Il 30 ottobre scorso, ormai ciascuno di voi lo saprà, è mancato Giorgio Grai, ci è mancato un grande maestro, un uomo che meglio di altri ha insegnato a noi che l’abbiamo conosciuto a fare bene il nostro lavoro, il nostro mestiere; giornalisti e critici, enologi ed agronomi, ristoratori ed enotecari, produttori e consulenti, distributori e venditori. A tutti ha insegnato ad essere attenti e aperti, rigorosi ed esigenti, determinati e corretti; a tutti ha spiegato cosa ci doveva essere in un vino e come dovevamo avvicinarci per coglierne il suo linguaggio e comprenderne il suo significato.

Della sua vita avventurosa e del suo carattere difficile già altri nei giorni scorsi ne hanno scritto e non andremo noi a ripercorrerne il cammino ma andremo ad inseguire quella forza evocativa che le persone preziose ed i vini pregiati riescono ad animare la nostra memoria.

Due ricordi distanti l’uno dall’altro ci affiorano alla mente, uno antico e uno più recente. Quello antico ci porta, sedicenni, a un pranzo domenicale in famiglia con nostro padre che esibisce una bottiglia ad anforetta di Verdicchio dei Castelli di Jesi e versandolo nel bicchiere ci spiega che il nome del vino deriverebbe dal riflesso verdognolo del suo colore; noi lo osserviamo attentamente ma di sfumature verdi non ne percepiamo alcuna, però ci piace al gusto e ci pare di coglierne la preziosità presunta. Quello più recente ci porta a Verona, al Vinitaly di tre anni fa, quando dal folto della folla sbuca una bicicletta ripiegabile, tipo Graziella, che fa slalom tra i visitatori; in sella c’è l’ottantaseienne Giorgio Grai che fermandosi un attimo, ci spiega che non ha né tempo né voglia di camminare e quindi usa il velocipede, e riprende la sua corsa surreale ed onirica assieme.

Non possiamo fare altro che scendere in cantina e cercare una bottiglia, una bottiglia particolare che sappiamo di avere ma non riusciamo a ricordare dove la riponemmo più di venticinque anni fa; poi un bagliore della memoria e la bottiglia eccola lì, ci aspettava, sapeva che era giunto il momento della sua verità. La porto in casa, la appoggio sul tavolo e preparo cavatappi e bicchiere. Ora guardo con attenzione la bottiglia e leggo la sua etichetta che recita così (nell’ordine): Riserva 1988 / VILLA BUCCI / Verdicchio dei Castelli di Jesi / D.O.C. / Imbottigliato all’origine dai viticoltori / Cantina dell’Azienda Agricola / Fratelli Bucci / Ostra Vetere (AN) Italia.

Siamo stati a lungo testimoni del perfetto sodalizio che s’era formato tra Giorgio Grai e Ampelio Bucci che nasce e vive dal contrasto del carattere rigorose e preciso di Giorgio e dal fantasioso e visionario carattere di Ampelio e quindi sappiamo quanto siano stati determinanti per la rinascita del Verdicchio e della sua strabiliante capacità di invecchiare positivamente, in crescita, senza subire il trascorre degli anni ma utilizzandolo per migliorare e farsi sempre più grande.

Ora la bottiglia è stata aperta e il vino è delicatamente sceso nell’ampio bicchiere: lo osserviamo, è perfetto, limpido e lucente col suo colore giallo appena dorato, forse attraversato da un bagliore topazio che non turba la solarità. Annusiamo il vino lasciando immobile il bicchiere per cogliere subito i suoi profumi più leggeri e volatili, poi solleviamo il calice e lo roteiamo per far ossigenare il vino, solo due giri rapidi per non turbare i composti che in questi trentun anni si sono legati. Qualche secondo e accostiamo il naso al calice e cominciamo ad avvertire che il vino ha iniziato a emanare prima lentamente i suoi effluvi, poi accelera sempre più fino a confonderci l’olfatto; una pausa e riprendiamo l’olfazione con una piccola rotazione del calice e il profumo ora si dipana con progressione regolare ma senza alcun ordine di genere.

Miele e più lieve il caramello, agrumi, mela golden, pesca, ananas e frutto della passione, fiori d’acacia, di tiglio e di caprifoglio, una leggerissima cadenza di idrocarburi per poi approdare alla nocciola e alla mandorla a ancora alla cannella e alla vaniglia. L’insieme è vorticoso e travolgente, quasi struggente; aspettiamo a portarlo alla bocca perché temiamo che possa rompersi l’incantesimo che si è creato, ma poi cediamo e beviamo prima un piccolo sorso per avvinare la bocca e poi un più sostanzioso sorso per inondare il cavo orale con tutti i suoi annessi e connessi. Ora il vino lo facciamo scorrere e roteare in bocca affinché tutte le papille possano gustare i suoi sapori, ed anche in bocca si ripete la sequenza olfattiva con un profluvio di sensazioni sostenute dalla leggera alcolicità, dalla vibrante acidità, dalla dolce e delicata glicerina. Ora il vino è deglutito ma in bocca e al naso tornano insistenti i suoi profumi e sapori che si vanno a fondere in un finale di superba eleganza e lunghissima persistenza. Alla fine solo una cosa temiamo: che il vino possa finire prima di aver soddisfatto tutte le nostre curiosità, prima che il suo racconto si sia esaurito ma senza svelare i segreti e la magia che ogni grande vino porta con sé.

Che genio è stato quel Giorgio Grai!


Gigi Brozzoni

Nel 1988 arriva al Seminario Veronelli di cui è direttore fino al 2013. Negli anni Novanta ha curato la redazione dei Cataloghi Veronelli dei vini DOC e DOCG e dei Vini da Favola ; è, inoltre, co-autore del testo Professione Sommelier, edito dalla Casa Editrice Le Monnier di Firenze, primo manuale sul vino per le scuole alberghiere italiane. Dal 1997 è curatore della Guida Oro I Vini di Veronelli.