Il contributo di Luigi Veronelli al miglioramento qualitativo

di Gigi Brozzoni

Dal 22 al 25 ottobre avrebbe dovuto svolgersi NutriMenti, la nostra annuale rassegna di cultura gastronomica. Dopo due edizioni svolte a Venezia, in collaborazione con Fondazione Giorgio Cini, quest’anno avemmo dovuto essere a Bergamo, nella splendida cornice dell’Accademia Carrara, partner della manifestazione.
La situazione sanitaria e le misure per il contenimento della pandemia hanno sospeso ogni cosa. Così andava fatto, confidando di proporre la programmazione di incontri pubblici nel prossimo futuro.
Grazie alla disponibilità dei relatori, siamo lieti di pubblicare una selezione degli interventi previsti.
Tra gli appuntamenti in programma vi era una degustazione-racconto dedicata a Luigi Veronelli, per ripercorrere l’opera e il pensiero del massimo critico e degustatore del Novecento. Su questo tema, proponiamo il seguente contributo di Gigi Brozzoni, curatore della Guida Oro I Vini di Veronelli.

Non siamo fatti per celebrare niente e nessuno: come Luigi Veronelli, ci sentiamo assolutamente laici e liberi da doveri e rituali di qualsiasi genere e stile. A dieci anni dalla sua morte la nostra preoccupazione continua ad essere quella di divulgare e, se possibile, dare continuità alle sue idee, soprattutto a quelle che hanno sconvolto la viticoltura italiana dalla fine degli anni Cinquanta fino al giorno d’oggi. Dobbiamo, per prima cosa, analizzare, sezionare e scansionare l’imponente lavoro che in cinquant’anni Luigi Veronelli ha svolto avvalendosi di tutti gli strumenti comunicativi che riusciva ad agguantare, a domare e a fare propri perché, così come le sue idee, anche il linguaggio attraverso il quale le esprimeva era del tutto originale, personale ed esclusivo. Negli anni Cinquanta, quando Veronelli iniziò ad occuparsi di vino e di cibo, mancava uno specifico lessico che sapesse descrivere e comunicare tutto ciò che li riguardava, compresi gli aspetti di piacevolezza che offrivano. A quei tempi il godimento che si poteva trarre dall’alimentarsi veniva bollato come peccato di gola. L’indugiare sui piaceri derivanti dall’assunzione di vini e di cibi, anche senza eccessi, significava indurre in tentazione o addirittura istigare al peccato, perché nell’Italia democristiana e degasperiana del dopoguerra si era ripristinato un clima culturale oscurantista e bacchettone che guardava con sospetto ogni espressione del piacere. Ma era dal Millecinquecento, dopo i Bartolomeo Platina e Francesco Redi, i Sante Lancerio e Andrea Bacci, che non si parlava di vino e di cibo anche in termini edonistici e, quindi, Luigi Veronelli prima di ogni cosa doveva inventarsi un linguaggio che potesse traghettare l’edonismo del vino e del cibo in ambito culturale, materiale ed umanistico. Bisognava fare uscire i “piaceri onesti” dal ghetto dei beoni e dei lascivi dove erano stati reclusi o relegati per molti secoli. Anzi, più che una lingua ha dovuto inventarsene due: una piuttosto tecnica, adatta a raccontare le descrizioni organolettiche dei vini (occhio, naso, bocca) e destinata al pubblico più ampio degli appassionati, dei consumatori, dei sommelier e dei distributori; la seconda, più colta e raffinata, anche complicata a volte, ad uso dei comunicatori, giornalisti, critici e tecnici. Con questi strumenti comunicativi Luigi Veronelli ha presto fatto uscire il vino allo scoperto, l’ha portato sui quotidiani e non solo sulle riviste specializzate, l’ha portato in televisione quando ancora la Tv muoveva i suoi primi passi e ha messo in gioco se stesso nel suo ruolo di intellettuale, editore e filosofo prima che di giornalista.

Il vignaiuolo

In uno dei suoi primi Cataloghi Bolaffi, Veronelli introduce la scelta dei mille vini del mondo con questa frase di San Bernardino da Siena:

A che si cognoscono le buttiglie, eh?
A le insegne.

