La langa è un insieme di onde. Sistema collinare dolce, lingue di terra che stanno vicine e sdraiate. E qui, nel comune di Castiglione Falletto, a metà strada tra La Morra e Serralunga, nel cuore dell’ondeggiamento terragno, prende corpo la visione di una collina tonda e perfetta, come fosse la platonica idea di quell’oggetto naturale. E’ il Bricco Boschis, il più prezioso tra i cru dei Fratelli Cavallotto. Da questa collina, idealmente, parte una chiacchierata con Alfio Cavallotto che conduce l’azienda di famiglia insieme al fratello Giuseppe ed alla sorella Laura. I Fratelli Cavallotto sono tra gli associati del Seminario Veronelli.

Semplicità. Natura. Meticolosità. Tre concetti che forse possono racchiudere la vostra filosofia nel produrre e proporre vini.

Semplicità mi sembra una parola chiave. Noi non costruiamo i nostri vini, che sono pura espressione del territorio. Sono vini puliti e naturali.

Questo non significa che non ci sia un pensiero alla base, seguito da un atto creativo.

Noi trasformiamo l’uva. Il lavoro più importante è in vigna. Pratichiamo l’inerbimento dal 1974. Siamo stati una delle prime cantine al mondo a farlo. E dal 1976 non utilizziamo più prodotti di sintesi.

Perché avete compiuto scelte tanto radicali, in un periodo in cui non era certo questo il trend nel mondo del vino?

Perché la nostra famiglia ha sempre coltivato uva, per sé o per venderla. Stare nel campo ogni giorno e stare a contatto con sostanze tossiche è una follia. La scelta ha riguardato noi, la nostra salute prima di tutto. Poi quando prendi la strada,  la scelta riguarda tutto. Si comincia con il terreno e quindi si lascia crescere l’erba. In questo modo si risparmia sugli erbicidi, ma si controlla anche l’erosione. Poi abbiamo reintrodotto i piccoli insetti essenziali all’ecosistema, i piccoli predatori…

Una fatica, comunque. Vi siete mai pentiti?

Siamo stati aiutati sia dall’Istituto sperimentale di viticoltura di Asti che dall’Istituto di Conegliano Veneto. Ma eravamo convinti. Forse agli inizi accumuli un po’ di tensione, ma non puoi tornare indietro perché significherebbe distruggere un ciclo naturale che hai rimesso in piedi.

E i risultati?

Buoni, da subito. Certo qualche problema c’è stato. Se scegli di fare un trattamento sistemico ogni 15 giorni stai al massimo della tranquillità, non hai pensieri. Paghi salato, ma non hai pensieri.

Invece a voi piace “avere pensieri”…

Si, siamo sempre andati avanti. Elaborando. Ora stiamo sperimentando anche l’eliminazione del rame. Per evitare l’accumulo nel terreno. Siamo a trattamenti che contengono 1/80 di rame rispetto alla poltiglia bordolese classica. Negli ultimi cinque anni abbiamo anche sperimentato il rame zero.

Lo avete sostituito con qualcos’altro?

Trattamenti a base di oli essenziali, soprattutto di salvia.

Dove li reperite questi prodotti?

Oramai non è più un settore di nicchia. Vengono prodotti da aziende strutturate. Anche le multinazionali stanno subodorando l’affare e penso che non passerà molto tempo e anche loro proporranno, accanto alla chimica, prodotti come questi.

Un’inversione di tendenza?

Possibile. Noi nel vigneto oramai non abbiamo più malattie. E le abbiamo debellate senza la chimica. Partiamo dalla storia: la fillossera è stata debellata con l’innesto. L’oidio qui si tratta con zolfo di cava, che non lascia residui. E la peronospora la controlliamo con il microdosaggio di rame, che vorremmo eliminare del tutto a favore degli oli essenziali.

Volevamo parlare dei vostri vini e invece abbiamo parlato di terra, di campo, di vigna…

Perché noi facciamo quello, prima di tutto…

Come sarà il mondo del vino tra 20 o 30 anni?

Forse sarà sempre più chiara la differenza tra chi produce un vino/bevanda che viene costruito, aggiustato, raddrizzato senza lavorare sull’intero ciclo e chi invece cerca di fare un vino/vino ovvero espressione di un territorio e di una filosofia, di una scelta nell’azione quotidiana.

 E che sia buono…

Naturalmente. Che sia buono è essenziale. Non importa nulla se è biologico o di territorio e poi non è piacevole. Per essere buono deve stare dentro un quadro, che è un quadro culturale e non solo tecnico. Qui in Piemonte la cultura contadina ha secoli di storia. Eravamo il vigneto di Roma ai tempi di Augusto. E’ un patrimonio da valorizzare.

Come fare per valorizzarlo al meglio?

Quel che manca è un lavoro serio di “istituzionalizzazione della qualità” che tenga conto di tutti i fattori, quello culturale in testa. Invece spesso la qualità viene pensata in funzione di un brand. Il barolo si è quasi trasformato in brand, tutti vogliono fare barolo perché si vende. Ma produrlo al di fuori del suo contesto geoclimatico, non può avere un buono standard qualitativo. E venderlo significa rovinare anche il lavoro di chi lo produce nel terroir giusto.

Qualità  è una parola che da sola, dunque, non significa nulla

Infatti bisogna lavorare sul senso della qualità. Il Seminario Veronelli lo ha sempre fatto, per questo ne facciamo parte. Agli inizi degli anni Novanta quando i vini tradizionali erano finiti nel dimenticatoio il Seminario, assieme a Gino Veronelli, ha continuato a sostenerli. A comunicare l’importanza di una cultura del territorio, di una cultura contadina che valorizzasse i vini, per così dire, classici. E piacevoli. Non bisogna mai dimenticarsi l’importanza della piacevolezza.

E quindi cosa potrebbe o dovrebbe fare il Seminario Veronelli oggi?

Continuare su questa strada e rafforzarla. Divulgare la cultura del terroir, la tipicità dei vini buoni. Spiegare cosa è un vino buono, come si riconosce. E soprattutto farlo rivolgendosi alle giovani generazioni. Bere meno, ma bere veramente bene. Sono cose che si possono e devono comunicare. In questo modo garantiamo un futuro ai vini autentici.

E anche alla gioia di chi ama gustarseli.

Simonetta Lorigliola