino al pianissimo in un grandioso whisky d’età.
Ecco Marcattilii, finalmente, lui. Gli stringo la mano con l’imbarazzo di volermi congratulare. Poche parole. Indossa l’aura severa, ma non ostile, del comando.
Dice Morini, a Veronelli amico e a me che scrivo, d’avere da dare agli uomini, con il suo lavoro, due ore felicità leggera “…e a me, che voglio bene alla vita, sembra che farfalle e bolle di sapone, e tutto ciò che vi è di simile tra gli uomini, sappiano più di tutti cos’è la felicità” (Così parlò Zarathustra, W.F. Nietzsche).