A differenza di quanto sosteneva Mario Soldati, Veronelli vuole che le bottiglie abbiano le loro insegne, ovvero che rechino nome e cognome di chi le produce. Vuole che i suoi vignaioli, i suoi contadini escano dall’anonimato e si facciano artefici ed interpreti del loro lavoro, delle loro fatiche e della loro qualità. Ma non bastano il nome e le indicazioni imposte dalle nascenti leggi sul confezionamento degli alimenti; vuole che ciascuno vesta la sua bottiglia con belle etichette che sappiano raccontare i luoghi e le caratteristiche del suo vino. La bottiglia ben vestita dovrà rispecchiare le caratteristiche del luogo e la personalità del vignaiolo, visto che d’ora in poi il suo ruolo diventerà centrale per la costruzione di quel fitto tessuto sociale che Veronelli vuole mettere in primo piano. Il vignaiolo, cioè il contadino che bada alla vigna, diventerà vignaiuolo (suo questo neologismo), cioè artefice anche della trasformazione dell’uva in vino senza le mediazioni e le impostazioni dell’industria enologica che in quel periodo dominava tutto il commercio vinicolo. Il contadino vignaiuolo dovrà imparare a fare bene tutti i mestieri che portano l’uva a diventare un buon vino e per questa ragione Veronelli sente la necessità di incoraggiarlo ma anche di proteggerlo, e lo farà con una delle frasi più famose e provocatorie: il peggior vino contadino è migliore del miglior vino d’industria. Questa frase non ha mai abbandonato il lavoro ed il pensiero di Veronelli, fiero di continuare ad essere un fermo sostenitore di tutte le istanze, di tutte le esigenze dei suoi vignaiuoli. Rischierà di suo, denunce su denunce, incitando alla rivolta i contadini astigiani e sosterrà il loro diritto, al pari dei contadini d’Europa di poter aggiungere zucchero al mosto qualora il clima non consenta giuste maturazioni. Sembrerebbe, questo, un tema superato visto l’andamento climatico degli ultimi anni, ma come possiamo vedere con l’estate di quest’anno, è bene non dimenticare mai le esperienze del passato.

Il cru

Ben prima che il concetto di terroir entrasse a far parte del lessico vitivinicolo (ammesso che ora effettivamente lo sia), Veronelli aveva ben chiaro che la qualità dei vini era la risultanza di diversi fattori strettamente legati ed intrecciati tra di loro, e l’umanista Veronelli non poteva non mettere in cima alla piramide l’uomo, il vignaiuolo; ma sente che la prossima battaglia da affrontare e vincere dovrà essere quella legata al luogo, meglio, allo specifico luogo di produzione, quello che i francesi chiamano Cru. Un concetto che l’industria del vino non può tollerare, tanto che a difesa dei propri interessi metterà in campo tutti i suoi “offiziali” ministeriali e provinciali per impedire che una bottiglia di vino possa certificare e vantare lo specifico luogo della sua nascita. Sarà una battaglia lunga, difficile, in un certo senso cruenta, fatta a colpi di denunce, querele, diffide. Purtroppo la legge sulle Denominazioni di Origine Controllata dei vini nascerà priva di qualsiasi apertura specifica alla vera origine del vino e si impedirà persino l’uso del termine Cru. È solo una battaglia persa: la guerra proseguirà per anni su giornali, riviste e cataloghi; Veronelli non mancherà occasione di attaccare continuamente la cecità e l’ottusità dei nostri governanti e dei loro offiziali finché, passo dopo passo, il termine cru e, soprattutto, il suo concetto di base entreranno a far parte della consuetudine diventando familiari, comuni, tradizionali. Anche le successive leggi non potranno che prendere atto del cambiamento, dell’evoluzione e si adegueranno sostituendo il termine cru con Vigna o Vigneto. Ora sembra del tutto scontato che alcune denominazioni famose abbiano persino regolamentato l’impiego dei loro toponimi, ma tutto ciò non sarebbe stato possibile senza l’ardire e l’ardore di un lucido e spietato combattente come Luigi Veronelli.

