Quanti sono gli appassionati di vino ai quali non è mai capitato di porre, porsi o sentirsi porre la fatidica domanda: “Qual è il miglior vitigno?”. Del mondo, d’Europa, d’Italia; bianco, rosso, grigio; per vini spumanti, fermi, passiti… Il giochetto ha tante varianti e da anni ormai viene ciclicamente riproposto in ambito privato, in circoli ristretti, oppure su arene, forum e blog pubblici. Svariate le risposte che nel tempo sono state avanzate. Per la categoria “World’s Best” di solito i vitigni a riuscire vincitori sono Pinot noir e riesling, due varietà che hanno la tendenza a mettere d’accordo un po’ tutti.
Più difficile, però, raggiungere l’unanimità, o anche solo una larga convergenza di opinioni, quando si scende in ambiti più circoscritti. Nei concorsi per “il miglior vitigno italiano” la lotta è ogni volta dura e serrata ed il premio più problematico da assegnare quasi sempre è quello riservato al “miglior vitigno bianco”. I contendenti (perché a contendere – è ovvio – non sono i vitigni, bensì i loro partigiani) facilmente si raggruppano, più che per sintonie ampelografiche, per provenienza geografica o, peggio, per campanile.
Ecco allora spuntare gli accaniti fans campani del fiano (spesso ulteriormente divisi tra estimatori del fiano di Montefredane ed estimatori di quello di Lapio), incalzati dai corregionali ultras del greco; ma subito spuntano gli aficionados veneti della garganega (a loro volta suddivisi tra gli alfieri di Monteforte d’Alpone e quelli di Soave) a reclamare la palma per il loro campione, presto raggiunti e sommersi dagli strepiti marchigiani dei patiti del verdicchio. Non dobbiamo, poi, dimenticarci dei seguaci liguri del pigato, né di quelli sardi o toscani del vermentino (varietà peraltro sostenuta dagli stessi liguri, vuoi come vitigno distinto vuoi più opportunamente come variante di pigato).
Talvolta qualche sussulto proviene persino dal lombardo-veneto, dove v’è chi protesta la superiorità della turbiana, alias trebbiano di Lugana, alias (pare) di nuovo verdicchio. È un giochino divertente, a patto che venga inteso come un allegro pretesto per mettere in piedi conviviali disfide a suon di bevute, alle fine delle quali in linea di massima chi ne esce vincitore è l’atroce mal di testa che affligge i giudici della contesa dopo almeno una decina di batterie di dorati calici inesorabilmente scolati fino all’ultima goccia.
Più sciocco sarebbe, invece, pretendere di eleggere in via definitiva un vincitore, perché davvero troppe sono le variabili in gioco, per non parlare, poi, delle eccezioni. Solo per fare un esempio, infatti, per anni si è definito il trebbiano d’Abruzzo una varietà minore, salvo poi accorgersi che uno dei migliori vini bianchi italiani viene prodotto proprio con questo vitigno (probabilmente con l’aggiunta di una piccola percentuale di bombino); ma anche qui, grande è il trebbiano, sebbene dai più incompreso e male interpretato, o grande è la mano di Valentini?
Se, tuttavia, si scegliesse di risolvere la questione con metodi democratici (che in realtà, dobbiamo confessarlo, non ci entusiasmano troppo nemmeno a proposito di vino) bisognerebbe affidarsi al peso della maggioranza ed in questo caso probabilmente il buon verdicchio avrebbe parecchie possibilità di vittoria, almeno da quando ha smesso di pavoneggiarsi solo nelle folkloristiche anforette per mostrare al mondo tutte le sue “nude” virtù. Notevoli ed assai numerosi sono, infatti, gli esempi di eccellenza che questo vitigno è riuscito ad esprimere, soprattutto nella zona classica dei Castelli di Jesi, ma anche in quella più severa e periferica di Matelica.
Mirabile in questo senso è quanto ci ha raccontato una bottiglia di Stefano Antonucci, proprietario dell’azienda Santa Barbara di Barbara (Ancona), stappata qualche sera fa per festeggiare “a distanza” il compleanno di un caro amico che sfortunatamente non incontro da troppo tempo. Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Le Vaglie 2010, questo il nome in etichetta, preludio ad un vino di colore giallo paglierino scaldato da riflessi dorati ancora appena abbozzati, che letteralmente spruzza nelle narici vigorosi sbuffi salmastri accompagnati da una lievissima speziatura e da un frutto di equilibrata maturità, non troppo acerbo ed allappante, né surmaturo e cascante, bensì integro, forse un filo amaricante, con leggero richiamo di buccia bianca di pompelmo che dona tocco citrino insieme
ad un accenno di arancia amara; in bocca è fresco, netto e pulito, stimolante e piacevole, sapido e lungo nel finale; di indole giovanile e pimpante, eppure già capace di compostezza e riflessione.
È, dunque, il verdicchio il miglior vitigno bianco d’Italia? L’abbiamo detto, così impostato il giochino non ci piace; troppo banale nella sua semplicistica brutalità. Del resto già lo scrisse Dante: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Un monito che vogliamo continuare, appunto, a “seguire” pedissequamente e ad oltranza.
Marco Magnoli