La resa per ettaro

Il terzo elemento che determina la qualità di un vino Luigi Veronelli lo capisce raffrontando le nostre produzioni con quelle d’oltralpe: l’occasione gli è data dalla prima edizione del Catalogo Bolaffi dei Vini del Mondo che vedrà le stampe nel 1968 dopo un complesso lavoro durato almeno un paio d’anni. In quei tempi Veronelli incontra molti vignaioli francesi e cerca di capire le ragioni della straordinaria qualità che raggiungono i loro vini. Si soffermerà lungamente sulla questione delle rese per ettaro, argomento del tutto assente nel panorama viticolo italiano; argomento, invece, centrale nella viticoltura francese, che lo utilizza con fierezza. Scoprirà così che la peggiore Apellation francese, quella del Beaujolais, imponeva una produzione più bassa della migliore Denominazione italiana, quella del Barolo. Cinquantacinque ettolitri per ettaro a Beaujolais, cinquantasei sulle migliori colline di Langa, ma con punte estremamente basse (20-30 ettolitri) nei Grand Cru borgognoni o bordolesi, mentre nelle nostre Denominazioni minori si sfioravano i 150 ettolitri per ettaro. Ci mancò pure che un vignaiolo francese, candidamente (?), gli dicesse: «Vede Veronelli, noi abbiamo uve d’argento e facciamo vini d’oro, voi avete uve d’oro ma fate vini d’argento». La misura era colma. Iniziò un combattimento interminabile per la riduzione delle rese nei vigneti con risultati molto discontinui e discordanti, fino alla formazione di veri e propri schieramenti opposti. Alla fine sembra di capire che, in teoria, tutti sarebbero d’accordo nell’attribuire alla riduzione delle rese un ruolo centrale per la qualità dei vini, ma le ragioni economiche, soprattutto quando sono mal pensate e peggio gestite, spesso prendono il sopravvento. Le decine di Cantine sociali che pagano la qualità e non la quantità sono li a dimostrarlo, ma bisognerebbe avere coraggio e intelligenza per non guardare altrove. In sostanza, quella sulle rese è una guerra tuttora in atto, che non lascia intravvedere, a breve, soluzioni positive: avremo bisogno ancora di appellarci a Luigi Veronelli, alla sua saggezza e alla sua combattività.

I vitigni del luogo

Tutta l’azione di Luigi Veronelli tesa a dare lustro e valore al lavoro contadino lo portò a “camminare le vigne” di ogni angolo d’Italia, osservando come a fianco dei grandi vitigni italiani, quasi tutti nelle mani dissacranti e banalizzanti dell’industria enologica, vi fosse anche un gran numero di vitigni minori da un punto di vista produttivo, della cui qualità si sapeva poco. Riteneva che spesso dietro alle scelte contadine si nascondesse un’atavica povertà, la quale poteva diventare cattiva consigliera, per cui riteneva che molti vitigni fossero stati dimenticati non già per le loro caratteristiche qualitative, ma piuttosto perché poco produttivi. La sua opera divulgativa si prefissò di convincere i viticoltori a riservare le migliori attenzioni a questi vitigni e a saperne trarre vini del tutto autentici ed originali con cui differenziarsi dall’industria enologica. A quei tempi non si parlava ancora di vitigni autoctoni, ma la rinascita di questa viticoltura, oggi tanto alla moda, si deve proprio all’impegno e alla lungimiranza di Veronelli. È con queste idee che la viticoltura moderna sta affrontando le straordinarie competizioni commerciali del mercato internazionale, offrendo prodotti non omologati né direttamente equiparabili con altri vini provenienti da ogni parte del mondo. E il successo che stiamo riscuotendo su questo fronte ci permette di avere successo anche con i vini più tradizionali e conosciuti in tutto il mondo; in sostanza la battaglia del sangiovese, del nebbiolo, dell’aglianico e così via si sta vincendo anche con l’aiuto dell’arneis, del timorasso, del pelaverga, del pecorino, del tintilia, del perricone, del bovale e dei tanti altri vitigni di cui l’Italia tutta è straordinariamente ricca.

La barrique

Mai battaglia fu così nettamente vinta dai perdenti: quest’ossimoro potrebbe essere l’estrema sintesi di una forsennata disputa enologica combattuta più sulla carta stampata che nelle cantine italiane. Veronelli ha avuto più strali, insulti, ingiurie e irrisioni per aver sostenuto un vecchio proverbio che non per le provocazioni intellettuali ed enogastronomiche di tutta la sua vita. Nella botte piccola il vino buono: questo il proverbio che Luigi Veronelli osò rispolverare dopo anni di dominio industriale e commerciale dell’enologia italiana e tutti i servi dell’industria levarono le loro spade minacciose e roboanti. La battaglia della barrique si è ormai sopita e ha lasciato spazio ad un più civile dialogo fra le parti, ma non ha mai perso quello strato ideologico e rancoroso che caratterizzò i detrattori di questo universale strumento enologico.

Tutto iniziò nel 1982 con un viaggio di studio organizzato da Veronelli in California. Erano gli anni nei quali si consolidò il successo della viticoltura statunitense e si volevano capire le ragioni di una così repentina ed inarrestabile svolta. In California si scoprì che ogni cantina era piena di barriques, le piccole botti di rovere francesi che pure Veronelli aveva già visto negli Chateaux francesi, senza mai attribuir loro un ruolo tanto determinante per la qualità dei vini così affinati, pensando sempre che la qualità dovesse nascere da un insieme di fattori. In California si vide, invece, quanto erano determinanti questi botticelle nella qualità e personalità dei vini. Emblematica fu la telefonata di Giacomo Bologna alla moglie Anna, nella quale le preannunciava cambiamenti radicali in cantina. Era, dunque, il 1982 e con questo millesimo nacquero vini come il Bricco dell’Uccellone ed il Maurizio Zanella: barbera da una parte e cabernet e merlot dall’altra, tutti affinati in barriques francesi. Di queste botticelle si dice che in Italia ne sapessero qualche cosa Giacomo Tachis e Angelo Gaja, che le stavano sperimentando su alcuni vini, ma tutto restò chiuso nel silenzio delle rispettive cantine. Oggi le barriques, dopo anni di uso ed abuso qualche volta dissennato, sono diffuse in ogni angolo del Paese e, anche se è in corso una fase di ripensamento o di perfezionamento, rimangono alla base del successo del vino italiano nel mondo. Riprendendo, però, l’ossimoro iniziale, non c’è stata cantina in Italia che non abbia beneficiato dall’avvento delle barrique, perché anche i produttori più tradizionalisti o conservatori che ci siano oggi lavorano con botti mediamente più piccole rispetto a quelle del passato, con legni spesse volte francesi, con botti più pulite e ben conservate e, soprattutto, con una sorta di data di scadenza, in quanto si è capito che una botte non è uno strumento perenne ma va sostituita non appena non garantisca più efficienza enologica e pulizia organolettica.

Quanto sia stata determinante e insostituibile la figura di Luigi Veronelli nella viticoltura e nell’enologia italiana lo abbiamo sintetizzato in questi pochi ma basilari temi, con il fine di far conoscere il suo pensiero e la sua azione alle giovani generazioni o alle persone che si sono avvicinate al vino solo recentemente. Questi argomenti ed il modo nel quale sono stati trattati speriamo restino come stimolo al dialogo e al confronto indirizzati verso il miglioramento costante della nostra viticoltura e della nostra enologia. Quel che ci dispiace è che non sappiamo quali percorsi, quali sviluppi avrebbero preso tre argomenti che Veronelli non poté portare a compimento: le DeCo, il Prezzo sorgente e l’Olio secondo Veronelli. Tre argomenti distanti tra di loro, ma centrali per lo sviluppo dell’agricoltura italiana; tre temi che restano al centro delle nostre attenzioni, ma che, forse, solo Luigi Veronelli avrebbe potuto sviluppare con efficacia.

Fotografie di Francesco Radino


Gigi_Brozzoni

Gigi Brozzoni

Curatore della Guida Oro I Vini di Veronelli nato e residente a Bergamo, dopo molteplici esperienze maturate nel campo teatrale e nella progettazione di arredi, nel 1986 incontra Luigi Veronelli. La passione per il vino lo spinge a costanti frequentazioni gastronomiche finché nel 1988 arriva al Seminario Permanente Luigi Veronelli di cui assume la direzione nel 1989. Vi rimarrà per 25 anni fino al pensionamento nel 2013. Ha diretto la rivista Il Consenso è stato animatore di convegni tecnico-scientifici in ambito viticolo ed enologico e ideatore e conduttore di corsi di analisi sensoriale per professionisti e appassionati. Negli anni Novanta ha curato la redazione dei Cataloghi Veronelli dei Vini Doc e Docg. e dei Vini da Favola. È autore del libro Professione Sommelier che fu adottato come primo manuale sul vino per le scuole alberghiere italiane. Per l’Associazione Le Città del Vino ha curato numerose edizioni de Le Selezioni di Eccellenza dei vini italiani.